martedì 30 settembre 2014

L'EMBRIONE: IPOTESI E VERITA' (CAP.3)


Secondo la Filosofia a cui (anche) la Chiesa si ispira, un uomo può nascere solo se, prima di esso, esiste qualcosa che ha la capacità o («Potenza») di diventare uomo. Si badi: qualcosa di unitario. Tale principio vale anche per altre forme di  generazione. E così: una statua può essere prodotta solo se, prima di esserlo, esiste, poniamo, un blocco di marmo capace di diventare una statua (per opera dello scultore). Se il blocco fosse in frantumi, nessuno di essi, e nemmeno il loro insieme, avrebbe la capacità di diventare quella statua. Per produrre quella statua bisogna che le parti del blocco non siano frantumi, ma unite; ossia, bisogna che il blocco sia qualcosa di unitario . 
Altro esempio: un uomo può entrare nel Regno dei Cieli (può esistere cioè quel processo che è la generazione di un beato) solo se, prima che egli vi entri, esiste qualcosa di unitario che ha la capacità di entrarvi e che è appunto quell'uomo durante la sua vita terrena. (Non sono la testa, le gambe, o parti della psiche, in quanto tra loro separate, ad avere quella capacità: Non sono cioè i pezzi dell'uomo ad averla). Se non esistessero la capacità del blocco di marmo di diventare statua e la capacità dell'uomo di andare in Cielo, l'esistenza di statue di marmo e di beati sarebbe impossibile. 
E pertanto, ritornando al nostro caso, se, prima della nascita dell'essere umano, non esistesse qualcosa di unitario, avente la capacità di diventare un uomo (se cioè non esistesse un uomo  «in Potenza»), la nascita di uomini sarebbe impossibile. Orbene, per la Chiesa, l' Embrione è, sin dal momento della fecondazione, uomo, persona; e il principio spirituale (l'anima razionale) per il quale l' uomo non è animale è creato da Dio. 
Per la Chiesa, cioè, Dio crea tale principio sin dal momento della fecondazione, cioè dell'unione del gamete maschile e femminile. E siamo al punto. La domanda è: se un uomo può nascere solo se prima di esso esiste un qualcosa di unitario che ha la capacità di diventare un essere umano, e se sin dal momento della fecondazione l' Embrione è essere umano  «in Atto», che cosa è e dove è mai il qualcosa di unitario che ha la capacità di diventare uomo e senza di cui nessun uomo potrebbe nascere? Dov' è l' uomo  «in Potenza»? La Chiesa non può rispondere a questa domanda. Infatti, prima dell' unione dei gameti (con la quale, per la Chiesa, esisterebbe già sin dall' inizio un uomo  «in Atto») , i gameti sono separati e nessuno dei due, in quanto separato, può avere la capacità di diventare uomo. (Come nessuno dei frammenti del blocco di marmo ha la capacità di diventare una statua; né sono i pezzi di un uomo ad avere la capacità di andare in Cielo). E come l'insieme dei frammenti del blocco di marmo non ha la capacità di diventare statua, nemmeno l'insieme dei due gameti separati ha la capacità di diventare uomo. E, per la Chiesa, prima della loro unione non può nemmeno intervenire Dio a infondere in essi l'anima razionale. 
Che cosa segue da tutto questo? Un assurdo: sostenendo che fin dal momento della fecondazione esiste un uomo «in Atto» , la Chiesa viene a negare (contro le proprie intenzioni) l'esistenza della capacità, da parte di qualcosa di unitario, di diventare un uomo; e da questa negazione segue ciò che anche per la Chiesa è un assurdo, ossia che non potrebbe nascere alcun uomo. Ma gli uomini nascono. Dunque ciò che provoca questo assurdo è impossibile, ossia è impossibile che sin dall' inizio l'Embrione sia un Uomo. La Chiesa ricorda che  i due gameti hanno la capacità di generare un individuo ratto allo stato embrionale, che poi si sviluppa e diviene adulto proprio perché esiste una capacità, una potenzialità che si attua nel momento dell'unione. Ma questa capacità di diventare adulto è quella che si costituisce quando l'Embrione ha già incominciato ad esistere: non è quella di cui stiamo parlando, che è la capacità di qualcosa di diventare Embrione umano (o animale), la capacità, cioè, che cessa di esistere quando l'Embrione incomincia ad esistere. 
Per uscire dall'assurdo ora indicato è dunque necessario negare che sin dall'inizio l'Embrione sia un essere umano «in Atto»; e dunque è necessario che Dio infonda l'anima razionale dopo che l'Embrione ha incominciato a esistere, ossia è necessario affermare che ciò che ha la capacità di diventare uomo sia costituito, perlomeno, dallo stato iniziale dell'Embrione, per quanto breve esso sia. Per la scienza non sappiamo quando l'Embrione incominci a essere persona. Ma, sulla base dell' argomentazione ora indicata, la Chiesa, per evitare l'assurdo, deve dire che all'inizio della sua esistenza l'Embrione non è persona. È poco, ma è decisivo. (È poco, perché rimane aperto il problema, per la Chiesa, di accertare l' estensione di quell'inizio, cioè se Dio crei l' anima razionale subito dopo l'unione dei gameti, oppure dopo qualche tempo). 
Non è meglio che la Chiesa, anche qui, ritorni a San Tommaso, per il quale il Feto è animale prima di essere uomo? ( Il riferimento a Tommaso è stato poi ripreso da altri). Uscirebbe dal vicolo cieco in cui si è cacciata.

I biologi non hanno difficoltà ad affermare che un organismo materiale si evolva e divenga mente, coscienza, ragione, cioè essere umano, come, perlopiù, essi non hanno difficoltà ad affermare l'evoluzione delle specie, quella evoluzione, cioè, per la quale l'uomo proviene dalla scimmia. Ma la Chiesa può starsene tranquilla? La Chiesa esclude perentoriamente che la vita umana e il suo inizio possano essere adeguatamente intesi dalla Scienza e dalla Biologia. Tale argomentazione parte proprio dalla supposizione che l'Embrione sia, sin dall'inizio, vita umana (e lo sia nel «Senso» voluto dalla Chiesa, non dalla sola biologia); e così partendo, ossia pur concedendo tutto ciò che sta a cuore alla Chiesa, tale argomentazione mostra a quale assurdo quella supposizione conduca. 
Per la Chiesa la spiegazione adeguata si può raggiungere solo introducendo l'azione di Dio, che crea lui, direttamente, ciò che vi è di propriamente umano nell'uomo. Caso traduce la parola greca «autòmaton» che, alla lettera, significa (ciò) che tende, si muove e si produce da sé. È la parola usata da Democrito, ma anche da Aristotele. Se si guarda ciò che sta attorno all' «autòmaton», non si trova nulla che spieghi perché esso tenda, si muova, si produca. Cioè si trova il «Nulla». Muovendosi e producendosi da sé stesso, si muove e si produce a partire dal proprio «Non Essere». 
Ma quando la Filosofia parla dell'«Essere e del Non Essere» li pensa primariamente in relazione al «divenire» del mondo. Si tratta di comprendere che il Caso non è una forma particolare e più o meno diffusa di «divenire», ma che, dato il modo in cui l' Occidente intende il «divenire», il «divenire», in quanto tale, è Caso: dunque è Caso anche quando, come appunto avviene nella tradizione occidentale, si intende che il «divenire» sia guidato dalla Mente o dalla Provvidenza divina e creato da essa; ed è Caso anche quando si presenta con quelle altissime forme di regolarità che sono state via via messe in luce dall'uomo comune e dalla scienza. 
Per Aristotele l'Embrione è «in Potenza» un Uomo, ossia è il programma seguito dalla vita umana che si sviluppa. L'Embrione diventa uomo, nel «Senso» che realizza il proprio programma (il proprio Dna, dice oggi la genetica). Ma, prima dell'esistenza (cioè dell'Essere) dell'uomo, tale realizzazione non esisteva, cioè non era, era «Nulla». E la biologia si esprime appunto, continuamente, con affermazioni come questa (di Jacob): che l' evoluzione ha prodotto fenomeni che prima sulla terra non esistevano. 
Affermare che l'Embrione è «in Potenza» uomo significa dunque affermare che, nell'Embrione, l'uomo realizzato non è, è «Nulla»: si pensa, certamente, che esista già il programma di un certo individuo umano, ma non la realizzazione di tale individuo. Il programma, che è già esistente, è cioè unito al «Non Essere» (al Nulla) della propria realizzazione. In relazione al programma, tale realizzazione non è casuale: il programma ne è la spiegazione e l'anticipazione. Ma in quanto la realizzazione è nulla quando ancora non esiste l'uomo realizzato, ne viene che questa sua nullità non può essere una spiegazione o un'anticipazione del futuro: è un nulla di spiegazione e di anticipazione. Ciò significa che, proprio perché si produce a partire dal proprio nulla, la realizzazione del programma è un prodursi da sé, un «autòmaton»: è Caso. Non può quindi essere che aleatorio, casuale, il modo stesso in cui il programma guida l' evoluzione degli individui e delle specie. 
Se ancora si vuole parlare di guida, il rapporto tra programma e sua realizzazione (o tra genotipo e fenotipo) può avere soltanto un carattere probabilistico (come l'onda di probabilità di Heisenberg). Ma lo stesso accade nel rapporto tra il Programma divino e le sue creature, che, per quanto anticipate e spiegate dal Programma, secondo la Teologia cristiana sono da esso create ex nihilo sui et subiecti: Dal loro esser (state) «Nulla» e dalla nullità della materia (subiecti) di cui son fatte. 
Nonostante abbiano alle spalle addirittura il Programma divino, le cose del mondo, in quanto create ex nihilo, sono Caso, esistono casualmente. Il Caso prevale sulla Provvidenza, che nella storia dell'Occidente intende, invece, essere spiegazione e anticipazione assoluta delle creature, mantenendo tuttavia, contraddittoriamente, la loro nullità originaria, ossia il loro essere originariamente un «Nulla» che non può in alcun modo spiegare e anticipare la loro realizzazione. La stessa creazione divina del mondo è casuale, nonostante l' intenzione più ferma di vedere in essa la negazione più radicale della casualità. 
Il creazionismo e le forme più intransigenti di evoluzionismo si trovano dunque sullo stesso piano: sono grandi variazioni dello stesso Tema, il Tema del «divenire», inteso come evoluzione dalla «Potenza» all' «Atto» che la realizza, e pertanto come evoluzione dal «Non Essere» all' «Essere». Se si è capaci di scendere nel sottosuolo della filosofia (ossia dell'anima) del nostro tempo, si scorge il legame essenziale che unisce l'Evoluzione (il divenire) e il Caso. Il «divenire» è Caso; e nessuna necessità può caratterizzare i programmi informatici, biologici, metafisici, teologici perché se essa esistesse spiegherebbe e anticiperebbe tutto il futuro e, quindi, lo dissolverebbe perché dissolverebbe il «Nulla» di ciò che ancora non è: dissolverebbe il «divenire» e l' evolversi di cui tale necessità vorrebbe essere la spiegazione e l'anticipazione: dissolverebbe quel «divenire» che, per gli stessi amici dei programmi mondani o divini, è l'evidenza suprema (vedi pubbl. Febbr.-Marzo 2014 Tecnica e Senso greco della cosa-Il Divenire evidenza suprema). 
Quel sottosuolo scorge, pertanto, che l'evoluzione non può nemmeno avere uno scopo necessario. Proprio perché il «Nulla» originario delle cose non spiega e non anticipa il loro futuro, e la loro realizzazione è libertà assoluta, l'evoluzione è cieca, non può avere alcuna direzione se non quella che di fatto, casualmente, si produce e che di fatto è osservabile. Qualora avesse uno scopo inevitabile, quest' ultimo sarebbe daccapo il programma che dissolve il «Nulla» del futuro e il «divenire» del mondo. Se la direzione dei fenomeni biologici è un semplice fatto constatabile (e non una necessità: il «divenire» del mondo non ha «Senso»), rimangono tuttavia gli scopi dell'uomo (il «Senso» che egli dà alle cose): rimane la sua lotta per la sopravvivenza, che ripropone e prolunga, nella dimensione cosciente, la cosiddetta selezione naturale, secondo un tipo di evoluzione in cui va di fatto prevalendo, sugli altri scopi della civiltà occidentale e planetaria, la volontà dell'apparato scientifico-tecnologico di incrementare all'infinito la capacità di realizzare scopi. 
Va dunque prevalendo la selezione artificiale che si propone di guidare - secondo le leggi statistico-probabilistiche della Scienza , la stessa selezione naturale. Per quanto paradossale possa apparire, la teoria dell'evoluzione, e in generale del «divenire», è il farsi massimamente coerente da parte della teoria della creazione divina del mondo; è la variazione più coerente al Tema del «divenire». Ma è questo Tema a non venire mai e in alcun modo discusso nel suo significato più profondo. Esso porta ormai sulle proprie spalle l'intera storia della Terra. 

giovedì 25 settembre 2014

L'EMBRIONE: IPOTESI E VERITA' (CAP.2)


Molti sostengono che l'Embrione è un essere umano. Ma, al di là delle intenzioni, la loro logica , se vuol esser coerente ai propri princìpi, spinge ad affermare che l'Embrione non è un essere umano. Lo si può scorgere in base a un argomento decisivo, che non è mai stato preso in considerazione. Si crede comunemente che uomini e natura siano capaci di realizzare infinite opere e cose. Il bambino è capace di diventare adulto; l' alba è capace di diventare giorno. Alcuni secoli prima di Cristo il pensiero filosofico ha dato una interpretazione tale, del senso della capacità, che è rimasta alla base di ciò che l'uomo ha poi compiuto in ogni campo: Politico, Religioso, Economico, Artistico, Giuridico, Scientifico, Culturale. 
Con Aristotele è prevalso il principio che la capacità esiste anche prima di essere esplicata o messa in pratica. Un corpo è capace di cambiar luogo anche prima che lo cambi o che glielo si faccia cambiare; un bambino è capace di diventare adulto anche prima che lo divenga effettivamente. Aristotele ha chiamato «Potenza» la capacità così intesa, e di una cosa capace di essere o di fare qualcosa ha usato dire che essa è «in Potenza» tale essere o fare. Provi la Scienza, o il Cristianesimo (e tutto il resto), a compiere un solo passo prescindendo dal concetto aristotelico di «Potenza». 
Che l'Embrione prodotto dal seme dell'uomo e dall'ovulo della donna sia Essere umano «in Potenza», ossia qualcosa che in condizioni normali ha la capacità di diventare un essere umano, è un principio accettato sia da coloro che sostengono, sia da coloro che negano che l'Embrione sia già un essere umano. 
I due opposti schieramenti si scontrano infatti in relazione a un ulteriore carattere della «Potenza». Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l'Embrione sia un «esser già uomo», ma, appunto, un esserlo già «in Potenza». Gli altri intendono che l'Embrione, sebbene sia «in Potenza» un essere umano, sia tuttavia un «non esser ancora uomo». In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì, è omicidio, e questo primo caso esprime la compiuta concezione aristotelica della «Potenza». Ma nel secondo caso ci si limita ad esprimere un dogma, o una tesi scientifica, che, appunto perché scientifica, non può essere più che un' «Ipotesi» sia pure altamente confermata. Ciò nonostante la Chiesa fa dipendere dalle «Ipotesi» della Scienza quella che dovrebbe essere la «Verità assoluta», cioè non ipotetica, del proprio insegnamento. 
In favore del carattere umano dell'Embrione suona invece il principio che il suo esser uomo «in Potenza» è il suo «esser già uomo», sebbene, appunto, «in Potenza». E se già un modo di esser uomo, la sua soppressione è un omicidio. Sennonché, quanti sostengono il carattere umano dell'Embrione, sostengono anche che il processo che conduce dall'Embrione all'uomo compiutamente esistente (uomo «in Atto», dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico, ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. 
Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che ciò che è «in Potenza» è «in Potenza» gli «opposti». Questo vuol dire che, se l'Embrione può diventare un uomo «in Atto», allora, proprio perché lo può (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare «non-uomo», cioè qualcosa che uomo non è. E siamo al tratto decisivo del discorso. L' Embrione, si dice, è «in Potenza» un «esser già uomo». Ma, si è visto, proprio perché è «in Potenza» «uomo», l' Embrione è «in Potenza» anche «non-uomo». Pertanto è «in Potenza» anche un «esser già non uomo». È già uomo e, anche, è già non uomo
Nell'Embrione questi due «opposti» sono uniti necessariamente. Proprio per questo, l'Embrione non è un «esser uomo». Infatti, anche per coloro che pensano alla luce dell'idea di «Potenza», l'uomo autentico è «uomo», e non è insieme «non-uomo». Se un colore è insieme un rosso e un non-rosso, tale colore non è il color rosso. Analogamente, se l' Embrione è, «in Potenza», quell'esser già uomo che è necessariamente unito all'esser già non-uomo, ne viene che l'Embrione non è già un uomo, non è cioè quell'esser autenticamente uomo che rifiuta di unirsi all'esser non-uomo. 
Questo autentico esser uomo non è pertanto contenuto nell'unità potenziale dell'esser uomo e del non esser uomo: così come lo scapolo: l' uomo che non è unito a una donna, non è contenuto nell'ammogliato, cioè nell'uomo che invece è unito a una donna. Non essendo, l'uomo, contenuto nell'Embrione, non si può quindi dire che sopprimendo l'Embrione si uccide l' uomo. Sia pure inconsapevolmente, ad affermare che l'Embrione non è un essere umano, e che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è omicidio, son dunque proprio coloro che dell' Embrione, alla luce dell' idea di «Potenza», intendono essere gli amici più fedeli.

Al di là delle intenzioni di chi accetta il concetto aristotelico di «Potenza», tale concetto costringe a negare che l'Embrione sia un essere umano, sia pure potenziale; Che tale costrizione sussiste perché il concetto stesso di «Potenza» è contraddittorio, assurdo. La tesi è tutt' altro che familiare (ovvio che di primo acchito non la si capisca e la si rifiuti) e ha vaste implicazioni, perché il pensiero filosofico greco è il terreno in cui cresce l'intera storia dell'Occidente (Cristianesimo incluso) e al centro del terreno appartiene appunto la riflessione di Aristotele sul «Senso» della «Potenza»
Una gigantesca incoerenza guida dunque la nostra civiltà, che tuttavia, per essere potente, non ha bisogno né della verità, né della coerenza. Tutto questo molti non l' hanno capito. L' equivoco maggiore si è prodotto tuttavia a proposito dell'espressione «Esser-già-uomo» «in Potenza». 
Per Aristotele, ciò che è uomo «in Potenza» è già un «uomo», ma, appunto, lo è «in Potenza». Viene replicato, richiamando l'insegnamento della Chiesa, che l'Embrione è Uomo «in Atto» sin dal momento della fecondazione dell'ovulo della donna. Tuttavia la Chiesa riconosce che l'Embrione non parla, non ragiona, non costruisce case, ecc. Ossia riconosce che l'Embrione è, «in Potenza», uomo Adulto. Ma che altro vuol dire l' espressione «Essere-già-uomo» «in Potenza» se non, appunto, che l'Embrione è «in Potenza» un adulto, cioè un essere che ha sviluppato le sue facoltà umane? 
Secondo Aristotele l'essere «in Potenza» «uomo» non significa non essere ancora un uomo (come invece accade, sul piano filogenetico nell'interpretazione evoluzionistica del concetto di «Uomo-in-Potenza», ma significa «esser già uomo» (che tuttavia che deve ancora sviluppare, cioè rendere attuali le proprie potenzialità) E ogni «Potenza», dice Aristotele, è insieme «Potenza» di ambedue i contrari. Ogni «Potenza»: non solo ciò che ha «in Potenza» proprietà accidentali opposte, ma anche ciò che, non esistendo ancora, può diventare come non diventare una sostanza. Ma è a questo punto che incomincia l'argomento decisivo. 
L' uomo che è «in Potenza» adulto è già un «uomo» ma è anche già un «non-uomo», perché, secondo Aristotele, invece di svilupparsi potrebbe morire (e non perché possa diventare un gatto o una locomotiva). Un essere «in Potenza», e cioè un che di contraddittorio, di impossibile, di assurdo. Lo è l' Embrione, ma lo è qualsiasi essere «in Potenza». Il concetto di «Potenza» è un grandioso costrutto teorico della follia. 
Il divenire del mondo (Vedi pubbl. Febbr.-Marzo 2014 Tecnica e Senso greco della cosa-Il Divenire evidenza suprema) deve essere reinterpretato al di fuori della categoria della «Potenza». Ma, intanto, gli amici della «Potenza» e dell'Embrione debbono riconoscere che, proprio perché è qualcosa di contraddittorio, l'Embrione non può essere né può diventare quell'esser uomo che per costoro è invece un ente incontraddittorio (questo discorso non va confuso, come invece lo è stato, con la banale ed errata critica al concetto di «Potenza», per la quale sarebbe contraddittorio essere «in Potenza» «uomo», e non esserlo «in atto»), e debbono riconoscere che la soppressione dell'Embrione non è omicidio. 
Si aggiunga che per Aristotele lo sperma deve esser deposto in altro, cioè nell'utero della donna, e che solo allora esso sarà l'uomo «in Potenza». Un ente unitario che sia uomo «in Potenza», e che non può essere sperma e ovulo separati, ci deve pur essere da qualche parte, perché altrimenti non potrebbe mai realizzarsi l'uomo «in Atto». 
Su San Tommaso la chiesa fonda buona parte del proprio pensiero filosofico-teologico. Ma egli ritiene che per Aristotele «esser uomo» «in Potenza» significhi essere «animale» «in Atto», e condivide pienamente questa tesi: Nel tempo il feto è animale prima di essere uomo (prius tempore est fetus animal quam homo) e pertanto il corpo umano... che precede temporalmente l'anima... non è umano «in Atto», ma solo «in Potenza» (Summa contra gentiles, II, capp. 86-89). Su questi punti la chiesa ha preso le distanze da Tommaso; ma si tratterebbe di vedere con quanta coerenza. 

venerdì 19 settembre 2014

L'EMBRIONE: IPOTESI E VERITA' (CAP.1)



Usare gli Embrioni umani per i trapianti? Per alcuni è lecito, per altri no. Per i primi, se l' «Embrione» non ha ancora mezzo mese di vita, il suo uso non è omicidio. Per i secondi l' «Embrione» ha natura umana sin dall'inizio e quindi la sua distruzione è un omicidio vero e proprio. Tuttavia, entrambi i contendenti hanno in comune un principio che può esser fatto risalire ad Aristotele (Vedi pubbl. Aprile 2014 - Dio Motore Immobile , causa incausata ) e per il quale l' «Embrione», se è lasciato vivere in un certo ambiente, innanzitutto il grembo materno (Vedi Pubbl. Marzo 2013 Il Nato di Donna), finisce col diventare un essere umano: è in «Potenza» un Uomo. Ma mantenendosi (più o meno consapevolmente) all'interno di questa prospettiva, sbagliano coloro per i quali l' «Embrione» sarebbe qualcosa di indifferenziato nei suoi primi giorni di vita, e sarebbe indifferenziato perché, messo in ambienti diversi, potrebbe diventare molte cose diverse dall'esser uomo. È come se dicessero: un uomo vivente è indifferenziato perché se invece di lasciarlo a casa sua lo mettiamo sul fuoco egli diventa cenere, o se, vivo come si ritrova, lo mettiamo sotto terra diventa polvere, o se lo infiliamo nella bocca di un cannone diventa proiettile. 
L'errore consiste nel credere, insieme, che se lo si lascia in pace a casa sua l' «Embrione» finisce col mostrare il suo esser uomo, e nel credere anche che distruggendo l' «Embrione» nei suoi primissimi giorni di vita non si compia omicidio. Chi ragiona così si dà torto da solo. Sino a che si rimane all'interno di quel principio aristotelico, per altro largamente condiviso, la distruzione dell' «Embrione» è indubitabilmente omicidio. Se non che il problema è tutt'altro che chiuso. Perché anche coloro che difendono la vita dell' «Embrione», e ritengono che la sua distruzione sia omicidio, sono a loro volta afflitti da una straordinaria incoerenza. Affermano infatti che in certi casi l'omicidio è lecito. Per quanto paradossale possa apparire è difficile sostenere che si tratti di un'invenzione arbitraria o di un sofisma. 
Ad esempio la dottrina cattolica afferma la liceità della guerra giusta. Ma sino a che non si inventeranno guerre in cui non muore nessuno, credere che la guerra giusta sia lecita significa credere che sia lecito far morire degli esseri umani, che presumibilmente sono innocenti come gli «Embrioni» e che come gli «Embrioni» non possono evitare di essere sacrificati per il vantaggio di altri. 
È vero che lo scopo della guerra giusta non è di uccidere i combattenti innocenti ma di difendersi dall'aggressore ingiusto; tuttavia anche l'uso degli «Embrioni» umani per rendere possibili i trapianti non ha come scopo l'uccisione degli «Embrioni» ma la sopravvivenza dei malati sui quali viene operato il trapianto. Secondo esempio, che complica ulteriormente il problema. Quanti rifiutano, in nome della condanna dell'omicidio, l' uso dell' «Embrione» nei trapianti, ammettono generalmente la liceità della circolazione automobilistica e delle attività in cui il lavoro è oggettivamente pericoloso. Ma, anche qui, affermare la liceità dell'attuale traffico automobilistico e dell'attuale modo di lavorare significa affermare la liceità di comportamenti sociali che uccidono persone presumibilmente innocenti. E anche in questo caso l'analogia sussiste, perché come lo scopo dei trapianti non è l' uccisione dell' «Embrione», ma la vita dei malati, così lo scopo della circolazione automobilistica e dei lavori pericolosi non sono gli eccidi e i funerali, ma la sopravvivenza del gruppo sociale che, appunto per sopravvivere, ritiene indispensabile l'esistenza della circolazione automobilistica e dei lavori oggettivamente pericolosi. 
Una società che tiene aperte le strade e le fabbriche e che pratica la guerra giusta non si serve forse della morte di qualche essere umano per farne vivere altri, così come nei trapianti ci si serve della morte di certi esseri umani allo stato embrionale per far vivere altri esseri umani più sviluppati? È stato infine osservato che una legislazione come quella italiana, in cui si ammette l' «Aborto», sarebbe del tutto incoerente se vietasse l' uso degli «Embrioni» nei trapianti, visto che anche la vita degli «Embrioni» oggi disponibili è destinata a finire da sola entro breve tempo. 
Si tratta però, questa volta, di una incoerenza che non riguarda la Chiesa cattolica. Sia perché, sulla base di quello che abbiamo chiamato principio aristotelico e che sta al fondo di entrambi gli schieramenti contrapposti, la distruzione di un «Embrione» umano è omicidio sino a un istante prima della sua morte naturale; e non essendo riuscita a far porre fuori legge l' «Aborto» tenta di riuscirvi almeno relativamente alla distruzione degli «Embrioni» umani. 
La Chiesa sa che quella che così si ottiene è una legislazione incoerente, ma preferisce percorrere la strada del minor male. Da parte sua una legislazione come quella italiana può tuttavia uscire da questa incoerenza rendendo legittima, oltre all' «Aborto», anche l'utilizzazione terapeutica degli «Embrioni» umani. Tutto questo, per mostrare come il problema sia molto meno semplice di quanto credano coloro che già lo ritengono complesso.

La scienza non può spiegare che cos' è l' Uomo. Nonostante le innovazioni della cosiddetta via italiana, i cattolici vogliono che la ricerca scientifica stabilisca in modo più approfondito che nel processo non si pervenga alla produzione e alla distruzione di «Embrioni». I laici si son mostrati più disposti a credere che la Scienza abbia già messo in chiaro, con quella via, che alla distruzione non si perviene. Che non si distrugga l' Uomo! Ammoniscono i cattolici. L' «Embrione» è già un essere umano ! E chi ha l' autorità di dire che cos' è l' uomo? Ma la scienza, naturalmente! Nemmeno i cattolici ne dubitano, figuriamoci i laici. Ma ci si è chiesti che cosa è oggi la Scienza? 
La Scienza ha rinunciato da tempo a mostrare la «Verità» del mondo , la «Verità» in senso forte. È un «Sapere ipotetico». Se però lo si usa, si ottengono risultati straordinari. Certo, è un Sapere Potente. Ma non crede più di essere vero per il fatto di essere Potente. Da un momento all'altro la sua «Potenza» potrebbe cessare. Laici e cattolici non riescono a scorgere che alla Scienza capita oggi quel che un tempo è capitato alla Bibbia. 
A un certo punto ci si è convinti che la Bibbia non dice come va in cielo, ma come si va in cielo. Oggi il cielo è diventato il Mondo e il Benessere mondano. Ma se la Scienza è «Potenza» e non sa che farsene della «Verità», non si dovrà affermare che anche la Scienza più sofisticata non dice più come va in cielo , cioè che cosa siano in verità il Mondo e l' Uomo, ma come si va in cielo, cioè come si fa a star meglio su questa terra? E invece ora per farsi dire che cos' è l' Uomo tutti corrono dalla Scienza , cioè da un Sapere che non ha «Verità» e formula soltanto «Ipotesi» provvisoriamente potenti. 
Quando la Scienza risponderà nel modo più esauriente, la sua risposta sarà soltanto un' «Ipotesi». E le anime pie se ne staranno lì tutte contente e soddisfatte, rassicurate dalla Scienza. Ma uno che fosse in pericolo e a cui la Scienza in persona dicesse: Ecco, la mia «ipotesi» è che tu, forse, ti salverai, se ne starebbe lì tutto contento? Sì, è nella tendenza del nostro tempo che anche l'anima religiosa si inchini alla Scienza. Ma se questa tendenza è inevitabile, se le nobili forme del passato sono in qualche modo destinate a perdere il decoro, si tratta pur sempre di una penosa genuflessione. 

giovedì 11 settembre 2014

L'INIZIO E LA FINE:IPOTESI SULLA VITA


Quando incomincia la vita umana? Quando finisce? Cosa significa «Vita umana», «Uomo»? «Esiste l' uomo?». l’ ultima domanda sembra paradossale, un perditempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un corpo sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell'amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l'intensità, la provenienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l'esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l' esistenza stessa dell'uomo, è una congettura. Tanto poco evidente, l'esistenza dell'uomo, quanto lo è l'esistenza di Dio. 
La Filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significato dell'evidenza. Che l'uomo, il suo esser prossimo esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha Fede nell' esistenza dell'uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha Fede) che certi esseri siano indiscutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli conferme di questa Fede; ma che certi eventi siano conferme è daccapo una Fede: come è soltanto una Fede che i baci siano una conferma dell'amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce. 
Per Gesù il prossimo è chi viene amato «Ama il tuo prossimo»; e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo anche l'amante (il buon Samaritano lo è rispetto all'uomo derubato), giacché se l'amore rende prossimo, cioè vicino, l'amato, anche l'amante si avvicina all'amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso prossimo dall'amore, ma l'amare è il contenuto della Legge, ossia di un Comandamento; e non si comanda quel che si ritiene evidente. Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. 
Se per Gesù il prossimo è l' amato-amante, l' amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, creduto, è una Fede da cui ci si può quindi allontanare. (Si può dire che il vacillare di questa Fede stia all'origine del massacro che incomincia con l' uomo, ma lo si può dire stando all' interno di questa Fede). 
Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il contenuto della «Legge Morale», di un «Imperativo», di un «Comando». È un dovere morale credere che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All'inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi prossimo (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l'ampio cerchio antico del prossimo e che chiamiamo uomini. Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice Fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il prossimo. 
L' esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si discute con convinzione per stabilire quando la vita altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell'incominciare e del finire, e a questo punto l'inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né Scienza, o Cristianesimo e altre forme religiose, né arte e Filosofia. 
Si discute con convinzione per stabilire il momento dell'inizio e della fine di qualcosa . Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt'altro che insensato discutere sull'inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze possa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «Verità Assoluta» e definitiva. 
Il sogno della Ragione evoca un «Sapere» che stia al di sopra di ogni Fede e di ogni volontà, un «Sapere» che affermi che le cose stanno in un certo modo non perché si vuole e si ha Fede che così stiano, ma perché esse stanno «incontrovertibilmente» così. Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della Scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha Fede) per il quale è probabile che l'uomo esista, è probabile che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert'altro finisca? Si dice che ognuno di noi sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l'esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). 
Sia la Ragione, sia la Fede (e innanzitutto la Fede cristiana e delle altre due religioni monoteistiche) «Credono» che l'annientamento delle cose e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costituisca quanto di più evidente vi sia, di più manifesto, di più possibile . 

venerdì 5 settembre 2014

FELICITA' E INFELICITA'


Quando crescono la Violenza e il Dolore, cresce anche il bisogno di sapere che ne è della «Felicità». «Se potessi avere tutto quel che desidero, ecco, allora sì che sarei felice!». Questo il pensiero che, di primo acchito, per lo più, ci passa per la testa quando ci chiediamo che cosa sia la «Felicità». Ma subito le cose si complicano. Sarei felice se sapessi che dopo, presto o tardi, non lo sarò più e questa conoscenza invadesse l'anima? Certo, meglio che venga tardi la fine della «Felicità». 
Sembra che i giovani siano più felici perché per loro quella fine verrà più tardi. Però diciamo anche che sono spensierati; e ogni spensieratezza è rosa dal tarlo dell' «Angoscia». Ma supponiamo pure che tutte le nostre inclinazioni e tutti i nostri desideri siano soddisfatti e che la soddisfazione non abbia limiti; supponiamo cioè che si avveri la definizione kantiana di «Felicità»: «La Felicità è la soddisfazione di tutte le nostre inclinazioni, tanto in estensione, che in intensità, che in propensione, cioè in durata»
Si fa subito innanzi una difficoltà ancora più aggrovigliata: quel che desidero e, ottenuto, mi rende felice, rende spesso infelici tanti altri. Spesso non è nemmeno necessario ottenerlo, per renderli infelici: basta desiderarlo. E si può essere un'isola felice attorniata da un mare di «Infelicità»? Forse si potrebbe ottenere che questo mare sprofondasse nell'oblio e nel nulla. Ma come potrebbe questa infinita e atroce spensieratezza essere immune dal tarlo altrettanto infinito del dubbio che quel mare non solo riappaia, ma risucchi l' isola felice? Guardata dall'esterno, l'isola appare abitata da un illuso. 
La Religione, non solo quella cristiana e islamica, promette nell'aldilà il totale appagamento dei desideri e delle inclinazioni a chi su questa terra avrà saputo desiderare ciò che non richiede l' «Infelicità» altrui. Chiama «Paradiso» questo appagamento, dove non ottenere ciò che rende gli altri infelici non ci renderà infelici ma aumenterà la nostra «Felicità». La «Felicità» non è di questo mondo, si dice, ma può essere dell'altro mondo, sia pure paradisiaco? Certo, anche oggi si muore, in vari modi e variamente giudicati, per guadagnare la «Felicità del Paradiso». Anche i terroristi dell' integralismo islamico muoiono per questo. Ma è ponderato il passo che si compie? Supponiamo di esserci, in «Paradiso»
La «Felicità» trabocca perché siamo al cospetto di Dio, che è appunto la realtà che soddisfa in eterno ogni nostra aspirazione. Il «Senso» più profondo della definizione kantiana della «Felicità» è finalmente avverato. Eppure, perché mai questa suprema esperienza di beatitudine eterna non può essere, ancora una volta, attraversata dal dubbio? 
Nella prima Lettera ai Corinti, l' Apostolo Paolo scrive che «Ora noi vediamo per mezzo di uno specchio, in Enigma, allora vedremo faccia a faccia». Allora, cioè in «Paradiso». Che «Faccia a Faccia» occorre, dunque, affinché quei pensieri non trasformino il «Paradiso» in un Inferno? Ora non vediamo «Faccia a Faccia» perché abitiamo l' «Enigma», cioè qualcosa che, stando alle nostre spalle, appare in uno specchio. Nemmeno per l' Apostolo la «Fede» dissolve l' «Enigma» e lo specchio; nemmeno per lui la «Fede» è uno stare «Faccia a Faccia». Ma, diciamo, anche il «Faccia a Faccia» è soltanto una «Fede», se quello che si mostra allo sguardo non è il volto della «Verità». La «Verità»! Abbiamo pronunciato la parola più importante. Perché l' Amore è «Perfidia» se non è, in verità, «Amore»; e la Santità è «Empietà» se non è, in verità, Santità; e dunque la «Felicità» è «Angoscia», se non è, in verità, «Felicità». 
La «Felicità» di cui parla la Fede, o la Scienza, o l' Arte, non è la vera «Felicità», perché né la Fede né la Scienza né l' Arte (Stendhal ogni mattina si metteva alla «caccia della Felicità», come Mozart) si sono mai interrogate sul «Senso» essenziale della «Verità» e sul significato di ciò che è il «Senso» essenziale. Da sempre, questa interrogazione è stata il compito della Filosofia , perché soltanto la Filosofia può prendersi cura della «Verità».