Il libro di Giobbe è sicuramente uno dei capolavori poetici e spirituali non
solo della Bibbia, ma anche della letteratura di tutti i tempi e di tutte le
nazioni della terra. Composta dopo l’esilio babilonese, forse nel V-IV secolo a.C., in un linguaggio tutto costellato di simboli, l’opera rivela
al suo interno strati successivi di formazione. L’autore principale ha
probabilmente usato un’antica parabola in prosa che aveva per protagonista “uno
dei figli d’Oriente”, cioè un personaggio giusto, non ebreo, del quale si
narrava tutta una lunga serie di disgrazie umanamente inspiegabili, che
suscitavano come reazione la sua fedeltà inconcussa e si concludevano con una
grandiosa ricompensa divina finale.
Nella cornice di questo racconto, trasformato in prologo (capitoli 1-2) ed epilogo
(42,7-17), uno scrittore ebreo ha sviluppato un poema mirabile che comprende
sostanzialmente due atti. Il primo (capitoli 3-28) è un triplice e serrato
dialogo tra Giobbe e tre suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar, che incarnano la
teologia ufficiale di Israele. Essi cercano di offrire al grande sofferente le
risposte codificate e scontate della tradizione, mentre Giobbe fa emergere in
tutta la sua lacerazione il dramma del dolore dell’uomo e il mistero
insondabile del silenzio di Dio.
Egli vuole che Dio stesso offra una
risposta, e il secondo atto (capitoli 29-31 e 38-42) descrive il dialogo tra
Giobbe e il Signore in pagine di suprema bellezza. Il libro si rivela come una
ricerca del vero volto di Dio attraverso la strada aspra del dolore: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i
miei occhi ti hanno visto» (42,5), esclama alla fine Giobbe. All’interno
del corpo fondamentale dell’opera si sono inserite aggiunte successive (come
l’apparizione di un quarto amico, Eliu, nell’ampia sezione dei capitoli 32-37)
e si sono operati tagli e correzioni, soprattutto quando la protesta di Giobbe
contro Dio si faceva violenta e quasi blasfema.
Il significato ultimo di
questo capolavoro è da cercare nel
desiderio di penetrare il mistero dell’uomo e il mistero di Dio, in particolare
quando entrano in tensione. Ma molti significati ulteriori appaiono e
scompaiono e sono variamente interpretati. Giustamente san Girolamo affermava
che «interpretare Giobbe è come stringere
tra le mani un’anguilla: più la premi, più ti sfugge di mano»
Nota Finale
Il mistero del dolore e di una equa retribuzione nella vita umana è il tema centrale del libro
di Giobbe. Perché il giusto, il probo, l’innocente sono colpiti talvolta da
grandi pene e afflizioni? Giobbe, un uomo buono che subisce gravi disgrazie,
respinge la tesi tradizionale, esposta da amici che si recano a trovarlo,
secondo cui la sofferenza rappresenta la punizione per i peccati commessi ed è
strumento di correzione e purificazione per l’uomo. Egli è sicuro della propria
innocenza, perciò non sa spiegarsi come mai sia stato colpito da tante
calamità, dato che non può ammettere che Dio agisca ingiustamente. Dopo una
serie di dialoghi tra Giobbe e i suoi amici, i quali rappresentano la teologia
ufficiale, Dio appare in una misteriosa rivelazione e ricorda a Giobbe
l’impossibilità dei mortali a comprendere le leggi che regolano l’universo.
Il libro non offre alcuna soluzione esplicita
del problema trattato, ma dal suo contesto appare chiaro che ciò che nella
nostra dimensione umana e razionale non può avere spazio e logica, può essere
collocato e giustificato in un più ampio e totale progetto: quello divino. Del
libro di Giobbe sono ignoti sia l’autore sia l’epoca di composizione, che gli
studiosi moderni fanno risalire al V secolo a.C. L’opera è in
assoluto uno dei capolavori della letteratura biblica per lo splendore delle
immagini, la passione dei sentimenti, il rigore del discorso e dei suoi
simboli, l’intensità della fede.
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