domenica 14 maggio 2017

ARISTOTELE E LE VIRTÙ DIANOETICHE


Si è visto in precedenza che la “virtù etica” consiste nel “giusto mezzo” quale prescrive la «retta ragione». Si tratta ora di esaminare più da vicino le virtù della parte razionale dell’anima. Quest’ultima, secondo Aristotele, ha due funzioni a seconda che si riferisca alla conoscenza delle realtà necessarie oppure a quella delle realtà contingenti, che non solo possono essere o non essere, ma anche essere diversamente. La prima parte o funzione dell’anima razionale costituisce la “ragione teoretica”, l’altra la “ragione pratica”. Della prima fanno parte la sapienza, l’intelletto, la scienza. La parte “pratica” concerne per un verso la “práxis” in senso stretto ossia l’agire etico e politico, per altro la “póiesis”, cioè l’agire produttivo. 

Dei tre elementi che sono nell’anima, «sensazione, ragione, desiderio», la «sensazione» non determina mai l’azione, mentre appetito e ragione la determinano in modi differenti. Infatti la “virtù morale” è disposizione a scegliere, e la scelta è un desiderio deliberato. Quindi l’azione comporta il desiderio di un fine, mentre la ragione calcola e sceglie i mezzi che sono necessari al raggiungimento di un fine. Tuttavia entrambe le parti dell’anima razionale hanno per oggetto la «verità», l’una la “teoretica”, l’altra la “pratica”. Quest’ultima consiste nel giusto appetire. 

L’uomo in quanto espressione di desiderio e di ragione produce quindi l’agire. Virtù della parte “pratica” è la «saggezza» (phrónesis). Essa consiste «nel saper deliberare bene intorno alle cose che sono per lui buone e giovevoli non in particolare (ad esempio, quali cose siano buone o giovevoli per la salute e la forza), bensì quali lo siano in generale per vivere bene (…). Resta che essa sia una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e male per l’uomo» (Eth. Nic., VI, 5). Quindi occorre conoscere quale sia il fine per l’uomo, mentre la «saggezza» delibera solo in riferimento ai mezzi per giungere al fine. «La virtù rende retto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi» (ibidem - nella stessa opera -, VI, 12). Ora senza la «saggezza» non vi può essere “virtù etica”, ma nello stesso tempo non v’è «saggezza» senza la “virtù etica”, proprio perché la «saggezza» si rivolge ai mezzi per conseguire il bene morale. 

La sapienza (sophía), che risulta essere sintesi di intelletto e scienza, costituisce la virtù più elevata, in quanto ha per oggetto la realtà più elevata e divina. La «felicità» consiste dunque nell’attività conforme alla virtù più elevata, cioè nella vita contemplativa. «Questa attività è infatti la più alta: infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle cui si riferisce il pensiero. Ed è anche l’attività più continua (…). Pensiamo poi che alla felicità debba essere congiunto il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è quella relativa alla sapienza; sembra infatti che la filosofia apporti piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi conosce che non per chi ancora ricerca il vero. E l’autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’attività contemplativa (…). 

Inoltre, sembra che l’attività contemplativa sia la sola ad essere amata per se stessa; infatti da essa non deriva alcun altro risultato all’infuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più o meno importante, oltre all’azione stessa (…). Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme ad esso sarà divina in confronto alla vita umana». Dunque questo modo di vita sarà il più felice: e di tanto si estende la speculazione, di tanto si estende la felicità. Conformemente all’ideale greco che privilegia il vedere sull’agire, la teoria sulla prassi, la vita speculativa del filosofo costituisce il più alto raggiungimento del fine proprio dell’uomo. Ma questo fine si realizza solo nel vivere comune, cioè nella “polis”. Quindi occorre ora prendere in esame il problema della “politica”. 

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