Inserito dalla tradizione cristiana tra i profeti “maggiori”, il libro di
Daniele (“Dio giudica”) è in realtà uno scritto tardivo, appartenente alla
cosiddetta “apocalittica”, una letteratura e una teologia fiorite a partire dal
III secolo a.C. nel giudaismo e che avrà
grande successo. La sua rappresentazione del mondo è divisa tra terra e cielo
in modo netto, quella dell’umanità in bene e male, quella della storia tra il
presente dominato da Satana e il futuro retto dal Signore con i giusti.
Anche se il libro è ambientato ai tempi di Nabucodonosor e dei suoi successori (VI secolo a.C.), in realtà l’epoca a cui fa riferimento allusivamente è
quella della rivolta dei Maccabei (II secolo a.C.) contro il
potere oppressivo della Siria ellenistica. Protagonista è un ebreo esemplare,
Daniele, circondato da amici. Egli sfida il potere imperiale, che verrà
condannato da Dio stesso (alcune scene, come quelle del sogno di Nabucodonosor,
della fornace di fuoco o della fossa dei leoni e del banchetto del re Baldassar
sono diventate giustamente famose).
Dal capitolo 7 in avanti si hanno, invece, visioni, cioè rivelazioni divine interpretate da un
angelo e spesso popolate di mostri e figure misteriose, simbolo del potere
oppressivo schiacciato da Dio. Particolare rilievo ha quella del «Figlio
d’uomo» (7,13-14), che riceve un potere universale ed eterno da parte dell’Anziano,
cioè del Signore: forse questo personaggio incarna l’Israele fedele glorificato
da Dio, ma la tradizione giudaica e cristiana l’ha interpretato come figura del
Messia, e Gesù si è arditamente applicato tale titolo (vedi, ad esempio, Matteo
26,64).
C’è un aspetto curioso da
segnalare nel tessuto del libro.
Il volume di Daniele è in pratica scritto in tre lingue: l’ebraico nei capitoli
1 e 8-12, l’aramaico (lingua dominante nel periodo successivo all’esilio
babilonese) da 2,4 fino a 7,28, mentre in greco sono stati aggiunti i passi di
3, *24-*90 e dei capitoli 13-14 (sono le cosiddette parti deuterocanoniche,
perché non accolte nel Canone ebraico e protestante). Celebri, oltre al citato
capitolo 7, sono anche la particolare interpretazione delle «settanta settimane
o anni» del capitolo 9, sulla base di una profezia di Geremia (25,11-12), e la
storia di Susanna, vittima innocente salvata da Daniele (capitolo 13).
Nota Finale
Più che un testo profetico, il libro di Daniele
appartiene alla cosiddetta “letteratura apocalittica” che si propone di
descrivere un mondo nuovo destinato ai giusti, al di là delle difficoltà e
delle miserie contingenti. Due sono i temi ricorrenti nelle storie di Daniele e
dei suoi compagni, ambientate fittiziamente durante l’esilio babilonese (VI secolo a.C.): il primo
è quello della «fedeltà alla religione ebraica» in un ambente estraneo e ostile,
il secondo è quello della «saggezza» di Daniele che, ispirato da Dio, si dimostra
superiore a tutti i dotti di Babilonia. Il libro contiene anche una serie di
visioni che, attraverso figure simboliche, presentano la caduta dei babilonesi
a opera dei Persiani, le conquiste folgoranti di Alessandro Magno, la divisione
del suo impero, la lunga lotta fra Tolomei (“il regno di mezzogiorno”) e Seleucidi
(“il regno di settentrione”) per il controllo della Palestina e l’avvento
dell’oppressore Antioco IV Epifane (“un uomo
abbietto”).
Il
libro,
che molti studiosi ritengono sia stato compilato da un redattore ignoto proprio
durante le persecuzioni di Antioco IV contro gli Ebrei (168-164 a.C.), vuole incoraggiare il
lettore a essere fedele alla legge di Dio e celebrare il dominio del Signore
sulla storia del mondo. La versione greca dell’opera contiene alcune parti,
come il cantico dei tre giovani nella fornace ardente e la storia di Susanna,
che non sono presenti nel testo ebraico e aramaico giunto fino a noi, ma che
sono state accolte nella bibbia dalla tradizione cattolica.
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