Oltre
alla filosofia prima, delle scienze teoretiche fanno parte anche la
fisica e la matematica. La fisica ha per oggetto le cose che hanno una
esistenza separata, ma sono nel divenire; la matematica, invece, ha per oggetto
realtà invariabili, le quali tuttavia non esistono per sé o separate, giacché
gli oggetti della matematica – ad esempio, numeri e figure – sono solo
astrazioni che derivano dalle realtà dalle quali esse sono astratte. La “phýsis”, oggetto della fisica, indica
quella realtà che ha in sé il principio del movimento e della quiete. A
differenza della natura dei presocratici, che significa la totalità
dell’essere, la natura aristotelica indica solamente una parte del reale,
quella soggetta al divenire.
La prima
questione che occorre risolvere concerne l’esistenza stessa della “phýsis”. Tale esistenza, infatti, è
stata decisamente negata da taluni filosofi precedenti, in particolare dagli
“eleati” (Parmenide, Senofane, Zenone, Melisso). Questi infatti negano ogni
tipo di divenire e insieme riducono tutte le cose all’uno. Tuttavia «esaminare
se l’essere sia uno e immobile non fa parte delle ricerche fisiche» (Phys., I, 2).
Ogni scienza particolare
presuppone come esistente il proprio oggetto e di questo studia leggi e
proprietà. L’eventuale giustificazione dell’oggetto stesso compete perciò ad
altra scienza. Questo dovrebbe valere anche per la “Fisica”. Invece Aristotele, sia pure con qualche titubanza,
affronta immediatamente tale questione pregiudiziale, conformemente al
significato profondo di questa scienza, che è non scienza particolare in senso
stretto, ma “ontologia dell’essere in
divenire”. «Da parte nostra noi poniamo che le cose della natura, o tutte o
in parte, sono mosse. Ciò è evidente per intuizione immediata» (Phys., I, 2). Egli non presuppone l’esistenza, quanto ne afferma l’originaria
evidenza e quindi la sua indimostrabilità. Né si può dimostrare ciò che è evidente
a partire da ciò che evidente non è. Esso può essere colto o meno, come avviene
in rapporto ai colori. Si può e si deve, invece, procedere alla confutazione
dei suoi negatori, attraverso un procedimento dialettico, così come è avvenuto
in relazione al principio di non contraddizione e alla sua evidenza logica nel IV libro della “Metafisica”.
Il medesimo procedimento, rivolto in particolare contro gli
“eleati”, viene da Aristotele sviluppato nella “Fisica”. Altre dottrine sono pervenute talvolta alla negazione del
divenire soltanto per l’incapacità a fornire di esso una spiegazione adeguata.
Innanzi tutto, in quanto esse concepiscono il divenire come passaggio dall’«essere»
o dal «non essere» in senso assoluto. Il divenire viene ammesso, ma insieme
viene posto come aspetto essenziale di questo il «non essere». Ma ciò è
contraddittorio. Tale è ancora il divenire, se esso è ricondotto semplicemente
ai contrari; sicché il divenire si realizza solo a patto di identificare i due
contrari: il bianco è nero, il grande è piccolo.
La soluzione del problema è trovata da Aristotele
nell’introduzione del «sostrato»:
infatti, è l’uomo che diviene da non-musico a musico, e non il non-musico che
diviene musico. «Sicché è chiaro (…) che tutto ciò che diviene è sempre
composto e vi è non solo qualcosa che diviene, ma anche l’oggetto che qualcosa
diviene; ed esso è duplice : da una parte, infatti, è il “sostrato”, dall’altra è l’ “opposto”:
e dico “opposto” l’a-musico, “sostrato”, l’uomo; “opposta” la mancanza di figura o di forma o di ordine, “sostrato”, invece, il bronzo o la pietra
o l’oro» (Phys., I, 7).
Il divenire si configura pertanto come passaggio del “sostrato” dalla «potenza» all’«atto»,
cioè dalla privazione di una certa forma alla forma stessa o «atto». E la
privazione, ad esempio, il non-musico, non indica il non essere assoluto, ma
semplicemente il non essere in «atto» di una certa forma, cioè la privazione di
quella forma, il suo essere in «potenza». «In senso assoluto nulla diviene dal
non ente»: quindi non è possibile «sopprimere l’affermazione che ogni cosa o è
o non è» (Phys., I, 8). Inoltre, il movimento
si produce in rapporto alle quattro cause – materiale, formale, efficiente e
finale – già esaminate nella “Metafisica”.
Non sono cause invece né la fortuna né il caso. In contrapposizione al
meccanicismo, la natura è intesa come causa finale. Perciò negare il finalismo
significa negare la stessa natura. La necessità, presente anch’essa in natura,
non è altro che l’elemento materiale presente nella finalità.
Il “movimento”
è definito da Aristotele né come solo «atto» né come sola «potenza», ma
come «atto di una potenza in quanto è potenza» (Phys., III, 1): così il movimento
qualitativo o alterazione è «atto» di ciò che è alterabile, in quanto è
alterabile; lo stesso deve dirsi in rapporto agli altri tipi di movimento. Esso
inoltre, come abbiamo visto, concerne l’essere solo di alcune categorie –
sostanza, qualità, quantità, luogo – non di tutte. Le precondizioni che rendono
possibile il movimento sono: il motore il mosso, lo spazio e il tempo, i
contrari. Inoltre, il movimento ha luogo solamente da “sostrato” a “sostrato”.
Trattando delle precondizioni del movimento, Aristotele affronta e risolve
innanzi tutto il problema dell’«infinito»,
giacché l’«infinito» sembra essere
necessariamente implicato sia nello spazio, come nel tempo, nella perennità del
movimento, nella tendenza a porre il limite, nel nostro pensiero (Phys., III, 4).
Per lo Stagirita, l’«infinito» non esiste come sostanza
separata, cioè come realtà a sé stante, né può concepirsi come corpo sensibile
infinito in «atto». L’«infinito»
esiste sempre e solo in «potenza» nelle realtà continue, come spazio, tempo e
movimento. Esso indica semplicemente la possibilità della considerazione senza
limite propria del pensiero nell’atto della divisione del continuo o nella
assunzione di un termine sempre maggiore del termine dato. Ma non può mai darsi
in «atto».
Nel IV libro della “Fisica”, Aristotele analizza il ”luogo” e il “tempo”. Per quanto concerne il “luogo”,
esso non è né forma né materia, come ritengono taluni, proprio perché forma e
materia sono nel “luogo”. Neppure è
intervallo, giacché questo muta, mentre il “luogo”
rimane immutato. Né è materia, giacché mentre questa è separabile, il “luogo” non è separabile dai corpi. Esso
è quindi primo immobile, limite del corpo contenente (IV, 4). Questa definizione
diverrà famosissima nel Medio Evo e verrà fissata nella celebre formula «terminus continentis immobilis primus».
In quanto limite, il “luogo” esiste
solo in relazione al corpo di cui è il limite. Proprio per questo, esso non si
identifica con il vuoto.
I capitoli
finali del IV libro della “Fisica”
affrontano il problema del “tempo”,
con una profondità e finezza di analisi presupposta dalle indagini di Plotino,
S. Agostino, S. Tommaso, Hegel. Secondo il consueto procedimento, Aristotele esamina
dapprima le aporie sull’esistenza del “tempo”.
Se infatti si intende il “passato”
come ciò che non è più e il “futuro”
come ciò che non è ancora, il “tempo”
dovrebbe esistere pur essendo costituito di parti che non sono. Anche
l’esistenza dell’istante appare problematica: infatti esso non può intendersi
né come identico, né come differente, né come continuo. Il “tempo” è stato spesso identificato con
la sfera del tutto, e quindi con lo stesso movimento. Ma il “tempo” non è il movimento, giacché
quest’ultimo è nel “tempo”.
Tuttavia il “tempo” non esiste senza il movimento;
esso è qualcosa del movimento. Tempo, spazio, e mobile si implicano
reciprocamente. In questo rapportarsi, essi esprimono il prima e il poi, che
dallo spazio si estende al mobile e quindi al “tempo”. Il “tempo” è
allora «numero del movimento secondo il prima e il poi» (IV, 2). Il
concetto di “numero” è da intendere
non come numero astratto, cioè come mezzo di numerare, ma come numero concreto
o numero numerato: ossia numero che sussiste sempre e solo come predicato di
cose.
Numerare è l’atto di
determinazione del movimento introdotto dalla “coscienza”, che, a partire dal prima e dal poi del movimento,
determina anche il “tempo”. Il “tempo” è determinato dai due istanti,
prima e poi. Né l’istante è parte del tempo, elemento discreto che costituisce
per sommatoria il “tempo”, bensì esso
è il limite del continuo. In quanto limite, l’istante è senza grandezza, solo
«sosta» virtuale introdotta nel continuo dalla “coscienza” che determina. Come si vede, la “coscienza” gioca un ruolo essenziale nella dottrina aristotelica
del “tempo”. Dal momento che il “tempo” è numero, e il numero è in
rapporto con l’atto del numerare proprio della “coscienza”, Aristotele si chiede se il “tempo” potrebbe esistere qualora non esistesse la “coscienza”.
Nel VI libro
viene affrontato il problema del “continuo”:
questo non è costituito da elementi indivisibili, come sembrava credere Zenone
nei suoi paradossi, bensì è quantità sempre divisibile. Il “continuo” è quantità nella quale un
limite congiunge sempre due punti dati, partecipando di entrambi. Il movimento
è inconciliabile con una considerazione della grandezza come costituita di
elementi indivisibili. Nel libro VIII,
infine, Aristotele si propone di giungere alla determinazione della “causa ultima del divenire”. Dio,
pertanto, costituisce il principio ultimo di giustificazione della “phýsis”.
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