L’etica, assieme alla politica,
appartiene per Aristotele alle scienze dell’agire pratico. Dell’etica, egli
tratta in tre diverse opere: “Etica
Eudemia”, “Grande Etica”, “Etica a Nicomaco”. Muta in esse il
taglio, mentre sostanzialmente identica rimane la struttura. Nella trattazione
ci atterremo essenzialmente a l’ “Etica a
Nicomaco”, che appare la più completa e matura sia nei giudizi come nella
esposizione.
A differenza dei moderni
che scindono la morale dalla politica, ovvero l’agire dell’individuo da quello
della collettività, per Aristotele, come per Platone «identico è il bene per il
singolo e per la città». Proprio per questo «sembra più importante e più
perfetto scegliere e difendere quello della città; certo esso è desiderabile
anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda
un popolo e le città» (Eth. Nic., I, 2).
In questo senso,
l’etica è parte della politica, alla quale appartiene dunque la ricerca del
bene supremo. La politica viene così ad avere il carattere di scienza
architettonica o di comando, in quanto «essa determina quali scienze sono
necessarie nella città e quali ciascuno deve apprendere e fino a che punto».
Questa connessione di etica e politica, caratteristica del pensiero greco
classico, trova tuttavia in Aristotele il punto di avvio per una reciproca
differenziazione e autonomizzazione, conformemente alla tendenza dello
Stagirita di costituire ciascun momento della scienza nella sua differenza e
analogamente al processo storico di autonomizzazione dell’individuo, che si
concluderà nell’ellenismo - Il periodo della storia greca dalla
morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla battaglia di Azio , con la quale Roma
si assicurò il predominio sull'Egitto (31 a.C.) - .
In apertura, Aristotele traccia alcune indicazioni di
metodo: poiché l’oggetto di questa scienza è costituito non dal necessario, ma
da ciò che può essere diversamente, nella trattazione, quindi, non si deve
esigere l’esattezza o il rigore delle matematiche, come pretendeva il tardo
Platone nella sua riduzione del Bene al Numero. Il procedimento da adottare è
quello «dialettico». Non si può, come fa Platone, partire dall’assunzione di un
Bene in sé come principio e di qui dedurre le norme e le determinazioni
dell’agire. Occorre al contrario rovesciare il procedimento, partendo
dall’esperienza o da ciò che è bene per noi, per giungere al principio che lo
fonda e lo giustifica.
Scopo
essenziale dell’etica è quello di stabilire che cos’è il “bene”. Infatti, «ogni arte e ogni
scienza, e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche
bene; perciò a ragione definirono il bene ciò a cui ogni cosa tende». Se è vero
dire che il “bene” è fine di ogni
agire, tuttavia occorre distinguere tra quei fini che vengono perseguiti come
mezzi per un fine ulteriore e invece quel fine che non rinvia ad altro e che
perciò si costituisce come fine ultimo. «Se poi vi è un fine delle nostre
azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li vogliamo solo in
vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola
(così infatti si andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe
vuota ed inutile), in tal caso è chiaro che questo deve essere il “bene” e il “bene supremo”». Qual è il sommo dei beni nell’agire? Comunemente
questo “bene” è detto essere la “eudaimonía”, ossia la «felicità».
Le opinioni degli uomini invece
divergono nel determinare la natura della «felicità». Taluni infatti ritengono
che essa consista nel piacere, altri nella ricchezza e nell’onore, altri
parlano invece dell’esistenza di un bene in sé come fondamento della esistenza
di tutti gli altri beni. Ma l’onore non è fine in sé, in quanto dipende «più da
chi conferisce l’onore che da chi è onorato»; del pari, il guadagno è ricercato
non per se stesso, ma come mezzo per qualcosa d’altro. Neppure è accettabile la
tesi di Platone che fa del “bene”
un’idea trascendente. Infatti il “bene”
«non potrebbe essere un universale comune ed unico: in tal caso infatti non
sarebbe espresso in tutte le categorie bensì in una sola» (Eth. Nic., I, 6). Se così fosse,
inoltre, dovrebbero esistere un’unica scienza di tutti i beni. Mentre non solo
si danno diverse scienze in riferimento alle diverse categorie, ma anche
esistono più scienze di un’unica categoria. «Così dell’occasione v’è la
scienza, quanto alla guerra, della strategia, quanto alla malattia, della
medicina; e della giusta misura, quanto all’alimentazione, v’è la medicina,
quanto agli aspetti fisici la ginnastica».
In
conclusione il “bene”, come
l’essere, si dice in molti modi. «Dunque il bene non è una qualità comune, che
si esprima sotto una sola idea». Dunque qual è il “bene” per l’uomo? Per indagare questo concetto, Aristotele prende
l’avvio dal concetto di «opera» (érgon) che è peculiare all’uomo e a nessun
altro. Infatti così come per il flautista, o qualunque altro artigiano, il bene
e la perfezione risiedono nella propria opera, così se esiste un’opera che è
propria dell’uomo in questa consiste la realizzazione dell’eccellenza o “virtù”, e quindi il raggiungimento del
proprio “bene”.
Ora quest’opera non risiede semplicemente nel «vivere»,
comune anche alle piante, né nella «sensazione», comune anche agli altri
animali, come si è visto nella “Psicologia”.
«Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale». Dunque, «se
propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione,
e se diciamo che questa è l’opera del suo genere e in particolare di quello
virtuoso (…); se è così, noi supponiamo che dell’uomo sia proprio un dato
genere di vita, e questa sia costituita dall’attività dell’anima e dalle azioni
razionali, mentre dell’uomo virtuoso sia proprio ciò, compiuto però secondo il
“bene” e il “bello”, in modo che ciascun atto si compia bene secondo la propria
“virtù”. Se dunque è così, allora il
“bene” proprio dell’uomo è l’attività
dell’anima secondo “virtù”, e se
molteplici sono le “virtù”, secondo
la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa.
Infatti una sola rondine non fa primavera, né un sol giorno; così neppure una
sola giornata o breve tempo rendono la beatitudine o la felicità» (ibidem
- nella stessa opera -, I, 7).
La perfezione di questa attività, cioè la sua “areté” o “virtù”, realizza dunque il “bene”.
«La vita della persone virtuose non richiede il piacere come qualcosa di accessorio,
bensì possiede il piacere in sé. Infatti (…) non è buono chi non gioisce delle
azioni virtuose né alcuno chiamerebbe giusto un uomo che non goda di agire
secondo giustizia». Così come il piacere non è la virtù, ma ad essa consegue,
così la realizzazione della felicità richiede anche i beni esteriori sebbene
non sia riducibile ad essi né ne dipenda essenzialmente. Inoltre, la «felicità»
richiede una vita compiuta e una perfetta “virtù”.
Ora solo nell’attività secondo “virtù”
si dà continuità e stabilità. «Questa qualità sarà dunque presente all’uomo
felice ed egli sarà tale per tutta la sua vita. Sempre infatti o più di ogni
cosa egli farà o contemplerà le cose virtuose, ed egli sopporterà i casi della
sorte ottimamente e in ogni maniera degnamente, se è veramente buono e
tetragono senza fallo» (Eth. Nic., I, 10).
Dunque, la “virtù” deve essere scelta per se stessa;
ma questo non significa alcun disprezzo per i beni accessori della vita.
«Poiché la felicità è dunque un’attività dell’anima conforme ad una virtù
perfetta, dovremo indagare intorno alle virtù», o meglio, intorno alla “virtù” umana. «Infatti noi intendiamo
studiare il bene umano e la felicità umana». In questo nesso consiste il legame
che unisce “Psicologia” ed “Etica”.
Ora l’anima presenta «tre» funzioni: una “vegetativa”, una “sensitiva” e una “razionale”.
Ciascuna di queste attività dunque si esprime in una peculiare «virtù».
Inoltre, anche la parte appetitiva o concupiscibile partecipa in qualche modo
della parte razionale, in quanto essa deve obbedire alla ragione. Abbiamo cioè
a che fare con l’appetito razionale o con la razionalità appetitiva. E poiché
l’anima consta di due tipi di attività, quella irrazionale e quella razionale,
anche le «virtù» corrispondenti saranno di «due» tipi: le “virtù etiche” e le “virtù
dianoetiche”. Le “virtù dianoetiche”
o razionali sono ad esempio la sapienza, l’intelletto, la ragione discorsiva,
la saggezza. “Virtù etiche” sono ad
esempio la generosità, la moderazione, il coraggio. Delle prime Aristotele si
occupa nel VI libro, delle seconde nei
libri II-VI dell’”Etica Nicomachea”.
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