sabato 21 novembre 2015

LE TRE VIRTU’ TEOLOGALI




Le virtù umane si radicano nelle «virtù teologali», le quali rendono le facoltà dell'uomo idonee alla partecipazione alla natura divina. Le «virtù teologali», infatti, si riferiscono direttamente a Dio. Esse dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino. Le «virtù teologali» fondano, animano e caratterizzano l'agire morale del cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la «vita eterna». Sono il pegno della presenza e dell'azione dello “Spirito Santo” nelle facoltà dell'essere umano. “Tre” sono le «virtù teologali»: la «Fede», la «Speranza» e la «Carità».

La «Fede» è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Chiesa ci propone da credere, perché Dio è la stessa “verità”. Con la Fede «l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente». Per questo il credente cerca di conoscere e di fare la volontà di Dio. «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,17). La Fede viva «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Il dono della «Fede» rimane in colui che non ha peccato contro di essa. Ma «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Se non si accompagna alla «Speranza» e all'«Amore», la «Fede» non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo. Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la «Fede» e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla: «Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa». Il servizio e la testimonianza della «Fede» sono indispensabili per la salvezza: «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32-33).   

La «Speranza» è la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la «vita eterna» come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull'aiuto della grazia dello “Spirito Santo”. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso» (Eb 10,23). Lo “Spirito” è stato «effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,6-7). La virtù della «Speranza» risponde all'aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell'attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva dall'egoismo e conduce alla gioia della carità. La «Speranza cristiana» riprende e porta a pienezza la speranza del popolo eletto, la quale trova la propria origine ed il proprio modello nella «Speranza di Abramo», colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio. «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli» (Rm 4,18). La «Speranza» cristiana si sviluppa, fin dagli inizi della predicazione di Gesù, nell'annuncio delle beatitudini. Le “beatitudini” elevano la nostra «Speranza» verso il cielo come verso la nuova Terra promessa; ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù. Ma per i meriti di Gesù Cristo e della sua passione, Dio ci custodisce nella «Speranza» che «non delude» (Rm 5,5). La «Speranza» è l'«àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra» là «dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Eb 6,19-20). È altresì un'arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: «Dobbiamo essere rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,8). Essa ci procura la gioia anche nella prova: «Lieti nella speranza, forti nella tribolazione» (Rm 12,12). Si esprime e si alimenta nella preghiera, in modo particolarissimo nella preghiera del Signore, sintesi di tutto ciò che la «Speranza» ci fa desiderare. Noi possiamo, dunque, sperare la gloria del cielo promessa da Dio a coloro che lo amano e fanno la sua volontà. In ogni circostanza ognuno deve sperare, con la grazia di Dio, di perseverare sino alla fine e ottenere la gioia del cielo, quale eterna ricompensa di Dio per le buone opere compiute con la grazia di Cristo. Nella «Speranza» la Chiesa prega che «tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2,4).

La «Carità» è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. Gesù fa della «Carità» il comandamento nuovo. Amando i suoi «sino alla fine» (Gv13,1), egli manifesta l'amore che riceve dal Padre. Amandosi gli uni gli altri, i discepoli imitano l'amore di Gesù, che essi ricevono a loro volta. Per questo Gesù dice: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). E ancora: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12). La «Carità», frutto dello “Spirito” e pienezza della Legge, osserva i comandamenti di Dio e del suo Cristo: «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,9-10). Cristo è morto per amore verso di noi, quando eravamo ancora «nemici» (Rm 5,10). Il Signore ci chiede di amare come lui, perfino i nostri nemici, di farci prossimo del più lontano, di amare i bambini e i poveri come lui stesso. L'Apostolo San Paolo ha dato un ineguagliabile quadro della «Carità»: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7). Se non avessi la carità, dice ancora l'Apostolo, «non sono nulla». E tutto ciò che è privilegio, servizio, perfino virtù... senza la carità, «niente mi giova». La «Carità» è superiore a tutte le virtù. È la prima delle virtù teologali: «Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13). L'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla «Carità». Questa è il «vincolo di perfezione» (Col 3,14); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro pratica cristiana. La «Carità» garantisce e purifica la nostra capacità umana di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino. La pratica della vita morale animata dalla «Carità» dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come il mercenario in cerca del salario, ma come un figlio che corrisponde all'amore di colui che «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19). La «Carità» ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la reciprocità, si dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione: «Il compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il nostro fine; per questo noi corriamo, verso questa meta corriamo; quando saremo giunti, vi troveremo riposo ». 

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