domenica 10 giugno 2018

QOHELET



L’autore di questo scritto sapienziale, a prima vista sconcertante e provocatorio, usa lo pseudonimo Qohelet che è collegato a una radice ebraica, qahal, che indica il “convocare un’assemblea” e che nella traduzione greca antica della Bibbia era reso con un termine ben noto, ekklesía, divenuto poi il nostro “chiesa”. È per questo che la tradizione greca e latina ha chiamato il libro e il suo autore Ecclesiaste. Il senso dello pseudonimo “Qohelet” potrebbe essere “Presidente di assemblea”.

C’è, poi, un termine ebraico che risuona per ben 38 volte e che è posto come sigla del libro, in apertura (1,2) e conclusione (12,8): è hebel, reso dall’antica versione latina di san Girolamo come vanitas. Il vocabolo rimanda a qualcosa di vuoto, di inconsistente come il fumo o la nebbia. Ebbene, per Qohelet tutta la realtà del mondo e dell’uomo ha una radicale inconsistenza. La storia ritorna sui suoi eventi in una specie di eterna ripetizione simile ai giri del vento (1,4-11 e 3,1-8). L’esistenza umana, retta dalla fatica e costellata di poche gioie che devono essere godute perché sono l’unica realtà positiva (2,24-25), è votata alla dissoluzione, dipinta nella celebre pagina finale (12,1-7).

Qohelet è stato variamente interpretato o come un sapiente pessimista e disincantato, maestro del sospetto, influenzato anche dalla cultura greca del suo tempo (III secolo a.C.), oppure, al contrario, come un sostanziale ottimista che, proprio perché vede la miseria dell’esistenza, invita a godere gli scarsi momenti di serenità e di piacere e la giovinezza (11,7-10). È, però, più probabile che egli rifletta la crisi della sapienza tradizionale, alle prese con nuove domande.

Crisi del linguaggio, della storia, del mondo, della vita, del lavoro, dell’intelligenza: con parole pacate ma aspre egli segnala questo «hebel», “vuoto”, “vanità”, che corrode tutta la realtà. Non ha soluzione da proporre. Egli, perciò, diventa il segno più forte dell’incarnazione della Parola di Dio che si adatta pure ai dubbi e alle crisi dell’uomo, nell’attesa di far sorgere una speranza e una luce maggiore. È in questa prospettiva più ampia che si deve collocare e comprendere il severo messaggio di Qohelet, temperato dalla presenza di elementi sapienziali di taglio più tradizionale, col rispetto nei confronti della misteriosa azione divina. 


























Nota Finale

Il Qohelet è anche conosciuto con il titolo di “Ecclesiaste”, termine greco corrispondente a Qohelet, che significa “presidente d’assemblea” o “predicatore”. Il libro è una riflessione amara e disincantata sulla caducità dell’esistenza e di tutto quanto a essa attiene: potenza, ricchezza, affetti, piaceri, e persino la stessa sapienza, "tutto è vanità” (cioè vuoto, nulla, assurdo), tutto è destinato a finire nel nulla. La poesia del testo è aspra, incisiva, fatta di cose e di implacabile sincerità. Il fatto che un messaggio così negativo (“tutto è vanità”) sia stato considerato parola di Dio significa che anche il silenzio, l’oscurità, l’amarezza possono celare un misterioso significato, possono raccogliere persino una parola divina. Sebbene la prima parte del libro sia presentata come opera di Salomone, figlio di Davide, è evidente dall’argomento trattato e dal linguaggio usato che il Qohelet è stato redatto da un ignoto scrittore vissuto secoli dopo, forse verso la metà del IV secolo a.C. 




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