Nel V libro della “Politica”, Aristotele prende in esame le cause che portano alla trasformazione o alla rovina delle rette costituzioni, servendosi di una grande mole di informazioni storiche. La causa generale viene ravvisata dal fatto che, se tutti sono d’accordo nel porre alla base degli Stati un concetto di eguaglianza proporzionale, tuttavia lo applicano in modo scorretto. Così, la “democrazia” demagogica sorge «dall’idea che quanti sono uguali per un certo rispetto, siano assolutamente uguali (e in realtà, per il fatto che sono tutti ugualmente liberi pensano di essere assolutamente uguali), l’ “oligarchia” dalla supposizione che quanti sono disuguali sotto un certo rispetto siano del tutto disuguali (e in realtà essendo disuguali nel possesso della proprietà suppongono di essere assolutamente disuguali). Perciò gli uni, essendo uguali, ritengono giusto partecipare in ugual misura di ogni cosa, mentre gli altri, essendo diseguali, cercano di aver sempre di più, e il di più è diseguale» (V, 1). «Dovunque la ribellione nasce da diseguaglianza», e dunque quest’ultima è da considerarsi la causa del’’instabilità degli Stati.
La “democrazia”, sotto questo rispetto, è più solida e maggiormente al riparo dalle ribellioni, mentre la costituzione fondata sulla classe media è quella più sicura di tutte. Ma lo Stato si mantiene stabile se si conserva lo spirito di obbedienza alla legge e se non si consente a nessuna classe in particolare di diventare troppo forte. Ma l’elemento di gran lunga più importante, afferma Aristotele, è dato dal sistema di educazione rispondente alla costituzione.
Il problema della costituzione migliore è da Aristotele affrontato in connessione con la questione della migliore vita desiderabile. La cosa più importante per l’individuo, e quindi anche per lo Stato, è la vita secondo virtù, provvista dei mezzi adatti a compiere azioni virtuose. Fra le condizioni dello Stato ideale, occorre innanzi tutto tener conto della popolazione; tale Stato deve avere «un numero tale di abitanti che sia il minimo indispensabile in vista dell’autosufficienza per un’esistenza agiata in conformità delle esigenze di una comunità civile».
E poiché in questo Stato tutti devono partecipare alla vita e alle cariche politiche, esso deve poter essere abbracciato in un unico sguardo, cioè non essere troppo vasto. Così il territorio deve consentire una vita libera e piacevole, ma non essere così esteso da spingere al lusso. Gli abitanti dovrebbero avere il carattere degli Elleni, che possiedono il coraggio dei popoli del Nord e l’intelligenza dei popoli dell’Asia; perciò questa gente «vive continuamente libera, ha le migliori istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti, qualora raggiunga l’unità costituzionale» (VII, 7).
Lo Stato deve avere, per raggiungere le proprie finalità, coltivatori, artigiani, militari, sacerdoti e giudici. Ma non tutto ciò che è indispensabile per la vita dello Stato è insieme parte dello Stato. Così i lavoratori manuali non hanno la virtù politica, mentre i coltivatori non hanno il tempo per esercitarla.
L’ultima parte della “Politica” è interamente dedicata all’ “educazione”. Infatti, la virtù dipende da «tre» fattori: natura, abitudine e ragione. L’ “educazione” concerne l’abitudine e la ragione. E poiché lo Stato è costituito da chi comanda e da chi è comandato, anche l’ “educazione” dovrà incentrarsi su questo aspetto essenziale. Ogni cittadino deve imparare innanzi tutto ad obbedire e quindi a comandare. L’ “educazione” dovrà pertanto formare uomini buoni e buoni cittadini, secondo l’ideale già delineato nell’ “Etica”. Infine, l’ “educazione” dovrà essere impartita dallo Stato, prendere il suo avvio dall’ “educazione” del corpo, e proseguire con l’ “educazione” degli impulsi e degli appetiti, per avere il suo coronamento con la formazione della ragione.
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