Il testo della “Poetica”
benché breve e frammentario risulta una delle principali opere dello Stagirita.
Esso è stato ripreso e studiato a partire dal Rinascimento, dopo la
pubblicazione della traduzione latina di L. Valla. Tuttavia era conosciuto e
commentato già dagli studiosi arabi e siriaci.
Nello schema aristotelico delle scienze, questa parte
rientra nelle “scienze poetiche” o “produttive”, il cui fine è la produzione
di un oggetto. Tali scienze concernono tutte le tecniche o arti che nel loro
operare completano e imitano la natura. Oggetto della poetica sono «le arti
belle», sprovviste di un’utilità pratica. «L’epopea e la tragedia, come pure la
commedia e la poesia ditirambica (canto corale), e gran parte dell’auletica
(arte di suonare l’aulos , strumento solista) e della citaristica (L'arte di suonare la cetra ), tutte quante considerate da un unico punto di vista, sono
“mímesis” (o arti di imitazione). Ma
differiscono tra loro per «tre» aspetti: e cioè in quanto o imitano con mezzi
diversi, o imitano cose diverse, o imitano in maniera diversa e non allo stesso
modo» (I, 1).
Vi sono quindi arti che «imitano» per mezzo del colore o
della forma, o mediante la voce, come avviene nella poesia, o nel suono come
nella musica. I mezzi della “mimesi”
sono costituiti dal ritmo, dal linguaggio e dalla melodia, che hanno a che fare
con la successione temporale, mentre pittura e scultura si riferiscono allo
spazio.
Dall’intreccio fra i
diversi elementi si generano le differenti forme di arte. Qual è il significato
di “mimesi”, elemento che unifica
tutte le arti? Il concetto di “mimesi”
era stato introdotto da Platone per caratterizzare il rapporto intercorrente
tra la realtà sensibile, imitazione o copia della realtà intelligibile, e, in
quanto copia, sprovvista di vera consistenza ontologica, e l’arte. Infatti le
arti belle in quanto a loro volta imitazione di copie (le realtà sensibili)
sono tutte condannabili, poiché allontanano dalle “idee” producendo solo simulacri.
In Aristotele, al contrario, oggetto della “mimesi” sono «caratteri, casi e azioni»,
cioè disposizioni morali, in altri termini quanto agli uomini accade e quanto
gli uomini fanno. Suo oggetto è allora il mondo dello spirito umano, come osserva
Ross. Inoltre, nonostante manchi in Aristotele una definizione esplicita del
concetto di “mimesi”, tuttavia lo
Stagirita offre di essa una caratterizzazione sufficiente quando tratta delle
diverse forme di arte.
L’imitazione
non si caratterizza in termini di registrazione passiva, bensì di creazione.
«Ufficio del poeta non è descrivere cose realmente accadute, bensì quali
possono (in date condizioni) accadere: cioè cose le quali siano possibili
secondo le leggi della “verisimiglianza”
o della “necessità”. Infatti lo
storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in
prosa (…); la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente
accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa
di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a
rappresentare l’universale, la storia il particolare» (Poe., 9, 1451 a 36 sgg.).
Come si evidenzia dal testo, il poeta non descrive fatti, ma
crea situazioni possibili e verosimili. Inoltre, il poeta raggiunge una qualche
forma di universalità, sia pure a partire da un determinato individuo che nel
suo agire rappresenta pur sempre un verosimile. Non si tratta quindi di un
universale logico-conoscitivo, ma dell’universale poetico. Colui che esercita
la “mimesi” imita persone che
agiscono, «e queste persone non possono essere che nobili o ignobili», cioè o
uomini migliori di noi o peggiori o come noi. La tragedia descrive caratteri
migliori, la commedia peggiori. E tali imitazioni possono essere o in forma
narrativa (epica) o in forma drammatica (tragedia).
L’origine della poesia risiede nell’istinto di imitazione
proprio dell’uomo, da un lato, e dall’altro, nella «tendenza a imitare
(mediante il linguaggio) l’armonia e il ritmo». Inoltre, «non sarà certo l’immagine
sua in quanto ne sia la fedele imitazione che ci recherà diletto, ma ci
diletteranno l’esattezza dell’esecuzione, il colorito o qualche altra causa di
simil genere». È chiaro quindi che preminente non è il contenuto, ma la forma
della creazione artistica.
Così, la
commedia è «imitazione di persone più volgari dell’ordinario; non però
volgari di qualsivoglia specie di bruttezza (o fisica o morale), bensì di
quella sola specie che è il ridicolo: perché il ridicolo è una partizione
speciale del brutto. Il ridicolo è qualche cosa come di sbagliato e di deforme,
senza essere però cagione di dolore e di danno. (Poet., V).
La tragedia, al
contrario, è «mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa
estensione; (…) la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e
terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni»
(Poet., VI). La “purificazione” o “catarsi”, della quale Aristotele tratta, non ha il significato
morale di una eliminazione delle passioni, quanto di un decantamento delle
passioni in modo da sollevare le anime e da far loro provare piacere. E per
Aristotele il piacere che sorge dalla “catarsi”
è quello prodotto dalla liberazione dalla pietà e dalla paura, in altri termini
si tratta di “piacere estetico”.
Nota finale
Come già per Platone anche per Aristotele l’arte è “mimesi”, ma non perché copia e ricalco
della realtà, bensì in quanto rappresentazione idealizzata e universalizzata
della vita, intesa nei suoi movimenti e aspetti più significativi. Capovolta
l’interpretazione platonica, Aristotele riconosce all’espressione artistica, in
particolare al «dramma» e alla «musica», un potere “catartico”, liberatorio, che,
scaricando dall’emotività, produce negli spettatori un diletto assai vicino al
piacere estetico.
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