Come si produce la “virtù etica”? Secondo Aristotele, «essa deriva dall’abitudine, da
cui trae anche il suo nome (êthos)». Queste virtù non sorgono in noi per
natura, né contro natura, «bensì esse nascono in noi, che, atti per natura ad
accoglierle, ci perfezioniamo attraverso l’abitudine». Per acquistare queste
virtù, noi dobbiamo esercitarle, così come avviene anche nel campo delle
tecniche: infatti, così come diventiamo costruttori con il costruire le case,
ed è col suonare la cetra che diventiamo citaredi (nell'antica Grecia, poeti che cantavano accompagnandosi con la
cetra),
«così altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose
moderate diventiamo moderati, facendo cose coraggiose coraggiosi». In negativo,
è facendo cose viziose che diventiamo viziosi.
Quindi la disposizione presente in noi si realizza
attraverso l’attività fino a divenire abitudine positiva o negativa, cioè “virtù” o “vizio”. «Segno delle disposizioni acquisite dev’essere il piacere o
il dolore che sopraggiunge a seconda delle nostre azioni: così chi si astiene
dai piaceri del corpo e gode proprio di ciò, è davvero moderato, chi invece se
ne cruccia, è intemperante; e chi affronta i pericoli e ne gode o non se ne
addolora è coraggioso, chi se ne addolora è vile. Infatti la “virtù etica” è in relazione con i
sentimenti di piacere e di dolore» (ibidem - nella stessa opera -, II, 2).
Con la pena e il dolore si corregge insieme l’anima viziosa.
Tale tendenza in sé non è né buona né cattiva, ma va subordinata alla giusta
regola imposta dalla parte razionale dell’anima. Riprendendo l’apparente
paradosso, secondo cui per diventare giusti occorre praticare la giustizia, ma
insieme sembra che occorra già essere giusti per fare azioni giuste, Aristotele
chiarisce che, a differenza delle tecniche, dove i prodotti, ovvero il
risultato dell’attività, hanno valore in se stessi, «invece nel caso delle
virtù non è sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si
agisca con giustizia o con moderazione, bensì occorre che chi le compie lo
faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano
compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di se
stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile».
Solo a queste condizioni si tratta di “virtù”. Che cos’è allora la “virtù”?
Intanto essa non è un sentimento, come il desiderio del piacere, dov’è assente
la scelta; né è semplicemente una capacità, giacché questa potrebbe anche non
essere sviluppata. La “virtù” fa
invece parte delle “disposizioni”. In
generale, «ogni virtù, a seconda delle qualità di cui essa è virtù, perfeziona
questa e rende buono il risultato». Per questo, essa deve tendere al “giusto mezzo”, che non indica una via
medica empirica, quanto il raggiungimento del termine perfetto di equilibrio,
cioè il culmine e l’eccellenza. Così, «se noi proviamo quelle passioni quando
si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si
deve, allora saremo nel mezzo e nell’eccellenza, che son propri della virtù
(…). Dunque la virtù è una certa medietà, che ha come scopo il giusto mezzo
(…). La virtù è quindi una disposizione del proponimento, consistente nella
medietà rispetto a noi stessi, definita dalla ragione e come l’uomo saggio la
determinerebbe (…). Perciò secondo la sua essenza e secondo la ragione che
stabilisce la sua natura, la virtù è una medietà, ma rispetto al bene e alla
perfezione, essa è al punto più elevato» (ibidem - nella stessa opera -, II, 6).
L’introduzione della ragione nella definizione mette in
evidenza che la “virtù etica” non è
in sé completa e perciò deve fare riferimento alla virtù intellettuale o “dianoetica” della saggezza. Nel mentre
il concetto di “giusto mezzo”
evidenzia la presenza di relazioni quantitative che sfociano nella qualità.
Infine occorre guardarsi dal “vizio”
che è più opposto alla corrispondente “virtù”,
e dal “vizio” al quale tendiamo con
più facilità.
Dopo aver delineato
le caratteristiche generali della “virtù”,
a partire dal III libro
Aristotele procede ad un’analisi dettagliata delle diverse “virtù etiche”. Poiché queste fanno
riferimento a sentimenti e azioni, esse vengono esaminate ora in riferimento ai
primi ora alle seconde. Fra i sentimenti dobbiamo ricordare ad esempio la
paura, la confidenza, l’ira, la vergogna. Tra le azioni, vengono analizzate quelle
in rapporto con la ricchezza (donazione del denaro o acquisizione della
ricchezza), e il perseguimento dell’onore.
Lo
Stagirita si sforza di delineare con precisione gli ambiti delle
singole “virtù”, senza una deduzione
rigorosa e con un ordine spesso accidentale. Si tratta di un’analisi
fenomenologica, che offre un quadro vivace dei comportamenti vigenti nei
costumi e nella società del suo tempo. Aristotele dedica un intero libro, il V dell’ “Etica Nicomachea”, alla trattazione
della “giustizia”. Che cos’è il “giusto”? Con “giusto” noi intendiamo da un lato ciò che è legale, dall’altro ciò
che è corretto ed equo. La “giustizia”,
inoltre, si presenta come «virtù perfetta», giacché di essa ci si serve non
solo nei riguardi di se stesso, ma anche in relazione agli altri. Del pari
l’ingiustizia costituisce il vizio
completo.
Aristotele si
sofferma a lungo nella trattazione della «giustizia
particolare». Questa si divide in due
parti, a seconda che tratti del “giusto”
nella distribuzione dell’onore e della ricchezza fra i cittadini, oppure della
“giustizia correttiva” nelle
relazioni fra uomini. La «giustizia
distributiva» riguarda il rapporto fra due persone e due oggetti,
distribuisce i beni in rapporto al merito delle persone, così da considerare il
“giusto” come una proporzione
geometrica. La «giustizia commutativa»
si presenta nelle relazioni sociali, sia che queste siano volontarie o
involontarie. In essa prevale la proporzione aritmetica.
Qui non si tratta di accertare il rapporto di merito fra due
persone, bensì si considerano i due soggetti come eguali. La legge non chiede
se è un buono che ha defraudato un cattivo o viceversa, ma bada soltanto alla
natura del torto, alla volontarietà o meno dell’atto, al danno prodotto,
determinando chi ha perduto o guadagnato. «Cosicché l’equo è il medio tra il
più e il meno». La “giustizia”, in
questo senso, è “reciprocità”. La “reciprocità” è la regola essenziale che
tiene unita la comunità statuale, conservata dallo scambio reciproco dei
servizi e dei beni tra gli uomini. Ma poiché i beni che si scambiano hanno
diversa natura e qualità, cioè diverso valore, essi devono essere eguagliati, prima
che avvenga lo scambio, attraverso una comune unità di misura per la loro
valutazione.
In questa analisi,
Aristotele esamina le diverse relazioni economiche – scambio, moneta, valore,
bisogno – non considerate a sé stanti, bensì come momento delle relazioni
sociali e politiche. La “giustizia” è
disposizione ad agire per scelta deliberata. Pertanto, occorre affrontare il
problema della volontarietà degli atti, sulla cui base è possibile valutare il
problema della responsabilità. Infine, l’equità deve intervenire nella
correzione della legge, giacché «ogni legge è universale, mentre non è
possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad alcune cose
particolari». Perciò esiste uno squilibrio tra l’universalità della legge e la
particolarità e variabilità dei casi che mal sopportano una norma fissa e
rigida. «infatti, di ciò che è indeterminato, anche la norma dev’essere
indeterminata».
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