Oggi, visto che si parla di crisi economica, il problema è
determinato soprattutto dalla situazione economica del nostro paese,
dell’Europa ed in qualche modo del pianeta (Vedi post Novembre 2013
La crisi Economica). Però quando si ha preoccupazione di risolvere il problema
economico, questa preoccupazione riguarda la nostra volontà di sopravvivere. E
sopravvivere significa vincere la morte. Qualunque cosa noi facciamo per
risolvere i nostri problemi ci occupiamo sempre di questo tema, di questa ombra
che riguarda tutti; cioè la volontà di allontanare la morte, di sopravvivere
nel modo migliore, il che equivale ad arrivare nel modo migliore (se ci si deve
arrivare) alla morte.
La parola «Gloria»
indica appunto la volontà di sopravvivenza. Significa l’allontanare il
più possibile il momento della morte. Nella parola «Gloria» risuona la parola «klamo»; infatti noi diciamo «acclamare». Anche la parola
greca «kleos» vuol
dire «chi sta in una situazione di visibilità perdurante, che ha preso le
distanze il più possibile dal momento della morte».
La
tematica della «Gloria» nel suo significato autentico è come il «tetto» di una casa,
del quale non si capisce nulla se non si sa che la casa si appoggia sulle "fondamenta" e le "fondamenta" si radicano nel terreno. Per forza di cose noi saremo costretti
a parlare del «tetto» lasciando da parte le "fondamenta", che però danno
significato al «tetto». Soprattutto perché la casa, di cui si sta parlando, non
è una casa qualsiasi, ma è la casa del sapere «incontrovertibile».
La Filosofia
nasce (e se non si sa questo, non si sa nulla della Filosofia)
prendendo le distanze da ogni forma del controvertibile, e quindi innanzitutto
dal mito, e da tutti i miti da cui la Filosofia è preceduta e seguita. Il mito
è qualcosa di molto più ampio del mito religioso, anche le forme del senso
comune sono miti. Noi viviamo immersi nel mito. Ma anche la Scienza è un mito,
soprattutto da quando la Scienza riconosce di essere non più, come
pensava Galileo, un sapere «incontrovertibile», ma riconosce di essere un sapere
ipotetico-deduttivo. Un’ipotesi si dice, infatti, falsificabile. Laddove al
contrario la Filosofia ha evocato questa idea di un sapere che né uomini, né
variazioni di tempi e nemmeno un Dio onnipotente possono cambiare.
Allora ecco il problema di parlare del «tetto» dovendo lasciare
consistentemente nell’ombra il tema del fondamento, cioè dell’«incontrovertibile»,
cioè il tema che – per la sua importanza, imponenza – merita di essere chiamato
il tema del «destino». Non nel significato usuale della parola, ma
perché nella parola «de-stino»
risuona quella radice «sta»
indo-europea che indica lo stare, inamovibile, che non si lascia scuotere da
alcunché.
Primo: ogni istante è «Eterno». E per istante non si intende
semplicemente lo scatto dell’orologio, ma ciò che in questo scatto va
manifestandosi. Affermiamo l’«Eternità» di ogni istante, di ogni attimo (questa
è la tesi scandalosa). È scandalosa anche se qualcuno arriva a sapere che (cosa
che non sempre si tiene presente) la «Teoria della Relatività» afferma, esplicitamente, che il futuro e il passato non sono
meno reali del presente. Dunque, ogni essente è «Eterno», allora, tesi per
tesi, bisogna tener presente, appunto, che
la «Teoria
della Relatività» (sebbene limitatamente al cronotopo quadridimensionale, cioè
alla realtà spazio-temporale) enunciando che il futuro e il passato non sono
meno reali del presente, enuncia la «permanenza e
l’Eternità» di ogni stato del mondo. Ciononostante il «destino»
che afferma l’«Eternità» di ogni essente non può essere confuso con la «Teoria della Relatività», per quanto dicevamo
prima: questa Teoria, per quanto straordinaria, è comunque una Teoria
ipotetica. Mentre dicevamo che il «destino»
è ciò che nemmeno Dio onnipotente può smentire.
E questo è il primo scandalo: la tesi dell’«Eternità» di tutto.
Se ci ricordiamo che «Gloria» è allontanamento della morte, e quindi
immortalità, e quindi «Eternità», lo scandalo cresce perché dicendo che ogni
istante del mondo (ma poi ogni essente) è «Eterno» veniamo a dire, niente di
meno, che ogni istante è glorioso. Se appunto «Gloria» vuol dire lo stare al di
là della caducità e della morte.
Ma
c’è un secondo scandalo che riguarda la parola «Gloria» nel suo
significato compiuto che dice: «tutto è Eterno», ma allora il variare del mondo? Questo variare, che anche se
noi siamo seduti ha una miriade di sfaccettature? Cosa è questo variare? La
risposta (essa stessa scandalosa) è che, poiché «tutto è Eterno», il variare è il farsi
innanzi via via degli eterni. «Eterno» questo nostro guardarci in questo
momento che, sopraggiunto si è fatto innanzi, rispetto a quella situazione
abbastanza simile che era l’istante precedente e gli istanti ancora precedenti.
Quindi scandalosa questa tesi perché subito ci viene in mente questa obiezione:
ma se ogni essente è glorioso, allora anche il dolore del mondo è glorioso?
Anche l’agonia è gloriosa? Anche i dolori del mondo sono gloriosi? Anche
Auschwitz è glorioso? Come la mettiamo con questo tipo di obiezione? Dicevo
prima che c’è questo significato di fondo della parola «Gloria» che è il «comun denominatore» della
ricca fenomenologia di tale parola. Non è che si tratti di una tematica, così
affrontata, che non riguardi i grandi miti e le gradi espressioni religiose.
Se leggiamo verso la fine del Vangelo di
Luca che cosa dice il testo ad esempio. Ebbene Luca dopo aver narrato
la passione, la morte e la resurrezione di Cristo se ne esce con questa
affermazione: non fu dunque opportuno
che Cristo patisse queste cose (ciò che aveva prima
narrato, la passione la morte) e così entrare nella sua
«Gloria»? Dio, fatto uomo entra
nella sua «Gloria».
Ma possiamo
figurarci un Cristo che, oramai glorioso, siede alla destra del Padre
avendo oramai dimenticato il proprio patimento? Cristo dimentica ciò per cui è
divenuto «salvatore dell’umanità»? Nella «Gloria» può dimenticare il
proprio patimento? Penso che tutti rispondiamo no, perché così Cristo sarebbe
regredito ad una forma di insipienza. Bisogna che questo patimento lo abbia
davanti, non solamente ricordandolo. Perché quando noi diciamo di ricordare
qualcosa, ci riferiamo ad una immagine che lascia al di fuori di sé la
concretezza di ciò che ricordiamo. Ricordiamo la giornata di ieri, ma
l’immagine non ci restituisce tutta la densità che costituisce la giornata di
ieri. Se Cristo siede glorioso alla destra del Padre, e non può dimenticare il
proprio patimento, non può nemmeno limitarsi a ricordarlo, se il ricordo è
semplicemente l’immagine di una concretezza perduta. E allora?
Allora il patimento subito dal Cristo
deve essere lì presente, in carne ed ossa, perché se mancasse qualcosa a questo
patimento Cristo regredirebbe da capo a quell’insipienza che prima avevamo
escluso. Questo per dire che l’obiezione che ci viene spontanea, «tutti i dolori del mondo sono
anch’essi eterni in quanto essenti», è un’obiezione che possiamo riferire
anche alla situazione cristica.
Un
cristiano non può accettare l’idea di un Cristo che abbia dimenticato
il sacrificio da lui compiuto, non perché il pensiero filosofico debba
accodarsi alle varie forme, pur grandissime, del mito. Anzi, dicevamo prima, la
Filosofia nasce come negazione di ogni forma mitica, perché inevitabilmente
sentendo la tesi che «tutto è Eterno» si fa avanti la tesi che anche il dolore patito dall’umanità,
nel presente, nel passato e nel futuro, sia «Eterno» e che quindi noi avremo
sempre a che fare con il dolore. Ma in che modo? Qui la divaricazione rispetto
al racconto cristiano si fa netta.
Questa
volta il riferimento è alla fine dell’Apocalisse di Giovanni, dove
Giovanni dice: «col giudizio finale
diverrà “nulla” il vecchio cielo e la vecchia terra, essi si annienteranno». Ecco: il passato
diventa «niente»; risulta chiaro che questa affermazione è in totale rotta di
collisione con l’affermazione che ogni istante è «Eterno», ma il Cristianesimo
dice questo, oramai, insieme al senso comune dell’Occidente del pianeta,
insieme alla Scienza, insieme alle altre religioni, soprattutto quelle
monoteistiche, le quali religioni parlano delle creature prodotte come «ex nihilo» e
cioè dicendo che “di per sé” sono «niente». Le cose hanno bisogno, per uscire
dal «niente», di una forza originariamente salvifica e conclusivamente salvifica
che per quanto riguarda il Cristianesimo culmina nel concetto di «Resurrezione». Prima di diventare
gloriosi si annientano e poi occorre la Grazia di Dio perché vengano, daccapo,
rimessi nell’«Essere» e fatti uscire dal «Nulla».
Insistiamo ancora sul carattere scandaloso che si porta
dietro la parola «de-stino»:
analizzando il significato autentico del concetto di «Gloria», dobbiamo dire
che se il variare delle cose è il sopraggiungere degli eterni allora «Gloria»
significa che questo sopraggiungere non ha mai termine, è uno sviluppo
all’infinito che oltrepassa tutto ciò che va, via via, sopraggiungendo. Allora
oltrepassa anche tutte le forme del mito che noi possiamo chiamare,
raccogliendole tutte in una categoria, le forme della «terra isolata dal destino». «Gloria» è l’infinito oltrepassamento. E questo è, in un
qualche modo, ancora più scandaloso, perché vuol dire la nostra destinazione
alla «vita
eterna».
Allora tutti gli eterni
sopraggiungono nell’apparire, ma l’apparire è «nulla»? No, è un essente. Quindi
è «Eterno». Ma noi siamo questo apparire. Quindi noi siamo l’«Eterno» apparire
del sopraggiungere degli eterni. E questo apparire è una stanza vuota che viene
via via riempita? Nemmeno. Tutto questo è appunto il contenuto
del «destino». Nessuna cosa può
apparire senza ciò che le conviene essenzialmente, cioè senza il «destino». Noi siamo l’apparire di questa
sapienza; di più: noi siamo l’«Eterno» apparire di questa sapienza. Nulla di
ciò che sopraggiunge può essere inoltrepassabile. Tutto ciò che sopraggiunge
spinge oltre. Per quello che prima, parlando dello scandalo del concetto di «Gloria»,
siamo destinati alla «Gloria» e cioè siamo destinati all’infinito
oltrepassamento di tutto ciò che sopraggiunge, e quindi all’infinito
oltrepassamento di ciò che abbiamo chiamato «la
terra isolata dal destino», cioè la terra dell’insieme dei miti, nei quali
noi, per lo più, viviamo.
L’Apocalisse
dice che la terra vecchia sarà annientata, ed avevamo rilevato che
questa affermazione è in rotta di collisione con l’affermazione che «tutto è Eterno». Recuperiamo anche il
concetto dell’«Eternità» del dolore e dell’agonia. Sì, «tutto è Eterno» anche il dolore e
l’agonia, ma non nel «senso» che debba essere annullato, o debba essere
conservato così come si presenta, ma nel «senso» che è infinitamente
oltrepassato.
Ancora una volta ci
serviamo del racconto evangelico: Cristo è nella «Gloria», ricorda la
totalità del proprio patimento, ma questo ricordo non sommerge la «Gloria» che
oltrepassa infinitamente il patimento. Se noi immaginiamo una felicità che
ignori il patimento saniamo qualcosa di vano. La felicità include
necessariamente il patimento, come infinitamente oltrepassato.
In conclusione Ci troviamo nella
condizione dei cacciatori che guardando gli uccelli vogliono
catturarli, e in questa loro bramosia non tengono conto del cielo che si
staglia sullo sfondo del volo degli uccelli. Allora: il cielo, che il
cacciatore non cura, siamo noi. Noi come «Eterno» apparire degli eterni e come
«Eterno» apparire del sopraggiungere degli eterni. Il cacciatore non intende il
volo degli uccelli come un sopraggiungere degli eterni, lo intende come ciò che
vuole dominare e catturare. Ma la volontà di
catturare, dominare, prevalere, di vincere è la «volontà di potenza» che oggi sta
scatenando sulla terra tutta una molteplicità di conflitti.
Questa volontà di
dominio che è presente nelle cose abiette come nelle cose nobili, presuppone la
dimenticanza di ciò che noi abbiamo chiamato «destino»,
di ciò che noi siamo. Noi siamo il cielo che crede di essere i cacciatori.
Altre volte noi siamo re che si credono
mendicanti; questa volta possiamo concludere dicendo che la regalità che noi
siamo, questa regalità che ci destina alla «Gloria» infinita, è la negazione più
radicale della «volontà di potenza». È la negazione più radicale dell’ignoranza
che ci fa dimenticare appunto il nostro essere l’«eterno apparire del destino».
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