domenica 7 maggio 2017

ARISTOTELE E LE VIRTÙ ETICHE


Come si produce la “virtù etica? Secondo Aristotele, «essa deriva dall’abitudine, da cui trae anche il suo nome (êthos)». Queste virtù non sorgono in noi per natura, né contro natura, «bensì esse nascono in noi, che, atti per natura ad accoglierle, ci perfezioniamo attraverso l’abitudine». Per acquistare queste virtù, noi dobbiamo esercitarle, così come avviene anche nel campo delle tecniche: infatti, così come diventiamo costruttori con il costruire le case, ed è col suonare la cetra che diventiamo citaredi (nell'antica Grecia, poeti che cantavano accompagnandosi con la cetra), «così altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate diventiamo moderati, facendo cose coraggiose coraggiosi». In negativo, è facendo cose viziose che diventiamo viziosi. 

Quindi la disposizione presente in noi si realizza attraverso l’attività fino a divenire abitudine positiva o negativa, cioè “virtù” o “vizio”. «Segno delle disposizioni acquisite dev’essere il piacere o il dolore che sopraggiunge a seconda delle nostre azioni: così chi si astiene dai piaceri del corpo e gode proprio di ciò, è davvero moderato, chi invece se ne cruccia, è intemperante; e chi affronta i pericoli e ne gode o non se ne addolora è coraggioso, chi se ne addolora è vile. Infatti la “virtù etica” è in relazione con i sentimenti di piacere e di dolore» (ibidem - nella stessa opera -, II, 2). 

Con la pena e il dolore si corregge insieme l’anima viziosa. Tale tendenza in sé non è né buona né cattiva, ma va subordinata alla giusta regola imposta dalla parte razionale dell’anima. Riprendendo l’apparente paradosso, secondo cui per diventare giusti occorre praticare la giustizia, ma insieme sembra che occorra già essere giusti per fare azioni giuste, Aristotele chiarisce che, a differenza delle tecniche, dove i prodotti, ovvero il risultato dell’attività, hanno valore in se stessi, «invece nel caso delle virtù non è sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si agisca con giustizia o con moderazione, bensì occorre che chi le compie lo faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di se stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile». 

Solo a queste condizioni si tratta di “virtù”. Che cos’è allora la “virtù”? Intanto essa non è un sentimento, come il desiderio del piacere, dov’è assente la scelta; né è semplicemente una capacità, giacché questa potrebbe anche non essere sviluppata. La “virtù” fa invece parte delle “disposizioni”. In generale, «ogni virtù, a seconda delle qualità di cui essa è virtù, perfeziona questa e rende buono il risultato». Per questo, essa deve tendere al “giusto mezzo”, che non indica una via medica empirica, quanto il raggiungimento del termine perfetto di equilibrio, cioè il culmine e l’eccellenza. Così, «se noi proviamo quelle passioni quando si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si deve, allora saremo nel mezzo e nell’eccellenza, che son propri della virtù (…). Dunque la virtù è una certa medietà, che ha come scopo il giusto mezzo (…). La virtù è quindi una disposizione del proponimento, consistente nella medietà rispetto a noi stessi, definita dalla ragione e come l’uomo saggio la determinerebbe (…). Perciò secondo la sua essenza e secondo la ragione che stabilisce la sua natura, la virtù è una medietà, ma rispetto al bene e alla perfezione, essa è al punto più elevato» (ibidem - nella stessa opera -, II, 6). 

L’introduzione della ragione nella definizione mette in evidenza che la “virtù etica” non è in sé completa e perciò deve fare riferimento alla virtù intellettuale o “dianoetica” della saggezza. Nel mentre il concetto di “giusto mezzo” evidenzia la presenza di relazioni quantitative che sfociano nella qualità. Infine occorre guardarsi dal “vizio” che è più opposto alla corrispondente “virtù”, e dal “vizio” al quale tendiamo con più facilità. 

Dopo aver delineato le caratteristiche generali della “virtù”, a partire dal III libro Aristotele procede ad un’analisi dettagliata delle diverse “virtù etiche”. Poiché queste fanno riferimento a sentimenti e azioni, esse vengono esaminate ora in riferimento ai primi ora alle seconde. Fra i sentimenti dobbiamo ricordare ad esempio la paura, la confidenza, l’ira, la vergogna. Tra le azioni, vengono analizzate quelle in rapporto con la ricchezza (donazione del denaro o acquisizione della ricchezza), e il perseguimento dell’onore. 

Lo Stagirita si sforza di delineare con precisione gli ambiti delle singole “virtù”, senza una deduzione rigorosa e con un ordine spesso accidentale. Si tratta di un’analisi fenomenologica, che offre un quadro vivace dei comportamenti vigenti nei costumi e nella società del suo tempo. Aristotele dedica un intero libro, il V dell’ “Etica Nicomachea”, alla trattazione della “giustizia”. Che cos’è il “giusto”? Con “giusto” noi intendiamo da un lato ciò che è legale, dall’altro ciò che è corretto ed equo. La “giustizia”, inoltre, si presenta come «virtù perfetta», giacché di essa ci si serve non solo nei riguardi di se stesso, ma anche in relazione agli altri. Del pari l’ingiustizia  costituisce il vizio completo. 

Aristotele si sofferma a lungo nella trattazione della «giustizia particolare». Questa si divide in due parti, a seconda che tratti del “giusto” nella distribuzione dell’onore e della ricchezza fra i cittadini, oppure della “giustizia correttiva” nelle relazioni fra uomini. La «giustizia distributiva» riguarda il rapporto fra due persone e due oggetti, distribuisce i beni in rapporto al merito delle persone, così da considerare il “giusto” come una proporzione geometrica. La «giustizia commutativa» si presenta nelle relazioni sociali, sia che queste siano volontarie o involontarie. In essa prevale la proporzione aritmetica. 

Qui non si tratta di accertare il rapporto di merito fra due persone, bensì si considerano i due soggetti come eguali. La legge non chiede se è un buono che ha defraudato un cattivo o viceversa, ma bada soltanto alla natura del torto, alla volontarietà o meno dell’atto, al danno prodotto, determinando chi ha perduto o guadagnato. «Cosicché l’equo è il medio tra il più e il meno». La “giustizia”, in questo senso, è “reciprocità”. La “reciprocità” è la regola essenziale che tiene unita la comunità statuale, conservata dallo scambio reciproco dei servizi e dei beni tra gli uomini. Ma poiché i beni che si scambiano hanno diversa natura e qualità, cioè diverso valore, essi devono essere eguagliati, prima che avvenga lo scambio, attraverso una comune unità di misura per la loro valutazione. 

In questa analisi, Aristotele esamina le diverse relazioni economiche – scambio, moneta, valore, bisogno – non considerate a sé stanti, bensì come momento delle relazioni sociali e politiche. La “giustizia” è disposizione ad agire per scelta deliberata. Pertanto, occorre affrontare il problema della volontarietà degli atti, sulla cui base è possibile valutare il problema della responsabilità. Infine, l’equità deve intervenire nella correzione della legge, giacché «ogni legge è universale, mentre non è possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad alcune cose particolari». Perciò esiste uno squilibrio tra l’universalità della legge e la particolarità e variabilità dei casi che mal sopportano una norma fissa e rigida. «infatti, di ciò che è indeterminato, anche la norma dev’essere indeterminata».   
              

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