venerdì 11 novembre 2016

PLATONE E LA CONCEZIONE DELL’UOMO


La concezione dell’uomo si trova esposta con singolare chiarezza nel “Gorgia”, uno dei massimi capolavori di Platone, culminante nella famosa affermazione secondo cui «fare ingiustizia è peggio che patirla». Qui infatti Platone si richiama esplicitamente agli antichi pitagorici, dicendo: «come ho già sentito dire anche dai filosofi, noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba (séma) è il corpo (sóma), e quella parte dell’anima nella quale hanno sede le passioni, per sua natura si lascia trascinare, e in su e in giù si lascia sospingere» (493 a). 

A parte il rigido dualismo di tale concezione, ed il conseguente pessimismo, che egli attenuerà in seguito, non c’è dubbio che per Platone l’uomo è composto di due parti ben distinte, il «corpo» e l’«anima», ciascuna delle quali ha un suo stato di benessere e di malessere, la "salute" e la "malattia" per il «corpo», la "virtù" e il "vizio" per l’«anima», e ciascuna delle quali richiede un’arte capace di curarla, la ginnastica o la medicina per il «corpo» (di cui è degenerazione la culinaria), e la sapienza o la politica per l’«anima» (di cui è degenerazione la retorica) (ivi 463 e sgg. stessa opera). 

Di queste due parti, quella più propriamente umana, in quanto comanda sull’altra, è l’«anima», tanto che Platone in un altro dialogo arriva a dire che l’uomo è la sua «anima» (Alcibiade, I, 130 c); di conseguenza il male peggiore che può accadere all’uomo è il male dell’«anima», cioè il vizio: perciò «fare ingiustizia è peggio che patirla» (Gorgia, 477 a). 

La stessa dottrina ritorna nel “Fedone”, dove il filosofo rappresenta l’addio di Socrate ai discepoli e giustifica la serenità con cui il maestro affronta la morte. Se l’uomo, infatti, è composto di «corpo» e di «anima», ed il «corpo» è come una tomba, o un carcere, o comunque un ostacolo per l’«anima», la morte, intesa come separazione dell’«anima» dal «corpo», sarà per l’«anima» una “purificazione”, come sostenevano i poeti orfici, cioè una vera e propria "liberazione", ed il filosofo, cioè l’uomo sapiente, deve prepararsi alla morte con serenità, quasi con gioia, come ci si prepara appunto a una liberazione (Fedone, 64 a – 68 b). 

Da ciò deriva, naturalmente, una morale di tipo ascetico, che predica la rinuncia ai piaceri del «corpo», cioè la repressione dei desideri, e la totale dedizione alle virtù dell’«anima», in particolare alla sapienza, che è essenzialmente preparazione alla morte e anticipazione di quella contemplazione libera e pura della verità che l’«anima» raggiungerà dopo la separazione dal «corpo». 

Bisogna riconoscere tuttavia che Platone, nei suoi dialoghi più tardi, sembra attenuare questa concezione così rigorosamente dualistica, sostituendo al rapporto di opposizione tra «anima» e «corpo» un rapporto di collaborazione, che, pur mantenendo una netta distinzione fra i due, fa del «corpo» più uno strumento dell’«anima» che un ostacolo ad essa. Corrispondentemente a questa nuova concezione si sviluppa anche una nuova morale, meno rigorosa ed ascetica della precedente, quale si riscontra ad esempio nel “Filebo”, in cui Platone afferma che la vita migliore non sta né soltanto nel piacere, né soltanto nell’esercizio dell’intelligenza, cioè nella sapienza, bensì in una mescolanza di piacere e di intelligenza (21 d). 

Al semplice dualismo di «corpo» e «anima», che deriva sostanzialmente dalla tradizione orfico pitagorica, Platone aggiunge, tuttavia, come suo contributo originale, una dottrina più complessa circa la composizione dell’«anima» in tre parti, in cui si può forse ravvisare l’aspetto più specifico della sua concezione dell’uomo. Questa si trova sviluppata anzitutto nella “Repubblica”, nel quadro della visione più vasta dello Stato, anzi della società politica, su cui avremo occasione di ritornare più avanti. 

Per conoscere come è fatto l’uomo individuale, afferma Platone, e più precisamente per definire che cos’è la «giustizia», ossia la perfezione dell’uomo stesso, la virtù per antonomasia, è necessario vedere come è fatto lo Stato, il quale, come insieme di molti uomini, è in un certo senso un uomo più in grande, e quindi è necessario vedere in che cosa consiste la «giustizia» per lo Stato. Interviene qui la celebre distinzione fra «tre» classi, o meglio categorie, di cittadini, adibite ciascuna ad una funzione diversa ed ugualmente necessaria allo Stato: i "produttori" per provvedere alle risorse materiali, i "guardiani" per provvedere alla difesa ed i "filosofi" per provvedere al governo. In modo analogo, secondo Platone, è fatta anche l’«anima» dell’uomo: una parte di essa è l’«anima razionale», capace di conoscere e quindi di governare, una seconda parte è l’«anima irascibile o impulsiva», capace di provare slanci ed impulsi, ed una terza parte è l’«anima concupiscente o appetitiva», capace di provare desideri, come quelli mangiare, di bere e di provare i piaceri sessuali. 

La prova di questa divisione è costituita, secondo Platone, dall’esistenza di quelli che oggi chiameremmo i conflitti psichici, cioè i contrasti, all’interno dell’uomo, fra tendenze opposte, in cui la “ragione” spinge in una direzione, il “desiderio” in una direzione opposta, e l’«impulso» segue ora l’una ora l’altra. 

Come nello Stato la «giustizia» si ha quando ciascuna categoria di cittadini adempie al proprio compito, cioè i "filosofi" governano, i "guardiani" difendono, e i "produttori" lavorano, così nell’individuo la «giustizia» si ha quando l’«anima razionale» comanda (esercitando in tal modo la sapienza), l’«anima impulsiva» l’aiuta (esercitando in tal modo la fortezza) e l’«anima appetitiva» vi si sottomette (esercitando in tal modo la temperanza): la «giustizia», che viene intesa come “armonia” tra le diverse parti dello Stato e dell’anima, si trova ad essere in tal modo la sintesi di tutte le altre virtù (di quelle che in seguito furono chiamate le virtù cardinali o naturali) (Repubblica, IV, 434 c, - 443 b). 

La stessa dottrina è ripresa nel “Fedro”, dove Platone paragona l’«anima» ad una pariglia di cavalli alati, guidata da un auriga: quest’ultimo rappresenta naturalmente la “ragione”, che guida l’intera «anima» verso l’alto, cioè verso il luogo «iperuranio» (sopraceleste), dove si possono contemplare le “idee”. Anche nelle “Leggi”, che sono l’ultima opera di Platone, l’«anima» precede il «corpo», nel senso che esiste prima di questo, lo guida e lo comanda. Ed anche in questo dialogo Platone scrive che l’«anima» è causa del bene e del male, nel senso che può allearsi all’intelletto e tendere verso il bene, oppure allearsi alla stoltezza e tendere verso il male: ritorna dunque, in questa distinzione tra intelletto, anima buona ed anima cattiva, la dottrina delle «tre» parti dell’«anima» ( X, 894 e 898 d), che così rappresenta una costante dell’intera filosofia platonica. 

Nota finale: 

Ma il significato completo della concezione platonica dell’«uomo» si coglie soltanto nell’ambito della sua concezione dello «Stato», perché per Platone, prima ancora che per Aristotele e come già per Socrate, l’uomo è essenzialmente un «animale politico».

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