domenica 20 novembre 2016

PLATONE E L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA


Prima di affrontare la concezione politica, è importante sottolineare la particolare convinzione che Platone aveva dell’«immortalità dell’anima» e, in connessione con questa, di quella che oggi chiameremmo la sua natura spirituale. Nel “Fedone” il personaggio di Socrate cerca di consolare i suoi discepoli per l’imminente distacco, fornendo loro le seguenti «dimostrazioni» dell’«immortalità dell’anima». 

Anzitutto l’esperienza ci mostra che ogni cosa nasce dal suo contrario, per esempio dal sonno si passa veglia e dalla veglia al sonno: analogamente, come dalla vita si passa alla morte, ci dovrà essere anche un passaggio dalla morte alla vita, cioè una rinascita, una reincarnazione, la quale suppone che l’anima non sia morta al momento del suo distacco dal corpo (70 c – 72 e). L’argomento, tuttavia, non è sufficiente, perché più avanti un discepolo obietterà che nulla ci assicura dell’eternità del ciclo delle reincarnazioni, il quale ad un certo punto potrebbe avere termine. 

La seconda «dimostrazione» è data dalla dottrina della reminiscenza: se il conoscere è un ricordare le “idee”, suscitato dall’incontro con le loro immagini sensibili, come prova il fatto che noi conosciamo l’uguale senza avere mai visto cose perfettamente uguali, l’«anima» deve essere preesistita alla sua incarnazione nel corpo. A questo argomento è tuttavia facile obiettare che esso dimostra la preesistenza dell’«anima» al «corpo», non la sua sopravvivenza a questo (72 e – 77 d). 

Platone fornisce allora una terza «dimostrazione», che è quella più valida: l’«anima», per il fatto che può conoscere le “idee”, ha una natura affine a queste, cioè è anch’essa semplice. Come tale, l’«anima» a differenza del «corpo», che è composto, non può decomporsi, cioè non può morire (78 b – 81 e). La stessa dimostrazione è ripresa da Platone nella “Repubblica”, dove si afferma che l’«anima» non perisce né a causa della malattia che le è propria, cioè l’ingiustizia, come è provato dall’esistenza di anime ingiuste, né a causa della malattia che colpisce il «corpo», perché essa è diversa da quest’ultimo: dunque essa è immortale (X, 608 c – 611 a). 

Da tutto ciò si desume che l’«anima» è per Platone una sostanza indipendente dal corpo, di natura semplice ed immateriale, ossia una realtà spirituale: la prova di ciò è la sua capacità di conoscere realtà semplici e immateriali come le “idee” ossia il carattere spirituale del pensiero. Nel “Fedone” tuttavia Platone porta anche una quarta «dimostrazione» dell’«immortalità dell’anima», in cui, respingendo la concezione pitagorica dell’«anima» come semplice armonia del «corpo», egli definisce l’«anima» come principio di vita ed esclude che essa, in quanto tale, possa accogliere in sé la morte (105 b – 106 d). 

Quest’ultimo argomento viene riesposto in forma più rigorosa nel “Fedro”, dove l’«anima» è definita «semovente», cioè realtà che, a differenza di ogni altra, si muove da sé, e pertanto, non potendo separarsi mai da se stessa, essa deve muoversi eternamente, il che significa che è immortale (245 c-e). Anche nelle “Leggi” Platone ritorna su questa concezione, definendo l’anima «movimento che muove se stesso» e attribuendole quindi la causa di ogni movimento nell’universo (VII, 894 e – 898 d). 

Connessa con la dottrina dell’«immortalità dell’anima» è la concezione platonica del destino delle anime dopo la morte del corpo: mentre tuttavia Platone presenta la prima come una dottrina propriamente filosofica, cioè dimostrabile razionalmente e fondata sulla “dottrina delle idee”, egli presenta invece la seconda come un «mito», cioè come una credenza di cui non si può dimostrare razionalmente la verità, perché essa eccede i limiti della nostra capacità conoscitiva, anche se ci sono forti motivi di ordine «morale» che inducono ad aderirvi. 

Un accenno al destino delle anime è contenuto nel “Gorgia”, dove Platone afferma che le anime di coloro che sono vissuti secondo giustizia vanno, dopo la morte, nelle «isole dei beati», dove vivono felici, mentre quelle di coloro che sono vissuti nell’ingiustizia vanno in un carcere di pena e di espiazione chiamato “Tartaro”. Ciò accade dopo che le anime sono state sottoposte ad un «giudizio», al quale devono presentarsi senza preavviso, cioè ignorando il momento della morte, e nude, cioè senza quell’apparato di vesti, di parenti e di amici che avevano sulla terra e che ne nascondeva i meriti o le colpe: da ciò la necessità di prepararsi bene alla morte, vivendo in modo virtuoso (523 a – 527 a).     

    

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