L’autore di questo scritto sapienziale, a prima vista sconcertante e
provocatorio, usa lo pseudonimo Qohelet che è collegato a una radice ebraica,
qahal, che indica il “convocare un’assemblea” e che nella traduzione greca
antica della Bibbia era reso con un termine ben noto, ekklesía, divenuto poi il
nostro “chiesa”. È per questo che la tradizione greca e latina ha chiamato il
libro e il suo autore Ecclesiaste. Il senso dello pseudonimo “Qohelet” potrebbe
essere “Presidente di assemblea”.
C’è, poi, un termine ebraico che risuona per ben 38 volte e che è posto come sigla del libro, in
apertura (1,2) e conclusione (12,8): è hebel, reso dall’antica versione latina
di san Girolamo come vanitas. Il vocabolo rimanda a qualcosa di vuoto, di
inconsistente come il fumo o la nebbia. Ebbene, per Qohelet tutta la realtà del
mondo e dell’uomo ha una radicale inconsistenza. La storia ritorna sui suoi
eventi in una specie di eterna ripetizione simile ai giri del vento (1,4-11 e 3,1-8). L’esistenza umana, retta dalla
fatica e costellata di poche gioie che devono essere godute perché sono l’unica
realtà positiva (2,24-25), è votata alla
dissoluzione, dipinta nella celebre pagina finale (12,1-7).
Qohelet è stato variamente
interpretato o come un sapiente pessimista e disincantato, maestro del
sospetto, influenzato anche dalla cultura greca del suo tempo (III secolo a.C.), oppure, al contrario, come un sostanziale ottimista che,
proprio perché vede la miseria dell’esistenza, invita a godere gli scarsi
momenti di serenità e di piacere e la giovinezza (11,7-10). È, però, più
probabile che egli rifletta la crisi della sapienza tradizionale, alle prese
con nuove domande.
Crisi del linguaggio, della storia, del mondo, della vita,
del lavoro, dell’intelligenza: con parole pacate ma aspre egli segnala questo «hebel»,
“vuoto”, “vanità”, che corrode tutta la realtà. Non ha soluzione da proporre.
Egli, perciò, diventa il segno più forte dell’incarnazione della Parola di Dio
che si adatta pure ai dubbi e alle crisi dell’uomo, nell’attesa di far sorgere
una speranza e una luce maggiore. È in questa prospettiva più ampia che si deve
collocare e comprendere il severo messaggio di Qohelet, temperato dalla
presenza di elementi sapienziali di taglio più tradizionale, col rispetto nei
confronti della misteriosa azione divina.
Nota Finale
Il Qohelet è anche conosciuto con il titolo di
“Ecclesiaste”, termine greco corrispondente a Qohelet, che significa
“presidente d’assemblea” o “predicatore”. Il libro è una riflessione amara e
disincantata sulla caducità dell’esistenza e di tutto quanto a essa attiene:
potenza, ricchezza, affetti, piaceri, e persino la stessa sapienza, "tutto è
vanità” (cioè vuoto, nulla, assurdo), tutto è destinato a finire nel nulla. La
poesia del testo è aspra, incisiva, fatta di cose e di implacabile sincerità.
Il fatto che un messaggio così negativo (“tutto è vanità”) sia stato
considerato parola di Dio significa che anche il silenzio, l’oscurità,
l’amarezza possono celare un misterioso significato, possono raccogliere
persino una parola divina. Sebbene la prima parte del libro sia presentata come
opera di Salomone, figlio di Davide, è evidente dall’argomento trattato e dal
linguaggio usato che il Qohelet è stato redatto da un ignoto scrittore vissuto
secoli dopo, forse verso la metà del IV secolo a.C.
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