sabato 24 dicembre 2016

CONCLUSIONI FINALI SU PLATONE


Si può dire che forse Platone è stato il più geniale filosofo di tutti i tempi, oltre che un grandissimo artista e un testimone eccezionale della cultura del suo tempo e dell’epoca a lui precedente. Filosofo geniale non perché abbia sempre elaborato dottrine convincenti, ma perché ha formulato quasi tutti i problemi che poi sono rimasti alla base dell’intera filosofia occidentale e soprattutto perché ha fissato per primo ed in modo pressoché definitivo la struttura stessa del discorso filosofico, il suo modo di procedere, la sua peculiarità principale, cioè la «dialettica». 

Egli, infatti, riprendendo da Socrate la disposizione fondamentale al «domandare», e quindi al dialogo, come condizione imprescindibile del discorso filosofico, e riprendendo con essa il momento altrettanto fondamentale dell’«élenchos», cioè dell’esame, del vaglio, della confutazione, come espressione suprema di criticità, ha saputo trasformare tutto questo, da semplice, e pur necessaria preliminarmente, dichiarazione di ignoranza, in vera e propria produzione di scienza (epistéme), cioè di sapere, di discorso incontrovertibile, che non dice semplicemente come stanno le cose, ma riesce ad escludere che possano stare diversamente. Da allora in poi, in tutti i momenti in cui la filosofia è riuscita ad essere se stessa, vale a dire un discorso diverso da altre forme di attività umana, razionali, soprarazionali o a-razionali, essa si è strutturata in modo dialettico, secondo le indicazioni e il modello forniti da Platone

Quanto alle sue dottrine, esse sono caratterizzate quasi tutte da una profonda ambivalenza, cioè per un verso sono espressione di un’esigenza incontestabile, e per altro sono discutibili, non convincenti, a volte addirittura assurde. Ciò vale in primo luogo per la più importante e fondamentale di esse, la “Dottrina delle Idee”, la quale esprime l’esigenza insopprimibile di mediare l’«esperienza» alla ricerca di un «principio trascendente», cioè di una realtà "sovrasensibile", causa e ragione di quella sensibile; ma finisce poi per concepire tale realtà come un doppione di quella sensibile, che per la sua natura di modello relega quest’ultima al rango di semi-realtà. 

Di tutto questo, come abbiamo visto, si è reso conto per primo lo stesso Platone, che infatti nei suoi ultimi dialoghi ha introdotto nuovi principi, sia di tipo efficiente, cioè attivo, da ricercarsi nella direzione di una mente, o intelligenza, divina, sia di tipo strutturale, implicanti un processo di «matematizzazione» della realtà. (Considerazione, interpretazione e valutazione secondo principi, schemi e procedimenti che sono propri della matematica; applicazione di leggi, o schemi e procedimenti matematici a un dominio della scienza, o a un oggetto della conoscenza, o anche a un aspetto della realtà che non appartiene alla matematica esempio lo studio della natura, le scienze sociali, la spiegazione dei comportamenti umani. Oppure ragionare su basi e secondo metodi razionali, propri della matematica). 

Entrambe queste indicazioni sono state riprese dalla filosofia successiva, sia pure in direzioni tra loro divergenti: la prima da Aristotele, e in generale dalle metafisiche trascendentistiche, la seconda dalle metafisiche immanentistiche. Di grande fecondità si è rivelato il processo di «matematizzazione» del mondo sensibile, che è stato ripreso e praticamente assolutizzato dalla scienza moderna, mentre in Platone esso coesisteva con altri modelli di spiegazione, quali quello «biomorfico» (attività pittorica astratta fra irrazionale e razionale), che hanno avuto fortuna soprattutto nell’antichità e nel medioevo e di cui solo oggi si torna a riscoprire il valore. 

Lo stesso carattere ambivalente presenta la concezione platonica dell’«uomo», che da un lato può essere considerata la prima vera scoperta della dimensione spirituale, e dall’altro conduce a forme di dualismo e di contrapposizione tra «anima» e «corpo» del tutto inaccettabili. Anche l’«etica», insieme ad un indicazione verso il superamento delle miserie, delle debolezze e dei limiti umani, contiene aspetti rigoristici e antiumanistici che suscitano notevoli perplessità. Degna della massima attenzione è invece l’analisi dei conflitti psichici, in cui alcuni vedono addirittura un’anticipazione dell’odierna psicanalisi. 

Un capolavoro perenne di Platone è indubbiamente la sua concezione «politica», anche se essa contiene gli aspetti più aberranti del suo pensiero, quali l’abolizione della famiglia, un rigido classismo, un esasperato dirigismo e soprattutto l’illusione della scientificità della politica. Essa è tuttavia un capolavoro, perché coglie per la prima volta l’essenzialità della dimensione politica alla vita umana ed il principio razionale di organizzazione della società politica, che è la collaborazione di molti verso il «bene comune», per cui la «politica» è indissolubilmente legata all’«etica». 

Geniale, anche se incompleta, è infine l’«estetica» di Platone, ma molti altri sono i suoi contributi che si potrebbero citare e che sono stati trascurati in questa esposizione: dalla filosofia del linguaggio alla storia della cultura, all’interpretazione dei miti, ecc. Praticamente tutto ciò che Platone ha detto è rimasto come oggetto di ammirazione, fonte di ispirazione e riflessione, materia di discussione per le filosofie successive.





sabato 10 dicembre 2016

LA FILOSOFIA PLATONICA DELL’ARTE


Alla filosofia platonica della politica è strettamente connessa la filosofia platonica dell’«arte», cioè quella che, con termine moderno, potrebbe essere chiamata l’«estetica» di Platone e che fa di questo filosofo il fondatore dell’«estetica». Nel celebre libro X della “Repubblica”, Platone dichiara infatti di voler bandire dal suo Stato ideale i poeti e gli artisti in genere, e spiega le ragioni di quest’ultima stranezza del suo pensiero politico. La poesia, il cui massimo rappresentante è Omero, padre dei grandi tragici, così come l’arte in generale, per esempio la pittura, sono, secondo Platone, essenzialmente imitazione (mímesis). 

Questa è la prima definizione dell’«arte» che sia mai stata data ed è la causa del giudizio negativo, come vedremo subito, che Platone pronuncia su di essa. Un pittore, spiega il filosofo, quando dipinge, ad esempio, un letto, imita con il disegno e con i colori il letto che esiste nella realtà, cioè il letto costruito dal falegname. Ma questo, in base alla “Dottrina delle idee”, è a sua volta imitazione, cioè copia, dell’idea del letto, vale a dire di quel letto ideale, unico e immutabile, che è stato costruito, per così dire, dal Dio (X, 597 a-d). Ora, poiché per Platone il vero letto, cioè la vera realtà, è quest’ultimo, e quello sensibile è soltanto una realtà apparente, il pittore, imitando il letto sensibile, cioè la realtà apparente, si occupa di una realtà non di secondo ordine, ma addirittura di terzo ordine, che è ancora meno vera della realtà sensibile (X, 598 a – 599 a). 

Dal punto di vista della verità dunque, cioè della conoscenza, l’«arte» non ha nessun valore, non ci fa conoscere nulla. Ad esempio, dalla poesia di Omero non si impara né come devono essere fatte le leggi né come si fa la guerra, benché Omero parli di Stati e di guerre. Gli artisti, insomma, non si intendono veramente di nulla, non hanno nulla da insegnare. La facoltà che essi adoperano per produrre le loro opere non è l’intelligenza, cioè la parte razionale dell’anima, ma un’altra, ad essa inferiore (probabilmente l’anima impulsiva o appetitiva) (X, 604 b – 605 b). Si vede in tal modo come questo primo giudizio negativo, che Platone dà dell’«arte», sia formulato da un punto di vista non specificatamente estetico, bensì conoscitivo: l’«arte» non ha valore se presume di essere conoscenza della realtà, cioè scienza.

Da ciò consegue anche il secondo giudizio negativo che Platone pronuncia sull’«arte», quello che viene formulato dal punto di vista etico e politico. In quanto non ci fa conoscere la verità e si rivolge alle parti non razionali dell’anima, l’«arte» – afferma Platone – è immorale, cioè alimenta tendenze irrazionali, passioni, desideri impuri. Per esempio, la tragedia fa provare compassione, piangere e lagnarsi per le sventure altrui, inducendo in tal modo l’anima a fare altrettanto per le proprie, mentre sarebbe meglio imparare a controllarsi ed a frenare tali tendenze. 

Analogamente la commedia fa divertire e ridere per le buffonate altrui, inducendo l’anima a comportamenti ridicoli, che invece bisognerebbe evitare. «Simili effetti produce in noi – scrive Platone – l’imitazione poetica anche rispetto ai piaceri amorosi, alla collera e a tutti gli “appetiti” dolorosi e piacevoli dell’anima nostra, quelli che, come diciamo, accompagnano ogni nostra azione. Li fomenta e li nutre, mentre bisognerebbe disseccarli. Affida loro il governo delle nostre persone, mentre dovrebbero essi venire governati, affinché potessimo divenire migliori e più felici anziché peggiori e più disgraziati» (X, 605 a-e). Si tratta, come si vede, di una condanna esplicitamente morale. Per tutti questi motivi Platone propone di bandire dal suo Stato ideale artisti e poeti, trasformando in tal modo la condanna conoscitiva ed etica in condanna anche politica. 

Tuttavia, proprio il vigore di queste condanne rivela che il filosofo ha compreso la potenza suggestiva dell’«arte», cioè la sua capacità di influire sull’anima, facendo leva sulla parte non razionale di essa. Si può dire pertanto che Platone si è avviato a riconoscere lo specifico dell’«arte», ciò che la fa essere un’attività distinta sia da quelle di tipo conoscitivo che da quelle di tipo pratico. Di tale consapevolezza è prova anzitutto il fatto che, nella stessa “Repubblica”, dove illustra l’educazione dei guardiani, Platone raccomanda che si faccia ricorso, per la formazione dell’anima, alla musica, mostrando in tal modo di riconoscere all’«arte» un potere di suggestione non soltanto negativo, ma anche positivo. 

Non altrettanto, però, Platone dice della musica, cioè del canto e della melodia, che non è propriamente una forma di imitazione. In essa possono essere negative certe parole, o certe forme di armonia, come quelle lamentose e quelle molli (cioè le armonie “ionica” e “lidia”), ma ne andranno conservate altre, che suscitano fermezza o serenità (cioè quelle “dorica” e “frigia”). Anche tra i ritmi ve ne sono alcuni di ineleganti, perché irregolari, ed altri di eleganti, perché regolari. Dunque è possibile orientare la musica e l’educazione che su di essa si fonda verso un ideale di bellezza, euritmia, armonia ed eleganza (III, 398 c – 403 c). 

Ma il documento più chiaro della percezione che Platone ha avuto dello specifico estetico è un breve dialogo, lo “Ione”, concernente l’arte dei “rapsodi”, cioè di quanti andavano cantando la poesia di Omero e di altri poeti. Colui che canta i versi di Omero, afferma Platone in questo dialogo, non lo fa in virtù di un’arte, ma di un «potere divino», simile a quello proprio del “magnete”, che trasmette la forza di attrazione ai successivi anelli di una catena. La fonte di questo potere è la “Musa”, cioè la divinità stessa, la quale lo trasmette ai poeti ispirandoli, cioè penetrando in essi, rendendoli invasati dalla divinità (questo è il significato del termine «entusiasmo»). 

Il carattere positivo dell’ispirazione divina in genere, e quindi anche di quella artistica, è ribadito da Platone nel “Fedro”. Qui egli fa l’elogio dell’amore, considerato come una specie di delirio (manía), che è dono degli dei. Altre forme di delirio sono la capacità di profetizzare, che è ugualmente un’ispirazione divina, e la capacità di poetare. Infine, nel “Simposio”, Platone sembra quasi intuire il carattere creativo dell’«arte», quale sarà scoperto e messo in evidenza dalla moderna estetica romantica. Qui, infatti, egli afferma che, come l’amore per i bei corpi si esprime nella tendenza a generare “sessualmente”, così l’amore per le belle anime si esprime nella tendenza a generare “spiritualmente”, cioè l’amore per il bello è «generazione nel bello» (Simposio, 206). 

Nota finale: L’«arte», non più divina manía (Ione e Fedro) e neppure creazione «nel» bello (Simposio), si è trasformata nella “Repubblica” platonica in «imitazione del modo sensibile», copia di una copia. Da ciò la condanna conoscitiva e morale di ogni espressione artistica in quanto allontana l’uomo dalla vera realtà, impedendogli l’ascesa alla bellezza intelligibile.


sabato 3 dicembre 2016

PLATONE E LO STATO


Normalmente la filosofia politica viene considerata una dottrina dello Stato, perciò anche a  proposito di Platone, che alla politica dedicò la massima attenzione (al punto che tutta la sua vita, nella “Lettera VII”, è presentata come un impegno politico), si vuole parlare di Stato. Non bisogna dimenticare però che lo Stato propriamente detto, cioè lo Stato sovrano, è una creazione moderna, mentre nell’antica Grecia in luogo dello Stato esisteva la “pólis”, da cui deriva lo stesso termine «politica». La “pólis” era la società autosufficiente ed autogovernantesi, coincidente in genere con la popolazione di una città e del territorio necessario al suo sostentamento, ma suscettibile di assumere le estensioni più diverse. 

La traduzione migliore del termine “pólis” sarebbe «società politica», ma con questa precisazione possiamo, per comodità, continuare a parlare di Stato. L’opera classica dedicata da Platone allo Stato è la “Repubblica” (in greco “Politéia”, che significa «costituzione», cioè ordinamento della “pólis”), opera che è anche il primo grande trattato di filosofia politica. Qui l’autore spiega anzitutto l’origine dello Stato, osservando che il singolo individuo umano non è autosufficiente, cioè non è in grado di soddisfare da solo tutti i suoi bisogni, sia «materiali» che – è certamente sottinteso – «spirituali», perciò è indotto dalla sua stessa natura ad associarsi con altri.

Il fondamento dello Stato è dunque la natura socievole, anzi – dirà Aristotele – politica dell’uomo. Indi Platone mostra come il criterio più razionale per la soddisfazione dei bisogni sia la distribuzione dei compiti, cioè quella che con espressione moderna sarà chiamata la divisione del lavoro. «Le singole cose – egli afferma – riescono più e meglio e con maggiore facilità quando uno faccia una cosa sola, secondo la propria naturale disposizione e a tempo opportuno, senza darsi pensiero delle altre» (II, 370 c). 

Poiché ciascun individuo ha bisogno sia di cibo, sia di abitazione, sia di vestiario, è bene che alcuni si specializzino nella produzione del cibo per tutti, altri delle abitazioni, altri del vestiario. Nascono così le diverse categorie di cittadini, gli agricoltori, gli artigiani, i commercianti, dal cui insieme e dalla cui collaborazione è costituita appunto la “pólis” (Repubblica, II, 367 e – 371 b). 

Poiché però i bisogni crescono, accanto a quelli più elementari ne nascono altri, che richiedono risorse sempre maggiori e quindi implicano la necessità della difesa di esse dai tentativi che altri Stati possano compiere per impadronirsene: di qui il sorgere di una particolare categoria di cittadini, chiamati guardiani, o custodi, specializzati in questo compito. Questi ultimi, in quanto detentori della forza, devono essere però in grado di distinguere, come dei buoni cani da guardia, gli amici dai nemici, e in genere che cosa è bene da che cosa è male, perciò devono essere in qualche misura sapienti, cioè filosofi (II, 372 c – 376 e). 

Ecco delinearsi così le «tre» categorie fondamentali di cittadini: i «produttori», dediti alle attività che oggi diremmo economiche (agricoltori, artigiani, commercianti), i «guerrieri», o guardiani dediti alla difesa, ed i «filosofi», o guardiani dediti al governo. Non si tratta, però, di categorie chiuse: chiunque, per natura o per educazione, lo meriti, può accedere alle categorie superiori, e chi invece demeriti, scenderà in quelle inferiori. Tutti i guardiani, sia guerrieri che filosofi, devono condurre, secondo Platone, vita in comune, cioè alloggiare insieme, prendere i pasti insieme e non possedere beni personali: questo al fine di evitare che facciano prevalere interessi particolari sul bene generale della città (III, 415 d – 417 b). 

È questo il cosiddetto «comunismo» platonico, limitato peraltro ai soli guardiani e dettato non da una concezione materialistica dell’uomo, bensì dalla rigida subordinazione dell’economia alla politica ed all’etica. Affinché la città viva nel modo migliore possibile, è necessario che ciascuna categoria di cittadini realizzi la virtù che le è propria, cioè la perfezione della sua funzione: i filosofi dovranno realizzare soprattutto la «sapienza», i guerrieri il «coraggio» ed i produttori la «temperanza». Quando ciascuna categoria avrà realizzato la propria virtù, dall’insieme risulterà quell’armonia in cui consiste la giustizia, costituita dunque dall’adempimento, da parte di ciascuno, del proprio compito (IV, 427 d – 434 c). 

La realizzazione di questo Stato «giusto», o perfetto, richiede tuttavia alcune condizioni che per i Greci erano abbastanza insolite: anzitutto un’identità di compiti e di educazione tra uomini e donne, la quale comporta persino dei comuni esercizi ginnici e comuni funzioni militari; in secondo luogo una comunanza, per i guardiani, di donne e di figli, cioè praticamente l’abolizione della famiglia particolare e la trasformazione dello Stato in un’unica grande famiglia; in terzo luogo l’affidamento del potere ai filosofi, espresso dalla celebre tesi che i filosofi governino o che i governanti facciano buona filosofia. 

Esso corrisponde all’ideale sognato da Platone per tutta la sua vita, da lui esperito come reale nelle comunità pitagoriche (filosofi al potere) e perseguito mediante l’educazione di Dionisio e la fondazione dell’Accademia (formazione dei governanti alla filosofia). Per comprenderne il significato, tuttavia, bisogna tenere presente che i filosofi in questione non sono i filosofi di professione, quali erano ad esempio i sofisti, ma coloro che conoscono la «verità» ed il «bene», ossia gli uomini più esperti e saggi. Questi non possono che essere pochi e l’affidamento del potere ad essi non può che avvenire in situazioni ottimali, come quelle emblematicamente espresse dalla città sinora descritta, che Platone stesso considera ben difficili, anche se non impossibili, da realizzare (VI, 502 a-c). 

Grande importanza acquista, in questa prospettiva, l’educazione, che dovrà essere affidata allo Stato e dovrà rivolgersi non tanto ai semplici “produttori”, per i quali è sufficiente l’apprendimento del proprio mestiere, quanto ai “guardiani”, cioè ai guerrieri, di cui si dovrà coltivare il «corpo» mediante la ginnastica e l’«anima» mediante la musica (cioè le attività spirituali, moralmente orientate), e soprattutto ai “filosofi”, che mediante la matematica, dovranno essere addestrati all’esercizio di quella dialettica che ha per oggetto le “idee” e, conclusivamente, l’idea del «bene». Solo chi conosce il «bene», infatti, può governare gli altri, guidandoli appunto verso il «bene» (VI, 502 c 511 e). 

Naturalmente, come spiega Platone, i filosofi, proprio perché amano la contemplazione delle “idee”, non aspirano al «potere», anzi fanno di tutto per sottrarvisi: perciò lo Stato dovrà costringerli a governare, cioè a ritornare in quella specie di «caverna» che è il “mondo sensibile”, dalla quale essi sono usciti per andare a contemplare le “idee” (VII, 519 e – 521 b). Infatti, afferma Platone, «lo Stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato in modo opposto» (VII, 520 d). 

Oltre alla descrizione dello Stato perfetto, che potremmo chiamare «ideale» (non solo perché non esiste in questo mondo, ma anche perché deve servire da modello agli Stati di questo mondo), la “Repubblica” contiene anche una celebre analisi degli Stati reali, interpretati alla luce del modello or ora descritto: questi sono infatti, secondo Platone, altrettante degenerazioni dello Stato ideale, che si allontanano da esso sempre più, in una specie di degradazione continua. 

La prima degenerazione dello Stato perfetto, il quale è una vera e propria "aristocrazia" (cioè governo dei migliori), è lo Stato «timocratico», cioè il governo di coloro che aspirano soprattutto agli onori (timé), vale a dire dei guerrieri, uomini ambiziosi, in cui domina l’anima impulsiva: ad essa si giunge quando il meccanismo di riproduzione dei filosofi per qualche errore si inceppa e i figli dei filosofi assumono una natura, appunto, di guerrieri. 

La degenerazione successiva è lo Stato «oligarchico», cioè il governo dei pochi (olígoi), vale a dire dei ricchi, dominati soprattutto dall’avidità di denaro: ad essa si giunge quando i guerrieri lasciano prevalere sul desiderio dell’onore il desiderio, appunto, del denaro. Questo Stato è caratterizzato, osserva acutamente Platone, dalla lotta fra i pochi ricchi e i molti poveri, cioè da quella che in età moderna sarà chiamata “Lotta di Classe”. «Un simile Stato è per forza non uno – afferma il testo –, ma duplice: quello dei poveri e quello dei ricchi. Essi abitano lo stesso luogo e si tendono continuamente reciproche insidie» (VIII, 551 d). 

la terza e ulteriore degenerazione è lo Stato «democratico», cioè il governo del “démos”, della massa, composta da uomini dediti a tutte le passioni, in cui domina l’anima appetitiva: esso è caratterizzato dalla licenza e dall’anarchia, e si instaura quando i poveri si rivoltano contro i ricchi (rivoluzione) e si impadroniscono del potere. 

Infine l’ultima e peggiore degenerazione è la «tirannide», cui si perviene quando i capi della massa, che l’hanno guidata alla conquista del potere, si servono di questo per soddisfare le loro passioni individuali, riducendo l’intera città in uno stato di schiavitù (libro VIII). Il «tiranno», per Platone, è il peggiore di tutti gli uomini, ed è schiavo lui stesso delle sue passioni, quindi è infelice, perché condannato ad avere sempre nuovi desideri ed a vivere nel terrore di essere ucciso da coloro sui quali esercita la sua tirannide. Il «tiranno» è l’opposto estremo del filosofo, che è invece il governante perfetto, l’uomo «regale», cioè degno di essere re, che comunque realizza lo Stato ideale nella sua vita interiore (libro IX). 

Il grande affresco, filosofico e sociologico, offerto dalla “Repubblica”, non è tuttavia l’unico contributo di Platone alla politica: successivamente egli dedicò all’argomento altri due dialoghi, il “Politico” e le “Leggi”, in cui il suo pensiero al riguardo fa registrare qualche evoluzione. Nel “Politico”, dedicato appunto a delineare la figura dell’uomo politico, cioè del buon governante, Platone sostiene anzitutto che, per governare, bisogna possedere la scienza del governo, cioè la scienza regale, la quale è la stessa sia che si debba governare uno Stato (scienza politica), sia che si debba governare una casa (scienza economica, da “óikos” = casa) (Pol., 258 b – 259 a). Questa scienza è insieme teoretica, cioè conoscitiva, e pratica, cioè capace di agire, in particolare di comandare. 

Colui che possiede la scienza di governare, cioè il vero politico, non ha bisogno di leggi: anzi, il governo dell’uomo che sa e non ha leggi è migliore del governo fondato sulle leggi, perché queste formulano comandi o divieti di carattere generale, senza poter tener conto dei casi singoli, cosa che invece il buon politico può fare (294 c – 296 a). 

Il governo basato sulle leggi, tuttavia, può essere di vari tipi, ciascuno dei quali corrisponde ad una diversa costituzione, a seconda che governi uno solo, governino i pochi, o governino i molti. Il governo di uno solo è la «monarchia»: se essa si svolge nel rispetto delle leggi, dà luogo alla costituzione migliore, che è il «regno»; se invece si svolge nella violazione delle leggi, dà luogo alla costituzione peggiore, che è la «tirannide». Il governo di pochi nel rispetto delle leggi è l’«aristocrazia», nella loro violazione è l’«oligarchia»; quello dei molti, sia che si svolga nel rispetto sia in violazione delle leggi, ha sempre uno stesso nome, «democrazia». Le costituzioni vigenti sono sempre quelle peggiori, e fra esse quella più sopportabile è la «democrazia», poiché in questa, anche se le leggi non vengono rispettate, la maggiore distribuzione del potere è un rimedio a mali peggiori (302 b  – 303 e). Rispetto alla “Repubblica”, dunque, il “Politico” lascia cadere tutta la complessa divisione dello Stato in classi e le condizioni ad essa connesse (comunismo di proprietà e famiglie), per far dipendere il buon governo unicamente dalla scienza dei governanti. 

Un ulteriore allontanamento dalla “Repubblica”, ed una evoluzione rispetto allo stesso “Politico”, è rappresentato dalle “Leggi, che costituiscono l’ultima opera di Platone. Qui l’autore mostra di considerare ormai irrealizzabile lo Stato perfetto e si concentra invece nell’analisi del migliore degli stati possibili, il quale, rispetto al primo, è soltanto uno «Stato secondo», cioè un’immagine il più possibile somigliante di quello (Leggi, V, 739 b – 741 a). Lo «Stato secondo», a differenza di quello ideale, è retto da leggi, perciò l’intero dialogo è dedicato alla minuziosa illustrazione di come queste debbano essere. Inoltre lo «Stato secondo», cioè il migliore possibile, deve avere una costituzione che sia la sintesi di quanto di più valido v’è nelle costituzioni classificate nel “Politico”: l’aspetto valido della «democrazia», cioè la "libertà", quello dell’«aristocrazia», cioè la "saggezza", e quello del «regno», cioè la "concordia"(l’unità) (III, 693 d – 696 b). 

Si ha così una specie di «costituzione mista», sintesi delle tre «costituzioni semplici», migliore e più duratura di tutte, la quale è stata in qualche misura realizzata, secondo Platone, sia a Sparta che a Creta, ossia in quegli Stati in cui c’è un potere monarchico (il re), un potere aristocratico (il consiglio) e un potere democratico (l’assemblea) (IV, 712 b – 713 a). È questa una dottrina destinata ad avere grande fortuna nel pensiero e nelle istituzioni politiche romane e moderne. 

La propensione di Platone per l’«aristocrazia» resta tuttavia immutata anche nelle “Leggi”, là dove egli pone al vertice dello Stato un «consiglio supremo», detto anche «consiglio notturno» perché deve riunirsi di notte, al quale è delegato il compito di coordinare l’intera vita della società, spingendosi sin nelle più particolari attività dei cittadini. 

Nota finale: Per non cadere nella tirannide della «democrazia», che è il peggiore dei domini perché soffoca ogni verità e libertà, dice Platone nelle “Leggi”, bisogna che il governo sia della “ragione” e che le leggi ne siano quindi espressione.   



        

domenica 20 novembre 2016

PLATONE E L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA


Prima di affrontare la concezione politica, è importante sottolineare la particolare convinzione che Platone aveva dell’«immortalità dell’anima» e, in connessione con questa, di quella che oggi chiameremmo la sua natura spirituale. Nel “Fedone” il personaggio di Socrate cerca di consolare i suoi discepoli per l’imminente distacco, fornendo loro le seguenti «dimostrazioni» dell’«immortalità dell’anima». 

Anzitutto l’esperienza ci mostra che ogni cosa nasce dal suo contrario, per esempio dal sonno si passa veglia e dalla veglia al sonno: analogamente, come dalla vita si passa alla morte, ci dovrà essere anche un passaggio dalla morte alla vita, cioè una rinascita, una reincarnazione, la quale suppone che l’anima non sia morta al momento del suo distacco dal corpo (70 c – 72 e). L’argomento, tuttavia, non è sufficiente, perché più avanti un discepolo obietterà che nulla ci assicura dell’eternità del ciclo delle reincarnazioni, il quale ad un certo punto potrebbe avere termine. 

La seconda «dimostrazione» è data dalla dottrina della reminiscenza: se il conoscere è un ricordare le “idee”, suscitato dall’incontro con le loro immagini sensibili, come prova il fatto che noi conosciamo l’uguale senza avere mai visto cose perfettamente uguali, l’«anima» deve essere preesistita alla sua incarnazione nel corpo. A questo argomento è tuttavia facile obiettare che esso dimostra la preesistenza dell’«anima» al «corpo», non la sua sopravvivenza a questo (72 e – 77 d). 

Platone fornisce allora una terza «dimostrazione», che è quella più valida: l’«anima», per il fatto che può conoscere le “idee”, ha una natura affine a queste, cioè è anch’essa semplice. Come tale, l’«anima» a differenza del «corpo», che è composto, non può decomporsi, cioè non può morire (78 b – 81 e). La stessa dimostrazione è ripresa da Platone nella “Repubblica”, dove si afferma che l’«anima» non perisce né a causa della malattia che le è propria, cioè l’ingiustizia, come è provato dall’esistenza di anime ingiuste, né a causa della malattia che colpisce il «corpo», perché essa è diversa da quest’ultimo: dunque essa è immortale (X, 608 c – 611 a). 

Da tutto ciò si desume che l’«anima» è per Platone una sostanza indipendente dal corpo, di natura semplice ed immateriale, ossia una realtà spirituale: la prova di ciò è la sua capacità di conoscere realtà semplici e immateriali come le “idee” ossia il carattere spirituale del pensiero. Nel “Fedone” tuttavia Platone porta anche una quarta «dimostrazione» dell’«immortalità dell’anima», in cui, respingendo la concezione pitagorica dell’«anima» come semplice armonia del «corpo», egli definisce l’«anima» come principio di vita ed esclude che essa, in quanto tale, possa accogliere in sé la morte (105 b – 106 d). 

Quest’ultimo argomento viene riesposto in forma più rigorosa nel “Fedro”, dove l’«anima» è definita «semovente», cioè realtà che, a differenza di ogni altra, si muove da sé, e pertanto, non potendo separarsi mai da se stessa, essa deve muoversi eternamente, il che significa che è immortale (245 c-e). Anche nelle “Leggi” Platone ritorna su questa concezione, definendo l’anima «movimento che muove se stesso» e attribuendole quindi la causa di ogni movimento nell’universo (VII, 894 e – 898 d). 

Connessa con la dottrina dell’«immortalità dell’anima» è la concezione platonica del destino delle anime dopo la morte del corpo: mentre tuttavia Platone presenta la prima come una dottrina propriamente filosofica, cioè dimostrabile razionalmente e fondata sulla “dottrina delle idee”, egli presenta invece la seconda come un «mito», cioè come una credenza di cui non si può dimostrare razionalmente la verità, perché essa eccede i limiti della nostra capacità conoscitiva, anche se ci sono forti motivi di ordine «morale» che inducono ad aderirvi. 

Un accenno al destino delle anime è contenuto nel “Gorgia”, dove Platone afferma che le anime di coloro che sono vissuti secondo giustizia vanno, dopo la morte, nelle «isole dei beati», dove vivono felici, mentre quelle di coloro che sono vissuti nell’ingiustizia vanno in un carcere di pena e di espiazione chiamato “Tartaro”. Ciò accade dopo che le anime sono state sottoposte ad un «giudizio», al quale devono presentarsi senza preavviso, cioè ignorando il momento della morte, e nude, cioè senza quell’apparato di vesti, di parenti e di amici che avevano sulla terra e che ne nascondeva i meriti o le colpe: da ciò la necessità di prepararsi bene alla morte, vivendo in modo virtuoso (523 a – 527 a).     

    

venerdì 11 novembre 2016

PLATONE E LA CONCEZIONE DELL’UOMO


La concezione dell’uomo si trova esposta con singolare chiarezza nel “Gorgia”, uno dei massimi capolavori di Platone, culminante nella famosa affermazione secondo cui «fare ingiustizia è peggio che patirla». Qui infatti Platone si richiama esplicitamente agli antichi pitagorici, dicendo: «come ho già sentito dire anche dai filosofi, noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba (séma) è il corpo (sóma), e quella parte dell’anima nella quale hanno sede le passioni, per sua natura si lascia trascinare, e in su e in giù si lascia sospingere» (493 a). 

A parte il rigido dualismo di tale concezione, ed il conseguente pessimismo, che egli attenuerà in seguito, non c’è dubbio che per Platone l’uomo è composto di due parti ben distinte, il «corpo» e l’«anima», ciascuna delle quali ha un suo stato di benessere e di malessere, la "salute" e la "malattia" per il «corpo», la "virtù" e il "vizio" per l’«anima», e ciascuna delle quali richiede un’arte capace di curarla, la ginnastica o la medicina per il «corpo» (di cui è degenerazione la culinaria), e la sapienza o la politica per l’«anima» (di cui è degenerazione la retorica) (ivi 463 e sgg. stessa opera). 

Di queste due parti, quella più propriamente umana, in quanto comanda sull’altra, è l’«anima», tanto che Platone in un altro dialogo arriva a dire che l’uomo è la sua «anima» (Alcibiade, I, 130 c); di conseguenza il male peggiore che può accadere all’uomo è il male dell’«anima», cioè il vizio: perciò «fare ingiustizia è peggio che patirla» (Gorgia, 477 a). 

La stessa dottrina ritorna nel “Fedone”, dove il filosofo rappresenta l’addio di Socrate ai discepoli e giustifica la serenità con cui il maestro affronta la morte. Se l’uomo, infatti, è composto di «corpo» e di «anima», ed il «corpo» è come una tomba, o un carcere, o comunque un ostacolo per l’«anima», la morte, intesa come separazione dell’«anima» dal «corpo», sarà per l’«anima» una “purificazione”, come sostenevano i poeti orfici, cioè una vera e propria "liberazione", ed il filosofo, cioè l’uomo sapiente, deve prepararsi alla morte con serenità, quasi con gioia, come ci si prepara appunto a una liberazione (Fedone, 64 a – 68 b). 

Da ciò deriva, naturalmente, una morale di tipo ascetico, che predica la rinuncia ai piaceri del «corpo», cioè la repressione dei desideri, e la totale dedizione alle virtù dell’«anima», in particolare alla sapienza, che è essenzialmente preparazione alla morte e anticipazione di quella contemplazione libera e pura della verità che l’«anima» raggiungerà dopo la separazione dal «corpo». 

Bisogna riconoscere tuttavia che Platone, nei suoi dialoghi più tardi, sembra attenuare questa concezione così rigorosamente dualistica, sostituendo al rapporto di opposizione tra «anima» e «corpo» un rapporto di collaborazione, che, pur mantenendo una netta distinzione fra i due, fa del «corpo» più uno strumento dell’«anima» che un ostacolo ad essa. Corrispondentemente a questa nuova concezione si sviluppa anche una nuova morale, meno rigorosa ed ascetica della precedente, quale si riscontra ad esempio nel “Filebo”, in cui Platone afferma che la vita migliore non sta né soltanto nel piacere, né soltanto nell’esercizio dell’intelligenza, cioè nella sapienza, bensì in una mescolanza di piacere e di intelligenza (21 d). 

Al semplice dualismo di «corpo» e «anima», che deriva sostanzialmente dalla tradizione orfico pitagorica, Platone aggiunge, tuttavia, come suo contributo originale, una dottrina più complessa circa la composizione dell’«anima» in tre parti, in cui si può forse ravvisare l’aspetto più specifico della sua concezione dell’uomo. Questa si trova sviluppata anzitutto nella “Repubblica”, nel quadro della visione più vasta dello Stato, anzi della società politica, su cui avremo occasione di ritornare più avanti. 

Per conoscere come è fatto l’uomo individuale, afferma Platone, e più precisamente per definire che cos’è la «giustizia», ossia la perfezione dell’uomo stesso, la virtù per antonomasia, è necessario vedere come è fatto lo Stato, il quale, come insieme di molti uomini, è in un certo senso un uomo più in grande, e quindi è necessario vedere in che cosa consiste la «giustizia» per lo Stato. Interviene qui la celebre distinzione fra «tre» classi, o meglio categorie, di cittadini, adibite ciascuna ad una funzione diversa ed ugualmente necessaria allo Stato: i "produttori" per provvedere alle risorse materiali, i "guardiani" per provvedere alla difesa ed i "filosofi" per provvedere al governo. In modo analogo, secondo Platone, è fatta anche l’«anima» dell’uomo: una parte di essa è l’«anima razionale», capace di conoscere e quindi di governare, una seconda parte è l’«anima irascibile o impulsiva», capace di provare slanci ed impulsi, ed una terza parte è l’«anima concupiscente o appetitiva», capace di provare desideri, come quelli mangiare, di bere e di provare i piaceri sessuali. 

La prova di questa divisione è costituita, secondo Platone, dall’esistenza di quelli che oggi chiameremmo i conflitti psichici, cioè i contrasti, all’interno dell’uomo, fra tendenze opposte, in cui la “ragione” spinge in una direzione, il “desiderio” in una direzione opposta, e l’«impulso» segue ora l’una ora l’altra. 

Come nello Stato la «giustizia» si ha quando ciascuna categoria di cittadini adempie al proprio compito, cioè i "filosofi" governano, i "guardiani" difendono, e i "produttori" lavorano, così nell’individuo la «giustizia» si ha quando l’«anima razionale» comanda (esercitando in tal modo la sapienza), l’«anima impulsiva» l’aiuta (esercitando in tal modo la fortezza) e l’«anima appetitiva» vi si sottomette (esercitando in tal modo la temperanza): la «giustizia», che viene intesa come “armonia” tra le diverse parti dello Stato e dell’anima, si trova ad essere in tal modo la sintesi di tutte le altre virtù (di quelle che in seguito furono chiamate le virtù cardinali o naturali) (Repubblica, IV, 434 c, - 443 b). 

La stessa dottrina è ripresa nel “Fedro”, dove Platone paragona l’«anima» ad una pariglia di cavalli alati, guidata da un auriga: quest’ultimo rappresenta naturalmente la “ragione”, che guida l’intera «anima» verso l’alto, cioè verso il luogo «iperuranio» (sopraceleste), dove si possono contemplare le “idee”. Anche nelle “Leggi”, che sono l’ultima opera di Platone, l’«anima» precede il «corpo», nel senso che esiste prima di questo, lo guida e lo comanda. Ed anche in questo dialogo Platone scrive che l’«anima» è causa del bene e del male, nel senso che può allearsi all’intelletto e tendere verso il bene, oppure allearsi alla stoltezza e tendere verso il male: ritorna dunque, in questa distinzione tra intelletto, anima buona ed anima cattiva, la dottrina delle «tre» parti dell’«anima» ( X, 894 e 898 d), che così rappresenta una costante dell’intera filosofia platonica. 

Nota finale: 

Ma il significato completo della concezione platonica dell’«uomo» si coglie soltanto nell’ambito della sua concezione dello «Stato», perché per Platone, prima ancora che per Aristotele e come già per Socrate, l’uomo è essenzialmente un «animale politico».

sabato 5 novembre 2016

PLATONE E LA DOTTRINA DELLE IDEE (PREMESSA)


La “Dottrina delle Idee” costituisce indubbiamente il nucleo filosofico di tutto il pensiero di Platone, quello da cui si diramano tutte le altre sue dottrine, cioè la “visione dell’uomo”, dell’ “anima”, dello “Stato” e dell’ arte. La parola greca “idéa”, così come il suo equivalente “éidos”, è stata introdotta nel linguaggio filosofico dallo stesso Platone. Essa esisteva già nel linguaggio comune e stava a significare, in conformità con la sua etimologia (dal verbo “idéin” = vedere, da cui il latino “vidêre”), ciò che si vede, cioè l’aspetto visibile delle cose, la loro forma percepibile alla vista. 

Platone ne mutò lievemente il significato, sostituendo al riferimento al vedere corporeo il riferimento al vedere intellettuale, cioè all’intendere, al comprendere mediante il pensiero. “Idéa” venne così a significare l’aspetto, o forma, intelligibile delle cose, ossia quella realtà che è oggetto del pensiero. Tutto ciò è ben diverso, come si può notare, dal significato moderno del termine «idea», che è quello di nozione o rappresentazione mentale, esistente soltanto nel pensiero. 

L’origine della dottrina platonica delle idee va ricercata nell’insegnamento socratico, secondo il quale, per praticare le singole virtù (coraggio, giustizia, saggezza, ecc.), è necessario conoscere, a proposito di ciascuna di esse, il suo «che cos’è», cioè la sua definizione universale, riferibile a tutti i casi particolari. Questa è la caratteristica comune di ciascuna azione riconducibile a quella determinata virtù, la causa per cui essa è tale ed insieme il criterio per distinguerla da altre azioni che tali non sono. Platone estende questa concezione a tutte le cose e indica il «che cos’è» di ciascuna cosa con il termine, appunto, di “idéa”. L’idea è la causa per cui certe azioni hanno una determinata caratteristica ed il criterio unico e immutabile che consente di distinguere tali azioni dalle altre. 

In Platone tuttavia l’«idea» si carica di una serie di altri significati che nella concezione socratica del «che cos’è» non erano ancora presenti. Essa diventa l’essenza immutabile delle cose sensibili, considerate come continuamente mutevoli, e dunque la vera realtà, quella che è veramente perché è sempre ciò che è, l’unica che può venire conosciuta con «verità». Come tale, l’idea è la condizione della possibilità della scienza (epistéme), ossia della conoscenza vera. Solo, infatti, se c’è qualcosa che è sempre quello che è, è possibile conoscere che cosa esso è; se invece tutto mutasse continuamente, non si potrebbe mai conoscere che cosa una cosa è, perché un momento dopo essere stata conosciuta come una certa cosa, la cosa muterebbe e non sarebbe più quale l’abbiamo conosciuta. 

Alla Base di questa concezione (la ricerca del criterio assoluto e la possibilità della scienza), c’è la persuasione, derivata probabilmente dall’interpretazione platonica di Eraclito, che le cose sensibili siano tutte mutevoli, come pure la persuasione, derivata invece da Socrate e dall’esistenza, al tempo di Platone, di scienze già pienamente sviluppate (come le matematiche e la medicina), che la scienza, ossia la conoscenza vera, sia possibile. 

La funzione «epistemologica», cioè di giustificazione della scienza intesa come conoscenza di oggetti universali e immutabili, attribuita da Platone alla “Dottrina delle idee”, è confermata da un noto esempio di idea addotto nel “Fedone”, l’idea dell’uguale. Noi sappiamo, afferma Platone, che cos’è l’uguale in sé, ossia che cosa significa esattamente il termine «uguale»: evidentemente egli pensa all’uso che del concetto di uguale fanno le scienze matematiche, cioè l’aritmetica e la geometria. Tuttavia, prosegue Platone, nessuna delle cose che vediamo nel mondo sensibile è perfettamente uguale ad un'altra, perciò la conoscenza dell’uguale perfetto, che noi possediamo, non può esserci derivata dall’esperienza delle realtà sensibili. Dunque, poiché la scienza è conoscenza di un oggetto, e questo oggetto, come dimostra l’esempio dell’uguale, non esiste nella realtà sensibile, bisogna ammettere che esso esista in una realtà diversa da quella sensibile, ossia nel cosiddetto «mondo delle idee», e che l’esperienza delle realtà sensibili sia solo l’occasione per ricordare un’idea appresa dall’anima prima di incarnarsi nel corpo, cioè prima di nascere (teoria della conoscenza come reminiscenza: Fedone, 73 a – 75 c). 

La stessa funzione «epistemologica» viene riconosciuta alla “Dottrina delle idee” nella “Repubblica”, dove Platone afferma che la conoscenza, per poter sussistere, deve essere conoscenza di qualcosa che è. Ora ciò che perfettamente è, è l’idea, la quale è oggetto di conoscenza perfetta, cioè di scienza (epistéme); ciò che invece è intermedio tra l’essere e il non-essere, è la realtà sensibile, in quanto diviene, ossia ora è ed ora non è, e questa è oggetto di opinione (dóxa). L’opinione, poi, è una forma intermedia fra la scienza (conoscenza di ciò che è) e l’ignoranza (non conoscenza o conoscenza di nulla) (Rep. , V, 476 d – 477 b). 

La “Dottrina delle idee” quindi serve fondamentalmente a salvaguardare la possibilità della scienza intesa come conoscenza dell’universale e dell’immutabile, ossia di ciò che è e non può non essere, di ciò che è necessario, perché non può stare diversamente da come è. In questa sua concezione della scienza come conoscenza dotata di assoluta necessità, la quale poi si identifica con la filosofia, Platone mostra di considerare la filosofia come la forma più alta di sapere, superiore alle stesse scienze matematiche, che a quel tempo realizzavano il massimo rigore scientifico possibile. Sempre nella “Repubblica”, infatti, egli distingue la filosofia dalla matematica, chiamando la prima «scienza» o «intellezione» (nóesis) e la seconda semplicemente «pensiero dianoetico» (diánoia), cioè discorsivo, per il fatto che la prima sale fino alla conoscenza del principio non ipotetico, cioè non soltanto presunto vero, ma realmente vero, mentre la seconda si limita ad assumere delle ipotesi come se fossero principi (ed invece non lo sono) e a dedurre le conseguenze che da queste necessariamente derivano (Rep., VI, 510 b – 511 a). 

Mentre la filosofia possiede una necessità assoluta, tale per cui non solo le cose stanno come essa dice, ma non possono stare diversamente, la matematica possiede invece una necessità solo ipotetica, che si riduce alla pura coerenza tra le conclusioni e le premesse, per cui le conclusioni sono vere solo se sono vere le premesse. Gli stessi oggetti della matematica, ossia i numeri e le figure geometriche, non sono che immagini, afferma Platone, degli oggetti della filosofia, cioè delle idee: tanto gli uni quanto gli altri, tuttavia, appartengono al mondo intelligibile, cioè ad una sfera di realtà superiore al mondo sensibile. Quest’ultimo è l’oggetto dell’opinione, la quale comprende anch’essa «due» gradi: il più alto, ossia la conoscenza degli oggetti sensibili veri e propri, è chiamato da Platone «credenza», mentre il più basso, ossia la conoscenza delle immagini degli oggetti sensibili, è chiamato «immaginazione». Quattro sono dunque i gradi della conoscenza, che Platone paragona ai quattro segmenti consecutivi in cui può essere divisa una linea: “immaginazione”, “credenza”, “pensiero dianoetico” e “intellezione” (Rep., VI, 511 a – e). 

La “Dottrina delle idee” non ha solo una funzione «epistemologica»: essa, per Platone, ha anche un significato «etico», cioè serve a fornire all’uomo un criterio di comportamento in vista della realizzazione della sua perfezione, cioè della «virtù». Affinché sia possibile la «virtù», e quindi sia possibile un’«etica», è necessario, secondo Platone, che esistano dei valori oggettivi, come il “bene”, il “bello”, il “giusto”, i quali si mantengano sempre uguali anche in momenti diversi, cioè siano immutabili, e vengano riconosciuti come tali da tutti gli uomini, in altri termini siano universali. Tale carattere di «valore», proprio delle idee, è reso manifesto soprattutto dalla “Dottrina dell’idea del bene”, esposta da Platone nella “Repubblica”. 

In questo dialogo, chiarendo quale deve essere l’educazione da impartire ai reggitori della città, cioè ai filosofi, Platone afferma che essa deve consistere nell’insegnare loro una disciplina sublime, o massima, la quale ha come fondamento la conoscenza dell’«idea del bene», cioè del «bene in sé», di quel «bene» che rende buone tutte le azioni buone. Solo, infatti, chi conosce il «bene» sarà in grado di governare gli altri, indicando loro che cosa è «bene» e che cosa è «male» e consentendo loro in tal modo di diventare virtuosi. 

Questa idea, però, è talmente elevata che di essa non possiamo mai avere una conoscenza adeguata, perciò Platone la illustra ricorrendo ad un paragone con quello che egli chiama «la prole del bene», vale a dire la sua immagine. Il sole. Come il sole, afferma Platone, illumina con la sua luce le cose sensibili, cioè è causa della loro visibilità, e col suo calore le fa nascere e crescere, ossia è causa della loro vita, così l’«idea del bene» illumina tutte le altre idee, ovvero è causa della loro intelligibilità, ed insieme le fa essere ciò che sono, cioè è causa della loro esistenza e della loro essenza. Perciò si può dire che l’idea del bene «non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza», ossia non è un’idea come le altre, ma è il principio di tutte le idee ed è quindi al di sopra di esse (Rep., VI, 504 c – 508 b). 

L’idea del bene, come si vede, è per Platone la più alta realtà esistente, il principio di ogni realtà, ossia l’assoluto, l’incondizionato: non si può chiamarla Dio solo perché essa non è un soggetto intelligente ed amante, ma è soltanto oggetto di intelligenza e di amore. Il fatto che un tale principio sia chiamato da Platone col nome di «bene» dimostra come la concezione platonica della realtà sia fondamentalmente di carattere «etico». Pertanto, i quattro gradi più alti della conoscenza (“immaginazione”, “credenza”, “pensiero dianoetico” e “intellezione”), sono il percorso progressivo di avvicinamento alla «virtù», cioè un progresso di tipo «morale». 

Ciò è confermato dalla dottrina contenuta in un altro celebre dialogo contemporaneo alla “Repubblica”, il “Convito”, dove Platone illustra un’altra idea di importanza fondamentale per la sua etica, l’«idea del bello». Quivi infatti egli definisce l’amore, tema del dialogo, essenzialmente come tendenza al possesso perpetuo del «bene» e del «bello» (questi due concetti per Platone ed in genere per la mentalità greca sono equivalenti). 

Per chiarire poi tale definizione, egli prende ad esempio l’amore sessuale, che è amore per un bel corpo e più precisamente desiderio di procreare nel «bello» mediante l’unione dei corpi, al fine di rendersi immortali (almeno nella specie); mostra poi che l’amore per un bel corpo può portare ad amare il «bello» che è comune a tutti i corpi, e che questo può portare successivamente ad amare una bella anima, perché la bellezza dell’anima è più preziosa della bellezza del corpo. Ma anche l’amore per una bella anima è desiderio di procreare nel «bello» cioè desiderio di produrre, mediante l’unione tra le anime, belle opere, come le opere di poesia e di arte in genere, o le buone leggi, che rendono buone le azioni degli uomini. L’amore diventa in tal modo educazione dell’anima a produrre azioni virtuose, ed anche a produrre le scienze, ed in particolare la scienza suprema, cioè la scienza del «bello in sé». Il famoso «amor platonico» è dunque desiderio di generare «virtù» nella contemplazione dell’«idea del bello» e di procurarsi in tal modo la vera «immortalità». 

La Dottrina platonica delle idee non si esaurisce nell’affermazione della necessità di queste entità al fine di assicurare la possibilità della scienza in generale e dell’etica: essa si estende sino all’illustrazione dei rapporti reciproci che intercorrono fra le idee, cioè di quella che potremmo chiamare la “Struttura interna del mondo intelligibile”, e dell’attività razionale cui compete l’indagine di tale struttura, vale a dire la «dialettica», che per Platone è la stessa filosofia. Il termine «dialettica», come quasi tutti i termini in uso nella filosofia occidentale, è di origine greca e significa originariamente l’arte del discutere fra due o più interlocutori (dialéghesthai), ciascuno dei quali cerca di far prevalere la propria tesi confutando, cioè riducendo a contraddizione, quella dell’avversario. 

Sia Platone che Aristotele considerano inventore di quest’arte Zenone di Elea, il discepolo di Parmenide, che con i suoi famosi argomenti cercò di difendere la dottrina del maestro, riducendo a contraddizione le obiezioni degli avversari. Ad essa diedero tuttavia contributi importanti anche i sofisti e Socrate, il quale ultimo fece della confutazione, cioè appunto della riduzione a contraddizione, il procedimento stesso della sua filosofia. Platone riprende la sua concezione socratica della «dialettica», applicandola al mondo delle idee e facendo in tal modo di quest’arte la conoscenza dei rapporti fra le idee, cioè la forma più alta della scienza, la Filosofia. 

Nota Finale: 

Con la Dottrina delle Idee, Platone darà una svolta determinante ai grandi temi della filosofia presocratica, superando definitivamente la negazione parmenidea della molteplicità dell’«essere». Libero dall’ipoteca dell’eleate, il pensiero filosofico dopo Platone potrà così affrontare i problemi della vita dell’uomo nel mondo del molteplice e diveniente. Dice Platone: «Filosofo è il perfetto amante e pone “Eros” come condizione di ogni esperienza. Amore esprime il senso stesso della filosofia perché tendenza al possesso perpetuo del “Bene” e del “Bello”, che ha in sé, nel suo appagamento, il suo fine assoluto: la “Felicità”». 

La grandiosa costruzione rappresentata dalla "Dottrina delle Idee" non era tuttavia esente da difficoltà e Platone stesso, rendendosene conto, le espose in alcuni suoi dialoghi, principalmente nel “Parmenide” e nel “Sofista”, che segnano la «svolta» del suo pensiero, cioè il passaggio dalla prima alla seconda fase della "Dottrina delle Idee". L’autocritica contenuta nel “Parmenide” ha fatto dire che con essa Platone stabilì «il record dell’onestà intellettuale». In questo dialogo, infatti, il filosofo anzitutto riespone la dottrina sviluppata nei dialoghi precedenti, portandola alle sue estreme, ma coerenti, conseguenze. 

Alla radice di queste difficoltà, che sono le difficoltà inerenti alla separazione tra idee e cose e che probabilmente indussero gli amici di Platone (Eudosso, Speusippo, Senocrate, Aristotele) a modificare o ad abbandonare la separazione, c’è un «errore» di logica commesso da Platone, come ormai riconoscono quasi tutti gli studiosi, il quale deriva proprio dal significato duplice, epistemologico ed insieme etico, e quindi ambiguo, attribuito da Platone alla sua dottrina. 

Le idee, infatti, non solo esprimono dei predicati universali, cioè comuni a molte cose, ma si predicano anche di se stesse, cioè si auto predicano, diventando in tal modo anche dei soggetti. Per esempio l’idea della «grandezza» è essa stessa «grande», l’idea della «bellezza» è essa stessa «bella», l’idea dell’«uomo» è essa stessa un «uomo». Ciò fa si che l’idea diventi una specie di cosa accanto alle cose, cioè sia separata dalle cose allo stesso modo in cui le cose sono separate l’una dall’altra, con tutte le difficoltà che ciò produce.