«Eutanasia»:
«la bella morte», «la buona morte»; naturale, tranquilla, serena. È stata la
morte di molti. Oggi, però, questa parola indica l'intervento di estranei che
consentono a qualcuno di morire evitandogli il più possibile la sofferenza.
Una persona che per qualsiasi
motivo decida di propria iniziativa di dare una buona morte ad un'altra persona
è un omicida da perseguire secondo la legislazione vigente nei Paesi civili. C'
è però un caso, un «unico» caso, in cui il problema non è di così semplice
soluzione. E’ il caso in cui qualcuno, volendo morire perché la sofferenza
grava su di lui in modo insopportabile, non ha però la capacità fisica di darsi
la morte.
Certo, anche il suicidio
è una forma di omicidio. Per alcune configurazioni del pensiero Filosofico o
per il Cristianesimo (ma si possono fare altri esempi) il suicida è colpevole.
I motivi, però, per cui lo si considera colpevole possono lasciare perplessi.
Quando ad esempio si dice che la vita è un dono di Dio e che solo lui può
toglierla, il pensiero corre al nostro modo di donare, cioè al fatto che, di
solito, quando doniamo qualcosa evitiamo invece di riprendercela.
Un tempo, in molte legislazioni
europee il suicidio era considerato un reato. Se chi agiva per sopprimersi
falliva nel suo intento, cioè sopravviveva, egli era perseguibile penalmente.
Oggi non più. Per molte forme di cultura il suicidio rimane una colpa morale,
che merita sì sanzioni ultraterrene ma non più , qualora non riesca nel suo
intento, meritare sanzioni terrene.
Anche
per la normativa italiana il suicida mancato non è giuridicamente
colpevole. Ed è a questo punto che la nostra legislazione e quelle similari
mostrano una palese contraddizione in se stesse. Trattano cioè diversamente chi
dovrebbe essere invece trattato nello stesso modo perché la legge è uguale per
tutti. Trattano cioè diversamente chi, avendone la capacità fisica, può darsi
la morte, e chi invece non ha la capacità fisica di farlo ma lo desidera
intensamente. Trattano diversamente coloro che sono uguali di fronte alla
legge, perché proibendo l'Eutanasia, toglie la libertà di darsi la morte
soltanto a quelli che sono incapaci di morire da soli.
Se la legge vuol essere coerente deve dunque o ripristinare
la perseguibilità giuridica del suicidio, e quindi punire chi aiuta il suicida
a darsi la morte, oppure deve riconoscere a tutti la libertà di darsi la morte
quando per essi la vita sia diventata insopportabile, e quindi non deve punire
chi aiuta il suicida (e deve tuttavia anche rispettare la coscienza di chi non
intenda prestare un aiuto siffatto).
Si
rileva, pertanto, una contraddizione che, rispetto all'Eutanasia, è
presente in una normativa come la nostra. Non solo, ma quanto si rileva lascia aperto il problema di come si
possa essere sicuri che, per chi mostra di avere la vita «in gran superbo
disprezzo», la vita, per lui, sia davvero tale.
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