venerdì 5 giugno 2015

IL NOSTRO DESTINO: L’«ETERNITA'» (PREMESSA)


Oggi, visto che si parla di crisi economica, il problema è determinato soprattutto dalla situazione economica del nostro paese, dell’Europa ed in qualche modo del pianeta (Vedi post Novembre 2013 La crisi Economica). Però quando si ha preoccupazione di risolvere il problema economico, questa preoccupazione riguarda la nostra volontà di sopravvivere. E sopravvivere significa vincere la morte. Qualunque cosa noi facciamo per risolvere i nostri problemi ci occupiamo sempre di questo tema, di questa ombra che riguarda tutti; cioè la volontà di allontanare la morte, di sopravvivere nel modo migliore, il che equivale ad arrivare nel modo migliore (se ci si deve arrivare) alla morte. 

La parola «Gloria» indica appunto la volontà di sopravvivenza. Significa l’allontanare il più possibile il momento della morte. Nella parola «Gloria» risuona la parola «klamo»; infatti noi diciamo «acclamare». Anche la parola greca «kleos» vuol dire «chi sta in una situazione di visibilità perdurante, che ha preso le distanze il più possibile dal momento della morte». 

La tematica della «Gloria» nel suo significato autentico è come il «tetto» di una casa, del quale non si capisce nulla se non si sa che la casa si appoggia sulle "fondamenta" e le "fondamenta" si radicano nel terreno. Per forza di cose noi saremo costretti a parlare del «tetto» lasciando da parte le "fondamenta", che però danno significato al «tetto». Soprattutto perché la casa, di cui si sta parlando, non è una casa qualsiasi, ma è la casa del sapere «incontrovertibile».

La Filosofia nasce (e se non si sa questo, non si sa nulla della Filosofia) prendendo le distanze da ogni forma del controvertibile, e quindi innanzitutto dal mito, e da tutti i miti da cui la Filosofia è preceduta e seguita. Il mito è qualcosa di molto più ampio del mito religioso, anche le forme del senso comune sono miti. Noi viviamo immersi nel mito. Ma anche la Scienza è un mito, soprattutto da quando la Scienza riconosce di essere non più, come pensava Galileo, un sapere «incontrovertibile», ma riconosce di essere un sapere ipotetico-deduttivo. Un’ipotesi si dice, infatti, falsificabile. Laddove al contrario la Filosofia ha evocato questa idea di un sapere che né uomini, né variazioni di tempi e nemmeno un Dio onnipotente possono cambiare.

Allora ecco il problema di parlare del «tetto» dovendo lasciare consistentemente nell’ombra il tema del fondamento, cioè dell’«incontrovertibile», cioè il tema che – per la sua importanza, imponenza – merita di essere chiamato il tema del «destino». Non nel significato usuale della parola, ma perché nella parola «de-stino» risuona quella radice «sta» indo-europea che indica lo stare, inamovibile, che non si lascia scuotere da alcunché.


Primo: ogni istante è «Eterno». E per istante non si intende semplicemente lo scatto dell’orologio, ma ciò che in questo scatto va manifestandosi. Affermiamo l’«Eternità» di ogni istante, di ogni attimo (questa è la tesi scandalosa). È scandalosa anche se qualcuno arriva a sapere che (cosa che non sempre si tiene presente) la «Teoria della Relatività» afferma, esplicitamente, che il futuro e il passato non sono meno reali del presente. Dunque, ogni essente è «Eterno», allora, tesi per tesi, bisogna tener presente, appunto,  che la «Teoria della Relatività» (sebbene limitatamente al cronotopo quadridimensionale, cioè alla realtà spazio-temporale) enunciando che il futuro e il passato non sono meno reali del presente, enuncia la «permanenza e l’Eternità» di ogni stato del mondo. Ciononostante il «destino» che afferma l’«Eternità» di ogni essente non può essere confuso con la «Teoria della Relatività», per quanto dicevamo prima: questa Teoria, per quanto straordinaria, è comunque una Teoria ipotetica. Mentre dicevamo che il «destino» è ciò che nemmeno Dio onnipotente può smentire. 

E questo è il primo scandalo: la tesi dell’«Eternità» di tutto. Se ci ricordiamo che «Gloria» è allontanamento della morte, e quindi immortalità, e quindi «Eternità», lo scandalo cresce perché dicendo che ogni istante del mondo (ma poi ogni essente) è «Eterno» veniamo a dire, niente di meno, che ogni istante è glorioso. Se appunto «Gloria» vuol dire lo stare al di là della caducità e della morte. 

Ma c’è un secondo scandalo che riguarda la parola «Gloria» nel suo significato compiuto che dice: «tutto è Eterno», ma allora il variare del mondo? Questo variare, che anche se noi siamo seduti ha una miriade di sfaccettature? Cosa è questo variare? La risposta (essa stessa scandalosa) è che, poiché «tutto è Eterno», il variare è il farsi innanzi via via degli eterni. «Eterno» questo nostro guardarci in questo momento che, sopraggiunto si è fatto innanzi, rispetto a quella situazione abbastanza simile che era l’istante precedente e gli istanti ancora precedenti. Quindi scandalosa questa tesi perché subito ci viene in mente questa obiezione: ma se ogni essente è glorioso, allora anche il dolore del mondo è glorioso? Anche l’agonia è gloriosa? Anche i dolori del mondo sono gloriosi? Anche Auschwitz è glorioso? Come la mettiamo con questo tipo di obiezione? Dicevo prima che c’è questo significato di fondo della parola «Gloria» che è il «comun denominatore» della ricca fenomenologia di tale parola. Non è che si tratti di una tematica, così affrontata, che non riguardi i grandi miti e le gradi espressioni religiose. 

Se leggiamo verso la fine del Vangelo di Luca che cosa dice il testo ad esempio. Ebbene Luca dopo aver narrato la passione, la morte e la resurrezione di Cristo se ne esce con questa affermazione: non fu dunque opportuno che Cristo patisse queste cose (ciò che aveva prima narrato, la passione la morte) e così entrare nella sua «Gloria»? Dio, fatto uomo entra nella sua «Gloria». 

Ma possiamo figurarci un Cristo che, oramai glorioso, siede alla destra del Padre avendo oramai dimenticato il proprio patimento? Cristo dimentica ciò per cui è divenuto «salvatore dell’umanità»? Nella «Gloria» può dimenticare il proprio patimento? Penso che tutti rispondiamo no, perché così Cristo sarebbe regredito ad una forma di insipienza. Bisogna che questo patimento lo abbia davanti, non solamente ricordandolo. Perché quando noi diciamo di ricordare qualcosa, ci riferiamo ad una immagine che lascia al di fuori di sé la concretezza di ciò che ricordiamo. Ricordiamo la giornata di ieri, ma l’immagine non ci restituisce tutta la densità che costituisce la giornata di ieri. Se Cristo siede glorioso alla destra del Padre, e non può dimenticare il proprio patimento, non può nemmeno limitarsi a ricordarlo, se il ricordo è semplicemente l’immagine di una concretezza perduta. E allora? 

Allora il patimento subito dal Cristo deve essere lì presente, in carne ed ossa, perché se mancasse qualcosa a questo patimento Cristo regredirebbe da capo a quell’insipienza che prima avevamo escluso. Questo per dire che l’obiezione che ci viene spontanea, «tutti i dolori del mondo sono anch’essi eterni in quanto essenti», è un’obiezione che possiamo riferire anche alla situazione cristica. 

Un cristiano non può accettare l’idea di un Cristo che abbia dimenticato il sacrificio da lui compiuto, non perché il pensiero filosofico debba accodarsi alle varie forme, pur grandissime, del mito. Anzi, dicevamo prima, la Filosofia nasce come negazione di ogni forma mitica, perché inevitabilmente sentendo la tesi che «tutto è Eterno» si fa avanti la tesi che anche il dolore patito dall’umanità, nel presente, nel passato e nel futuro, sia «Eterno» e che quindi noi avremo sempre a che fare con il dolore. Ma in che modo? Qui la divaricazione rispetto al racconto cristiano si fa netta. 

Questa volta il riferimento è alla fine dell’Apocalisse di Giovanni, dove Giovanni dice: «col giudizio finale diverrà “nulla” il vecchio cielo e la vecchia terra, essi si annienteranno». Ecco: il passato diventa «niente»; risulta chiaro che questa affermazione è in totale rotta di collisione con l’affermazione che ogni istante è «Eterno», ma il Cristianesimo dice questo, oramai, insieme al senso comune dell’Occidente del pianeta, insieme alla Scienza, insieme alle altre religioni, soprattutto quelle monoteistiche, le quali religioni parlano delle creature prodotte come «ex nihilo» e cioè dicendo che “di per sé” sono «niente». Le cose hanno bisogno, per uscire dal «niente», di una forza originariamente salvifica e conclusivamente salvifica che per quanto riguarda il Cristianesimo culmina nel concetto di «Resurrezione». Prima di diventare gloriosi si annientano e poi occorre la Grazia di Dio perché vengano, daccapo, rimessi nell’«Essere» e fatti uscire dal «Nulla». 

Insistiamo ancora sul carattere scandaloso che si porta dietro la parola «de-stino»: analizzando il significato autentico del concetto di «Gloria», dobbiamo dire che se il variare delle cose è il sopraggiungere degli eterni allora «Gloria» significa che questo sopraggiungere non ha mai termine, è uno sviluppo all’infinito che oltrepassa tutto ciò che va, via via, sopraggiungendo. Allora oltrepassa anche tutte le forme del mito che noi possiamo chiamare, raccogliendole tutte in una categoria, le forme della «terra isolata dal destino». «Gloria» è l’infinito oltrepassamento. E questo è, in un qualche modo, ancora più scandaloso, perché vuol dire la nostra destinazione alla «vita eterna». 

Allora tutti gli eterni sopraggiungono nell’apparire, ma l’apparire è «nulla»? No, è un essente. Quindi è «Eterno». Ma noi siamo questo apparire. Quindi noi siamo l’«Eterno» apparire del sopraggiungere degli eterni. E questo apparire è una stanza vuota che viene via via riempita? Nemmeno. Tutto questo è appunto il contenuto del «destino». Nessuna cosa può apparire senza ciò che le conviene essenzialmente, cioè senza il «destino». Noi siamo l’apparire di questa sapienza; di più: noi siamo l’«Eterno» apparire di questa sapienza. Nulla di ciò che sopraggiunge può essere inoltrepassabile. Tutto ciò che sopraggiunge spinge oltre. Per quello che prima, parlando dello scandalo del concetto di «Gloria», siamo destinati alla «Gloria» e cioè siamo destinati all’infinito oltrepassamento di tutto ciò che sopraggiunge, e quindi all’infinito oltrepassamento di ciò che abbiamo chiamato «la terra isolata dal destino», cioè la terra dell’insieme dei miti, nei quali noi, per lo più, viviamo. 

L’Apocalisse dice che la terra vecchia sarà annientata, ed avevamo rilevato che questa affermazione è in rotta di collisione con l’affermazione che «tutto è Eterno». Recuperiamo anche il concetto dell’«Eternità» del dolore e dell’agonia. Sì, «tutto è Eterno» anche il dolore e l’agonia, ma non nel «senso» che debba essere annullato, o debba essere conservato così come si presenta, ma nel «senso» che è infinitamente oltrepassato. 

Ancora una volta ci serviamo del racconto evangelico: Cristo è nella «Gloria», ricorda la totalità del proprio patimento, ma questo ricordo non sommerge la «Gloria» che oltrepassa infinitamente il patimento. Se noi immaginiamo una felicità che ignori il patimento saniamo qualcosa di vano. La felicità include necessariamente il patimento, come infinitamente oltrepassato. 

In conclusione Ci troviamo nella condizione dei cacciatori che guardando gli uccelli vogliono catturarli, e in questa loro bramosia non tengono conto del cielo che si staglia sullo sfondo del volo degli uccelli. Allora: il cielo, che il cacciatore non cura, siamo noi. Noi come «Eterno» apparire degli eterni e come «Eterno» apparire del sopraggiungere degli eterni. Il cacciatore non intende il volo degli uccelli come un sopraggiungere degli eterni, lo intende come ciò che vuole dominare e catturare. Ma la volontà di catturare, dominare, prevalere, di vincere è la «volontà di potenza» che oggi sta scatenando sulla terra tutta una molteplicità di conflitti. 

Questa volontà di dominio che è presente nelle cose abiette come nelle cose nobili, presuppone la dimenticanza di ciò che noi abbiamo chiamato «destino», di ciò che noi siamo. Noi siamo il cielo che crede di essere i cacciatori. Altre volte  noi siamo re che si credono mendicanti; questa volta possiamo concludere dicendo che la regalità che noi siamo, questa regalità che ci destina alla «Gloria» infinita, è la negazione più radicale della «volontà di potenza». È la negazione più radicale dell’ignoranza che ci fa dimenticare appunto il nostro essere l’«eterno apparire del destino».


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