Dio, facendosi uomo, «Ha accettato liberamente
la sofferenza. Avrebbe potuto non farlo» (Giovanni Paolo II ,Varcare la soglia della
speranza, 1994 Mondadori, cap. 11). Tale «Libertà» non può significare altro
che questo: Dio avrebbe mantenuto tutta l' infinita perfezione che gli compete, anche
se non avesse accettato la sofferenza e non si fosse fatto uomo. Incarnandosi,
Dio non diventa qualcosa di più di ciò che sarebbe se avesse rifiutato la
sofferenza. Se, incarnandosi e soffrendo, Dio raggiungesse una perfezione
maggiore di quella che avrebbe rimanendo nella sua pura felicità senza dolore,
il suo farsi uomo e soffrire non sarebbe «Libero», ma «Necessario», perché
sarebbe necessariamente richiesto dalla sua perfezione. Il perfetto non sarebbe
potuto rimanere meno perfetto.
Ma
subito dopo il pontefice : «Se fosse mancata quell’ agonia sulla croce, la verità che
Dio e' Amore sarebbe sospesa nel vuoto», cioè cadrebbe. Tuttavia, se Dio e' «Amore» perché
muore sulla croce, certamente non sarebbe «Amore» se non si fosse fatto
crocifiggere, ma non per questo sarebbe stato meno perfetto e meno divino.
E' vero che il dolore dell'
uomo, creato da un Dio non sofferente, sarebbe meno comprensibile; ma e' al
prezzo di una profonda ambiguità e, in sostanza, di una irrimediabile
contraddizione , che il Cristianesimo e' riuscito a far sembrare più comprensibile
la sofferenza dell'uomo. Se anche Dio soffre, l' uomo può forse sopportare
meglio il dolore; ma la sopportazione cristiana include la convinzione che un
Dio «Amore» e' di più , e' più alto e perfetto, più divino di un Dio che
allontana da sé il calice della sofferenza.
Ma, in questo modo, Dio non e' più «Libero» di non patire,
perché non e' «Libero» di essere meno perfetto e cioè di non essere Dio. L'
ambiguità e la contraddizione della tradizione cristiana , giacché e' a tale
tradizione che esse competono, e non soltanto a quella pagina di Giovanni Paolo
II, consistono nel fatto che, da un lato, l' «Amore» di Dio e' ciò in cui
culmina la perfezione e la divinità di Dio; e dall'altro lato, poiché Dio e'
«Libero», se quell' «Amore» fosse stato assente e fosse mancata l' «Agonia sulla Croce», Dio non sarebbe stato meno perfetto e divino.
Tuttavia, nell' esperienza
cristiana dell' «Incarnazione del Verbo» trapela qualcosa di essenzialmente più
profondo. Noi siamo abituati a pensare che la conoscenza che abbiamo del dolore
e della felicità altrui ci consente di restarne in qualche modo al di fuori. Ma
noi non restiamo coinvolti nel dolore e nel piacere altrui (o vi restiamo
coinvolti solo entro quei limiti, oltrepassando i quali diremmo che non si
tratta più di un dolore altrui, ma nostro), nella misura in cui restiamo nell'
ignoranza relativamente a ciò che gli altri provano.
Noi vediamo sempre dall'esterno ciò che gli altri provano.
Meno restiamo coinvolti dalle loro esperienze, più ignoriamo ciò che essi sono.
Più la loro sofferenza e il loro piacere ci si manifestano, più conosciamo il
loro essere, e quel che essi provano coincide con quello che noi proviamo.
Ma
per il pensiero cristiano Dio e' «Onnisciente». Non vi e' nulla che si
sottragga alla «Luce» della conoscenza assoluta che trascende la coscienza finita
dell' uomo. Tutto e' in «Luce», tutto si manifesta. Come dice l' apostolo, «Non vi e' alcuna creatura
che rimanga invisibile di fronte a lui: tutte le cose sono nude e aperte di
fronte ai suoi occhi» (Non est ulla creatura invisibilis in cospectu eius: omnia nuda et
aperta sunt oculis eius, Ad hebr. 4, 13). Tutte! Dunque anche tutti i dolori e
i piaceri del mondo, e i passati e i futuri non meno dei presenti; e tutto il
male e l'angoscia e la felicità delle anime e dei corpi.
Ma può lo sguardo «Onnisciente» di Dio contemplare il dolore
e il piacere del mondo nel modo in cui noi conosciamo ciò che provano gli
altri, e cioè dall'esterno? Se così fosse, gli occhi di Dio sarebbero quasi
accecati, non sarebbero lo sguardo dell' «Onnisciente» e le «Cose» non
starebbero nude ed aperte di fronte ad essi. Se questi occhi vedessero «Dall'alto»
, quasi in un concentrato di «Luce» , il dolore, il male e la morte, non
avrebbero dinanzi il modo singolare e concreto in cui l'uomo soffre e gode. E
se lo avessero dinanzi in concreto, nella sua irripetibile singolarità , in carne
ed ossa, non lo vedrebbero «Dall'alto» e in quel modo eminente e generico
col quale un re, assiso su un trono di felicità , si illude di scorgere le
sofferenze e i godimenti dei sudditi.
Uno
sguardo «Onniveggente» e «Onnisciente» di tutti i patimenti e di tutti
i piaceri del mondo deve dunque averli dinanzi proprio così come essi stanno
dinanzi alla coscienza di chi li sta provando e patendo. Deve cioè essersi da
sempre incarnato in essi, che gli stanno dinanzi in carne ed ossa. Non provare
i dolori e i piaceri del mondo significa, da ultimo, ignorarli. E lo sguardo
«Onnisciente» di Dio non può ignorare alcunché .
Dio «Si Fa Uomo» non per una libera e fantastica scelta con
cui egli accetterebbe la sofferenza per salvare gli uomini, ma perché la «Luce del Tutto», nella quale in verità consiste la sguardo «Onnisciente», e' nella propria «Essenza» «Già da sempre»
coinvolta nella «Carne», e può essere pura «Luce» infinita solo in
quanto, da sempre, e' «Carne», cioè prova da sempre tutti i patimenti e i
piaceri della «Carne» (e anche tutto ciò che sta al di sopra di essi). Il «Verbo» non si fa «Carne», uscendo dalla purezza immacolata dello «Spirito»: per la sua
stessa essenza il «Verbo», cioè la «Luce», la manifestazione
dell' «Essere» e' «Già da sempre» presso la «Carne». A tutto questo fa cenno,
da lontano, il Cristianesimo. Tutto questo si deve incominciare a pensare, al
di fuori delle categorie che dominano il Cristianesimo e la nostra civiltà .
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