Prima di affrontare la concezione politica,
è importante sottolineare la particolare convinzione che Platone aveva
dell’«immortalità dell’anima» e, in connessione con questa, di quella che oggi
chiameremmo la sua natura spirituale. Nel “Fedone”
il personaggio di Socrate cerca di consolare i suoi discepoli per l’imminente
distacco, fornendo loro le seguenti «dimostrazioni» dell’«immortalità
dell’anima».
Anzitutto
l’esperienza ci mostra che ogni cosa nasce dal suo contrario, per esempio dal
sonno si passa veglia e dalla veglia al sonno: analogamente, come dalla vita si
passa alla morte, ci dovrà essere anche un passaggio dalla morte alla vita,
cioè una rinascita, una reincarnazione, la quale suppone che l’anima non sia
morta al momento del suo distacco dal corpo (70 c – 72 e). L’argomento,
tuttavia, non è sufficiente, perché più avanti un discepolo obietterà che nulla
ci assicura dell’eternità del ciclo delle reincarnazioni, il quale ad un certo
punto potrebbe avere termine.
La
seconda «dimostrazione» è data dalla dottrina della reminiscenza: se il
conoscere è un ricordare le “idee”, suscitato dall’incontro con le loro
immagini sensibili, come prova il fatto che noi conosciamo l’uguale senza avere
mai visto cose perfettamente uguali, l’«anima» deve essere preesistita alla sua
incarnazione nel corpo. A questo argomento è tuttavia facile obiettare che esso
dimostra la preesistenza dell’«anima» al «corpo», non la sua sopravvivenza a
questo (72 e – 77 d).
Platone
fornisce allora una terza «dimostrazione», che è quella più valida:
l’«anima», per il fatto che può conoscere le “idee”, ha una natura affine a
queste, cioè è anch’essa semplice. Come tale, l’«anima» a differenza del
«corpo», che è composto, non può decomporsi, cioè non può morire (78 b – 81 e).
La stessa dimostrazione è ripresa da Platone nella “Repubblica”, dove si afferma che l’«anima» non perisce né a causa
della malattia che le è propria, cioè l’ingiustizia, come è provato
dall’esistenza di anime ingiuste, né a causa della malattia che colpisce il
«corpo», perché essa è diversa da quest’ultimo: dunque essa è immortale (X, 608
c – 611 a).
Da tutto ciò si desume
che l’«anima» è per Platone una sostanza indipendente dal corpo, di natura
semplice ed immateriale, ossia una realtà spirituale: la prova di ciò è la sua
capacità di conoscere realtà semplici e immateriali come le “idee” ossia il
carattere spirituale del pensiero. Nel “Fedone” tuttavia Platone porta anche
una quarta «dimostrazione» dell’«immortalità dell’anima», in cui, respingendo
la concezione pitagorica dell’«anima» come semplice armonia del «corpo», egli
definisce l’«anima» come principio di vita ed esclude che essa, in quanto tale,
possa accogliere in sé la morte (105 b – 106 d).
Quest’ultimo argomento viene riesposto in forma più rigorosa
nel “Fedro”, dove l’«anima» è
definita «semovente», cioè realtà che, a differenza di ogni altra, si muove da
sé, e pertanto, non potendo separarsi mai da se stessa, essa deve muoversi
eternamente, il che significa che è immortale (245 c-e). Anche nelle “Leggi” Platone ritorna su questa
concezione, definendo l’anima «movimento che muove se stesso» e attribuendole
quindi la causa di ogni movimento nell’universo (VII, 894 e – 898 d).
Connessa con la dottrina
dell’«immortalità dell’anima» è la concezione platonica del destino delle anime
dopo la morte del corpo: mentre tuttavia Platone presenta la prima come una
dottrina propriamente filosofica, cioè dimostrabile razionalmente e fondata
sulla “dottrina delle idee”, egli presenta invece la seconda come un «mito»,
cioè come una credenza di cui non si può dimostrare razionalmente la verità,
perché essa eccede i limiti della nostra capacità conoscitiva, anche se ci sono
forti motivi di ordine «morale» che inducono ad aderirvi.
Un accenno al destino delle anime è contenuto nel “Gorgia”, dove Platone afferma che le
anime di coloro che sono vissuti secondo giustizia vanno, dopo la morte, nelle
«isole dei beati», dove vivono felici, mentre quelle di coloro che sono vissuti
nell’ingiustizia vanno in un carcere di pena e di espiazione chiamato “Tartaro”. Ciò accade dopo che le anime
sono state sottoposte ad un «giudizio», al quale devono presentarsi senza
preavviso, cioè ignorando il momento della morte, e nude, cioè senza
quell’apparato di vesti, di parenti e di amici che avevano sulla terra e che ne
nascondeva i meriti o le colpe: da ciò la necessità di prepararsi bene alla
morte, vivendo in modo virtuoso (523 a – 527 a).
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