La concezione dell’uomo si trova esposta con
singolare chiarezza nel “Gorgia”, uno
dei massimi capolavori di Platone, culminante nella famosa affermazione secondo
cui «fare ingiustizia è peggio che
patirla». Qui infatti Platone si richiama esplicitamente agli antichi
pitagorici, dicendo: «come ho già sentito
dire anche dai filosofi, noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba (séma) è
il corpo (sóma), e quella parte dell’anima nella quale hanno sede le passioni,
per sua natura si lascia trascinare, e in su e in giù si lascia sospingere»
(493 a).
A parte il rigido dualismo
di tale concezione, ed il conseguente pessimismo, che egli attenuerà in seguito,
non c’è dubbio che per Platone l’uomo è composto di due parti ben distinte, il
«corpo» e l’«anima», ciascuna delle quali ha un suo stato di benessere e di
malessere, la "salute" e la "malattia" per il «corpo», la "virtù" e il "vizio" per
l’«anima», e ciascuna delle quali richiede un’arte capace di curarla, la
ginnastica o la medicina per il «corpo» (di cui è degenerazione la culinaria),
e la sapienza o la politica per l’«anima» (di cui è degenerazione la retorica)
(ivi 463 e sgg. stessa opera).
Di queste due parti,
quella più propriamente umana, in quanto comanda sull’altra, è l’«anima», tanto
che Platone in un altro dialogo arriva a dire che l’uomo è la sua «anima»
(Alcibiade, I, 130 c); di conseguenza il male peggiore che può accadere
all’uomo è il male dell’«anima», cioè il vizio: perciò «fare ingiustizia è peggio che patirla» (Gorgia, 477 a).
La stessa dottrina ritorna nel “Fedone”, dove il filosofo rappresenta l’addio
di Socrate ai discepoli e giustifica la serenità con cui il maestro affronta la
morte. Se l’uomo, infatti, è composto di «corpo» e di «anima», ed il «corpo» è
come una tomba, o un carcere, o comunque un ostacolo per l’«anima», la morte,
intesa come separazione dell’«anima» dal «corpo», sarà per l’«anima» una
“purificazione”, come sostenevano i poeti orfici, cioè una vera e propria "liberazione", ed il filosofo, cioè l’uomo sapiente, deve prepararsi alla morte
con serenità, quasi con gioia, come ci si prepara appunto a una liberazione
(Fedone, 64 a – 68 b).
Da ciò deriva,
naturalmente, una morale di tipo ascetico, che predica la rinuncia ai piaceri
del «corpo», cioè la repressione dei desideri, e la totale dedizione alle virtù
dell’«anima», in particolare alla sapienza, che è essenzialmente preparazione
alla morte e anticipazione di quella contemplazione libera e pura della verità
che l’«anima» raggiungerà dopo la separazione dal «corpo».
Bisogna riconoscere tuttavia che Platone, nei suoi dialoghi
più tardi, sembra attenuare questa concezione così rigorosamente dualistica,
sostituendo al rapporto di opposizione tra «anima» e «corpo» un rapporto di
collaborazione, che, pur mantenendo una netta distinzione fra i due, fa del
«corpo» più uno strumento dell’«anima» che un ostacolo ad essa.
Corrispondentemente a questa nuova concezione si sviluppa anche una nuova
morale, meno rigorosa ed ascetica della precedente, quale si riscontra ad
esempio nel “Filebo”, in cui Platone
afferma che la vita migliore non sta né soltanto nel piacere, né soltanto
nell’esercizio dell’intelligenza, cioè nella sapienza, bensì in una mescolanza
di piacere e di intelligenza (21 d).
Al
semplice dualismo di «corpo» e «anima», che deriva sostanzialmente
dalla tradizione orfico pitagorica, Platone aggiunge, tuttavia, come suo
contributo originale, una dottrina più complessa circa la composizione
dell’«anima» in tre parti, in cui si può forse ravvisare l’aspetto più specifico
della sua concezione dell’uomo. Questa si trova sviluppata anzitutto nella “Repubblica”, nel quadro della visione
più vasta dello Stato, anzi della società politica, su cui avremo occasione di
ritornare più avanti.
Per conoscere
come è fatto l’uomo individuale, afferma Platone, e più precisamente per
definire che cos’è la «giustizia», ossia la perfezione dell’uomo stesso, la virtù
per antonomasia, è necessario vedere come è fatto lo Stato, il quale, come
insieme di molti uomini, è in un certo senso un uomo più in grande, e quindi è
necessario vedere in che cosa consiste la «giustizia» per lo Stato. Interviene
qui la celebre distinzione fra «tre» classi, o meglio categorie, di cittadini,
adibite ciascuna ad una funzione diversa ed ugualmente necessaria allo Stato: i "produttori" per provvedere alle risorse materiali, i "guardiani" per provvedere alla
difesa ed i "filosofi" per provvedere al governo. In modo analogo, secondo
Platone, è fatta anche l’«anima» dell’uomo: una parte di essa è l’«anima razionale», capace di conoscere e
quindi di governare, una seconda parte è l’«anima
irascibile o impulsiva», capace di provare slanci ed impulsi, ed una terza
parte è l’«anima concupiscente o
appetitiva», capace di provare desideri, come quelli mangiare, di bere e di
provare i piaceri sessuali.
La prova
di questa divisione è costituita, secondo Platone, dall’esistenza di
quelli che oggi chiameremmo i conflitti psichici, cioè i contrasti, all’interno
dell’uomo, fra tendenze opposte, in cui la “ragione”
spinge in una direzione, il “desiderio”
in una direzione opposta, e l’«impulso»
segue ora l’una ora l’altra.
Come
nello Stato la «giustizia» si ha quando ciascuna categoria di cittadini
adempie al proprio compito, cioè i "filosofi" governano, i "guardiani" difendono, e
i "produttori" lavorano, così nell’individuo la «giustizia» si ha quando l’«anima razionale» comanda (esercitando in
tal modo la sapienza), l’«anima impulsiva»
l’aiuta (esercitando in tal modo la fortezza) e l’«anima appetitiva» vi si sottomette (esercitando in tal modo la
temperanza): la «giustizia», che viene intesa come “armonia” tra le diverse parti dello Stato e dell’anima, si trova ad
essere in tal modo la sintesi di tutte le altre virtù (di quelle che in seguito
furono chiamate le virtù cardinali o naturali) (Repubblica, IV, 434 c, - 443
b).
La stessa dottrina è
ripresa nel “Fedro”, dove Platone
paragona l’«anima» ad una pariglia di cavalli alati, guidata da un auriga:
quest’ultimo rappresenta naturalmente la “ragione”, che guida l’intera «anima»
verso l’alto, cioè verso il luogo «iperuranio» (sopraceleste), dove si possono
contemplare le “idee”. Anche nelle “Leggi”,
che sono l’ultima opera di Platone, l’«anima» precede il «corpo», nel senso che
esiste prima di questo, lo guida e lo comanda. Ed anche in questo dialogo Platone
scrive che l’«anima» è causa del bene e del male, nel senso che può allearsi
all’intelletto e tendere verso il bene, oppure allearsi alla stoltezza e
tendere verso il male: ritorna dunque, in questa distinzione tra intelletto,
anima buona ed anima cattiva, la dottrina delle «tre» parti dell’«anima» ( X, 894
e 898 d), che così rappresenta una costante dell’intera filosofia platonica.
Nota finale:
Ma il significato completo della concezione platonica dell’«uomo» si
coglie soltanto nell’ambito della sua concezione dello «Stato», perché per
Platone, prima ancora che per Aristotele e come già per Socrate, l’uomo è
essenzialmente un «animale politico».
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