Le virtù umane
si radicano nelle «virtù teologali», le quali rendono le facoltà dell'uomo idonee alla
partecipazione alla natura divina. Le «virtù teologali», infatti, si riferiscono
direttamente a Dio. Esse dispongono i cristiani a vivere in relazione con la
Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino. Le «virtù
teologali» fondano, animano e caratterizzano l'agire morale del
cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da
Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e
meritare la «vita eterna». Sono il pegno della presenza e dell'azione dello “Spirito
Santo” nelle facoltà dell'essere umano. “Tre” sono le «virtù teologali»:
la «Fede»,
la «Speranza» e la «Carità».
La «Fede» è la virtù teologale per la quale
noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la
Chiesa ci propone da credere, perché Dio è la stessa “verità”. Con la Fede «l'uomo
si abbandona tutto a Dio liberamente». Per questo il credente cerca
di conoscere e di fare la volontà di Dio. «Il giusto vivrà mediante la fede»
(Rm 1,17). La Fede viva «opera per mezzo della
carità» (Gal 5,6). Il dono della «Fede»
rimane in colui che non ha peccato contro di essa. Ma «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Se non si accompagna alla «Speranza»
e all'«Amore», la «Fede» non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa
un membro vivo del suo corpo. Il
discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la «Fede»
e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e
diffonderla: «Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli
uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa». Il servizio e la testimonianza della «Fede» sono indispensabili per la salvezza: «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32-33).
La «Speranza»
è la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la «vita eterna» come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia
nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull'aiuto
della grazia dello “Spirito Santo”. «Manteniamo senza
vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha
promesso» (Eb 10,23). Lo “Spirito”
è stato «effuso da lui su di noi abbondantemente
per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua
grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,6-7). La virtù della «Speranza» risponde all'aspirazione alla felicità, che Dio ha
posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività
degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo
scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore
nell'attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva
dall'egoismo e conduce alla gioia della carità. La «Speranza cristiana» riprende e porta a pienezza la speranza del popolo eletto, la quale trova la propria origine ed il proprio modello
nella «Speranza di Abramo», colmato in Isacco delle promesse
di Dio e purificato dalla prova del sacrificio. «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così
divenne padre di molti popoli»
(Rm 4,18). La «Speranza»
cristiana si sviluppa, fin dagli inizi della predicazione di Gesù,
nell'annuncio delle beatitudini. Le “beatitudini” elevano la
nostra «Speranza» verso il cielo come verso la nuova Terra promessa;
ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù.
Ma per i meriti di Gesù Cristo e della sua passione, Dio ci custodisce nella «Speranza»
che «non delude» (Rm 5,5).
La «Speranza» è l'«àncora della nostra
vita, sicura e salda, la quale penetra»
là «dove Gesù è entrato per noi come
precursore» (Eb 6,19-20). È
altresì un'arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: «Dobbiamo essere rivestiti con la corazza della fede e
della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,8). Essa ci procura la gioia
anche nella prova: «Lieti nella speranza,
forti nella tribolazione» (Rm 12,12).
Si esprime e si alimenta nella preghiera, in modo particolarissimo nella preghiera
del Signore, sintesi di tutto ciò che la «Speranza» ci fa desiderare. Noi possiamo, dunque, sperare la
gloria del cielo promessa da Dio a coloro che lo amano e fanno la sua
volontà. In ogni circostanza ognuno deve sperare, con la grazia di Dio, di
perseverare sino alla fine e ottenere la gioia del cielo, quale eterna
ricompensa di Dio per le buone opere compiute con la grazia di Cristo. Nella «Speranza»
la Chiesa prega che «tutti gli uomini siano
salvati» (1 Tm 2,4).
La «Carità»
è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e
il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. Gesù fa della «Carità»
il comandamento nuovo. Amando i suoi «sino alla fine»
(Gv13,1), egli manifesta l'amore che riceve dal Padre. Amandosi gli uni
gli altri, i discepoli imitano l'amore di Gesù, che essi ricevono a loro volta.
Per questo Gesù dice: «Come il Padre ha amato
me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). E ancora: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amati»
(Gv 15,12). La «Carità», frutto dello “Spirito” e pienezza della Legge,
osserva i comandamenti di Dio e del suo Cristo: «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti,
rimarrete nel mio amore» (Gv 15,9-10).
Cristo è morto per amore
verso di noi, quando eravamo ancora «nemici» (Rm 5,10). Il Signore ci chiede di amare
come lui, perfino i nostri nemici, di farci prossimo del più
lontano, di amare i bambini e i poveri come lui stesso. L'Apostolo San Paolo ha dato un
ineguagliabile quadro della «Carità»: «La carità è paziente,
è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia,
non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene
conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della
verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7). Se non avessi la carità,
dice ancora l'Apostolo, «non sono nulla». E tutto ciò che è privilegio, servizio, perfino
virtù... senza la carità, «niente mi giova». La «Carità» è superiore a tutte le virtù. È la
prima delle virtù teologali: «Queste le tre cose che
rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13). L'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla «Carità». Questa è il «vincolo di perfezione» (Col 3,14); è la forma delle
virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro
pratica cristiana. La «Carità» garantisce e purifica la nostra capacità umana di
amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino. La pratica della vita morale
animata dalla «Carità» dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di
Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come
il mercenario in cerca del salario, ma come un figlio che corrisponde all'amore
di colui che «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19). La «Carità»
ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la
generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la reciprocità, si
dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione: «Il
compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il nostro fine; per questo
noi corriamo, verso questa meta corriamo; quando saremo giunti, vi troveremo
riposo ».
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