domenica 20 novembre 2016

PLATONE E L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA


Prima di affrontare la concezione politica, è importante sottolineare la particolare convinzione che Platone aveva dell’«immortalità dell’anima» e, in connessione con questa, di quella che oggi chiameremmo la sua natura spirituale. Nel “Fedone” il personaggio di Socrate cerca di consolare i suoi discepoli per l’imminente distacco, fornendo loro le seguenti «dimostrazioni» dell’«immortalità dell’anima». 

Anzitutto l’esperienza ci mostra che ogni cosa nasce dal suo contrario, per esempio dal sonno si passa veglia e dalla veglia al sonno: analogamente, come dalla vita si passa alla morte, ci dovrà essere anche un passaggio dalla morte alla vita, cioè una rinascita, una reincarnazione, la quale suppone che l’anima non sia morta al momento del suo distacco dal corpo (70 c – 72 e). L’argomento, tuttavia, non è sufficiente, perché più avanti un discepolo obietterà che nulla ci assicura dell’eternità del ciclo delle reincarnazioni, il quale ad un certo punto potrebbe avere termine. 

La seconda «dimostrazione» è data dalla dottrina della reminiscenza: se il conoscere è un ricordare le “idee”, suscitato dall’incontro con le loro immagini sensibili, come prova il fatto che noi conosciamo l’uguale senza avere mai visto cose perfettamente uguali, l’«anima» deve essere preesistita alla sua incarnazione nel corpo. A questo argomento è tuttavia facile obiettare che esso dimostra la preesistenza dell’«anima» al «corpo», non la sua sopravvivenza a questo (72 e – 77 d). 

Platone fornisce allora una terza «dimostrazione», che è quella più valida: l’«anima», per il fatto che può conoscere le “idee”, ha una natura affine a queste, cioè è anch’essa semplice. Come tale, l’«anima» a differenza del «corpo», che è composto, non può decomporsi, cioè non può morire (78 b – 81 e). La stessa dimostrazione è ripresa da Platone nella “Repubblica”, dove si afferma che l’«anima» non perisce né a causa della malattia che le è propria, cioè l’ingiustizia, come è provato dall’esistenza di anime ingiuste, né a causa della malattia che colpisce il «corpo», perché essa è diversa da quest’ultimo: dunque essa è immortale (X, 608 c – 611 a). 

Da tutto ciò si desume che l’«anima» è per Platone una sostanza indipendente dal corpo, di natura semplice ed immateriale, ossia una realtà spirituale: la prova di ciò è la sua capacità di conoscere realtà semplici e immateriali come le “idee” ossia il carattere spirituale del pensiero. Nel “Fedone” tuttavia Platone porta anche una quarta «dimostrazione» dell’«immortalità dell’anima», in cui, respingendo la concezione pitagorica dell’«anima» come semplice armonia del «corpo», egli definisce l’«anima» come principio di vita ed esclude che essa, in quanto tale, possa accogliere in sé la morte (105 b – 106 d). 

Quest’ultimo argomento viene riesposto in forma più rigorosa nel “Fedro”, dove l’«anima» è definita «semovente», cioè realtà che, a differenza di ogni altra, si muove da sé, e pertanto, non potendo separarsi mai da se stessa, essa deve muoversi eternamente, il che significa che è immortale (245 c-e). Anche nelle “Leggi” Platone ritorna su questa concezione, definendo l’anima «movimento che muove se stesso» e attribuendole quindi la causa di ogni movimento nell’universo (VII, 894 e – 898 d). 

Connessa con la dottrina dell’«immortalità dell’anima» è la concezione platonica del destino delle anime dopo la morte del corpo: mentre tuttavia Platone presenta la prima come una dottrina propriamente filosofica, cioè dimostrabile razionalmente e fondata sulla “dottrina delle idee”, egli presenta invece la seconda come un «mito», cioè come una credenza di cui non si può dimostrare razionalmente la verità, perché essa eccede i limiti della nostra capacità conoscitiva, anche se ci sono forti motivi di ordine «morale» che inducono ad aderirvi. 

Un accenno al destino delle anime è contenuto nel “Gorgia”, dove Platone afferma che le anime di coloro che sono vissuti secondo giustizia vanno, dopo la morte, nelle «isole dei beati», dove vivono felici, mentre quelle di coloro che sono vissuti nell’ingiustizia vanno in un carcere di pena e di espiazione chiamato “Tartaro”. Ciò accade dopo che le anime sono state sottoposte ad un «giudizio», al quale devono presentarsi senza preavviso, cioè ignorando il momento della morte, e nude, cioè senza quell’apparato di vesti, di parenti e di amici che avevano sulla terra e che ne nascondeva i meriti o le colpe: da ciò la necessità di prepararsi bene alla morte, vivendo in modo virtuoso (523 a – 527 a).     

    

venerdì 11 novembre 2016

PLATONE E LA CONCEZIONE DELL’UOMO


La concezione dell’uomo si trova esposta con singolare chiarezza nel “Gorgia”, uno dei massimi capolavori di Platone, culminante nella famosa affermazione secondo cui «fare ingiustizia è peggio che patirla». Qui infatti Platone si richiama esplicitamente agli antichi pitagorici, dicendo: «come ho già sentito dire anche dai filosofi, noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba (séma) è il corpo (sóma), e quella parte dell’anima nella quale hanno sede le passioni, per sua natura si lascia trascinare, e in su e in giù si lascia sospingere» (493 a). 

A parte il rigido dualismo di tale concezione, ed il conseguente pessimismo, che egli attenuerà in seguito, non c’è dubbio che per Platone l’uomo è composto di due parti ben distinte, il «corpo» e l’«anima», ciascuna delle quali ha un suo stato di benessere e di malessere, la "salute" e la "malattia" per il «corpo», la "virtù" e il "vizio" per l’«anima», e ciascuna delle quali richiede un’arte capace di curarla, la ginnastica o la medicina per il «corpo» (di cui è degenerazione la culinaria), e la sapienza o la politica per l’«anima» (di cui è degenerazione la retorica) (ivi 463 e sgg. stessa opera). 

Di queste due parti, quella più propriamente umana, in quanto comanda sull’altra, è l’«anima», tanto che Platone in un altro dialogo arriva a dire che l’uomo è la sua «anima» (Alcibiade, I, 130 c); di conseguenza il male peggiore che può accadere all’uomo è il male dell’«anima», cioè il vizio: perciò «fare ingiustizia è peggio che patirla» (Gorgia, 477 a). 

La stessa dottrina ritorna nel “Fedone”, dove il filosofo rappresenta l’addio di Socrate ai discepoli e giustifica la serenità con cui il maestro affronta la morte. Se l’uomo, infatti, è composto di «corpo» e di «anima», ed il «corpo» è come una tomba, o un carcere, o comunque un ostacolo per l’«anima», la morte, intesa come separazione dell’«anima» dal «corpo», sarà per l’«anima» una “purificazione”, come sostenevano i poeti orfici, cioè una vera e propria "liberazione", ed il filosofo, cioè l’uomo sapiente, deve prepararsi alla morte con serenità, quasi con gioia, come ci si prepara appunto a una liberazione (Fedone, 64 a – 68 b). 

Da ciò deriva, naturalmente, una morale di tipo ascetico, che predica la rinuncia ai piaceri del «corpo», cioè la repressione dei desideri, e la totale dedizione alle virtù dell’«anima», in particolare alla sapienza, che è essenzialmente preparazione alla morte e anticipazione di quella contemplazione libera e pura della verità che l’«anima» raggiungerà dopo la separazione dal «corpo». 

Bisogna riconoscere tuttavia che Platone, nei suoi dialoghi più tardi, sembra attenuare questa concezione così rigorosamente dualistica, sostituendo al rapporto di opposizione tra «anima» e «corpo» un rapporto di collaborazione, che, pur mantenendo una netta distinzione fra i due, fa del «corpo» più uno strumento dell’«anima» che un ostacolo ad essa. Corrispondentemente a questa nuova concezione si sviluppa anche una nuova morale, meno rigorosa ed ascetica della precedente, quale si riscontra ad esempio nel “Filebo”, in cui Platone afferma che la vita migliore non sta né soltanto nel piacere, né soltanto nell’esercizio dell’intelligenza, cioè nella sapienza, bensì in una mescolanza di piacere e di intelligenza (21 d). 

Al semplice dualismo di «corpo» e «anima», che deriva sostanzialmente dalla tradizione orfico pitagorica, Platone aggiunge, tuttavia, come suo contributo originale, una dottrina più complessa circa la composizione dell’«anima» in tre parti, in cui si può forse ravvisare l’aspetto più specifico della sua concezione dell’uomo. Questa si trova sviluppata anzitutto nella “Repubblica”, nel quadro della visione più vasta dello Stato, anzi della società politica, su cui avremo occasione di ritornare più avanti. 

Per conoscere come è fatto l’uomo individuale, afferma Platone, e più precisamente per definire che cos’è la «giustizia», ossia la perfezione dell’uomo stesso, la virtù per antonomasia, è necessario vedere come è fatto lo Stato, il quale, come insieme di molti uomini, è in un certo senso un uomo più in grande, e quindi è necessario vedere in che cosa consiste la «giustizia» per lo Stato. Interviene qui la celebre distinzione fra «tre» classi, o meglio categorie, di cittadini, adibite ciascuna ad una funzione diversa ed ugualmente necessaria allo Stato: i "produttori" per provvedere alle risorse materiali, i "guardiani" per provvedere alla difesa ed i "filosofi" per provvedere al governo. In modo analogo, secondo Platone, è fatta anche l’«anima» dell’uomo: una parte di essa è l’«anima razionale», capace di conoscere e quindi di governare, una seconda parte è l’«anima irascibile o impulsiva», capace di provare slanci ed impulsi, ed una terza parte è l’«anima concupiscente o appetitiva», capace di provare desideri, come quelli mangiare, di bere e di provare i piaceri sessuali. 

La prova di questa divisione è costituita, secondo Platone, dall’esistenza di quelli che oggi chiameremmo i conflitti psichici, cioè i contrasti, all’interno dell’uomo, fra tendenze opposte, in cui la “ragione” spinge in una direzione, il “desiderio” in una direzione opposta, e l’«impulso» segue ora l’una ora l’altra. 

Come nello Stato la «giustizia» si ha quando ciascuna categoria di cittadini adempie al proprio compito, cioè i "filosofi" governano, i "guardiani" difendono, e i "produttori" lavorano, così nell’individuo la «giustizia» si ha quando l’«anima razionale» comanda (esercitando in tal modo la sapienza), l’«anima impulsiva» l’aiuta (esercitando in tal modo la fortezza) e l’«anima appetitiva» vi si sottomette (esercitando in tal modo la temperanza): la «giustizia», che viene intesa come “armonia” tra le diverse parti dello Stato e dell’anima, si trova ad essere in tal modo la sintesi di tutte le altre virtù (di quelle che in seguito furono chiamate le virtù cardinali o naturali) (Repubblica, IV, 434 c, - 443 b). 

La stessa dottrina è ripresa nel “Fedro”, dove Platone paragona l’«anima» ad una pariglia di cavalli alati, guidata da un auriga: quest’ultimo rappresenta naturalmente la “ragione”, che guida l’intera «anima» verso l’alto, cioè verso il luogo «iperuranio» (sopraceleste), dove si possono contemplare le “idee”. Anche nelle “Leggi”, che sono l’ultima opera di Platone, l’«anima» precede il «corpo», nel senso che esiste prima di questo, lo guida e lo comanda. Ed anche in questo dialogo Platone scrive che l’«anima» è causa del bene e del male, nel senso che può allearsi all’intelletto e tendere verso il bene, oppure allearsi alla stoltezza e tendere verso il male: ritorna dunque, in questa distinzione tra intelletto, anima buona ed anima cattiva, la dottrina delle «tre» parti dell’«anima» ( X, 894 e 898 d), che così rappresenta una costante dell’intera filosofia platonica. 

Nota finale: 

Ma il significato completo della concezione platonica dell’«uomo» si coglie soltanto nell’ambito della sua concezione dello «Stato», perché per Platone, prima ancora che per Aristotele e come già per Socrate, l’uomo è essenzialmente un «animale politico».

sabato 5 novembre 2016

PLATONE E LA DOTTRINA DELLE IDEE (PREMESSA)


La “Dottrina delle Idee” costituisce indubbiamente il nucleo filosofico di tutto il pensiero di Platone, quello da cui si diramano tutte le altre sue dottrine, cioè la “visione dell’uomo”, dell’ “anima”, dello “Stato” e dell’ arte. La parola greca “idéa”, così come il suo equivalente “éidos”, è stata introdotta nel linguaggio filosofico dallo stesso Platone. Essa esisteva già nel linguaggio comune e stava a significare, in conformità con la sua etimologia (dal verbo “idéin” = vedere, da cui il latino “vidêre”), ciò che si vede, cioè l’aspetto visibile delle cose, la loro forma percepibile alla vista. 

Platone ne mutò lievemente il significato, sostituendo al riferimento al vedere corporeo il riferimento al vedere intellettuale, cioè all’intendere, al comprendere mediante il pensiero. “Idéa” venne così a significare l’aspetto, o forma, intelligibile delle cose, ossia quella realtà che è oggetto del pensiero. Tutto ciò è ben diverso, come si può notare, dal significato moderno del termine «idea», che è quello di nozione o rappresentazione mentale, esistente soltanto nel pensiero. 

L’origine della dottrina platonica delle idee va ricercata nell’insegnamento socratico, secondo il quale, per praticare le singole virtù (coraggio, giustizia, saggezza, ecc.), è necessario conoscere, a proposito di ciascuna di esse, il suo «che cos’è», cioè la sua definizione universale, riferibile a tutti i casi particolari. Questa è la caratteristica comune di ciascuna azione riconducibile a quella determinata virtù, la causa per cui essa è tale ed insieme il criterio per distinguerla da altre azioni che tali non sono. Platone estende questa concezione a tutte le cose e indica il «che cos’è» di ciascuna cosa con il termine, appunto, di “idéa”. L’idea è la causa per cui certe azioni hanno una determinata caratteristica ed il criterio unico e immutabile che consente di distinguere tali azioni dalle altre. 

In Platone tuttavia l’«idea» si carica di una serie di altri significati che nella concezione socratica del «che cos’è» non erano ancora presenti. Essa diventa l’essenza immutabile delle cose sensibili, considerate come continuamente mutevoli, e dunque la vera realtà, quella che è veramente perché è sempre ciò che è, l’unica che può venire conosciuta con «verità». Come tale, l’idea è la condizione della possibilità della scienza (epistéme), ossia della conoscenza vera. Solo, infatti, se c’è qualcosa che è sempre quello che è, è possibile conoscere che cosa esso è; se invece tutto mutasse continuamente, non si potrebbe mai conoscere che cosa una cosa è, perché un momento dopo essere stata conosciuta come una certa cosa, la cosa muterebbe e non sarebbe più quale l’abbiamo conosciuta. 

Alla Base di questa concezione (la ricerca del criterio assoluto e la possibilità della scienza), c’è la persuasione, derivata probabilmente dall’interpretazione platonica di Eraclito, che le cose sensibili siano tutte mutevoli, come pure la persuasione, derivata invece da Socrate e dall’esistenza, al tempo di Platone, di scienze già pienamente sviluppate (come le matematiche e la medicina), che la scienza, ossia la conoscenza vera, sia possibile. 

La funzione «epistemologica», cioè di giustificazione della scienza intesa come conoscenza di oggetti universali e immutabili, attribuita da Platone alla “Dottrina delle idee”, è confermata da un noto esempio di idea addotto nel “Fedone”, l’idea dell’uguale. Noi sappiamo, afferma Platone, che cos’è l’uguale in sé, ossia che cosa significa esattamente il termine «uguale»: evidentemente egli pensa all’uso che del concetto di uguale fanno le scienze matematiche, cioè l’aritmetica e la geometria. Tuttavia, prosegue Platone, nessuna delle cose che vediamo nel mondo sensibile è perfettamente uguale ad un'altra, perciò la conoscenza dell’uguale perfetto, che noi possediamo, non può esserci derivata dall’esperienza delle realtà sensibili. Dunque, poiché la scienza è conoscenza di un oggetto, e questo oggetto, come dimostra l’esempio dell’uguale, non esiste nella realtà sensibile, bisogna ammettere che esso esista in una realtà diversa da quella sensibile, ossia nel cosiddetto «mondo delle idee», e che l’esperienza delle realtà sensibili sia solo l’occasione per ricordare un’idea appresa dall’anima prima di incarnarsi nel corpo, cioè prima di nascere (teoria della conoscenza come reminiscenza: Fedone, 73 a – 75 c). 

La stessa funzione «epistemologica» viene riconosciuta alla “Dottrina delle idee” nella “Repubblica”, dove Platone afferma che la conoscenza, per poter sussistere, deve essere conoscenza di qualcosa che è. Ora ciò che perfettamente è, è l’idea, la quale è oggetto di conoscenza perfetta, cioè di scienza (epistéme); ciò che invece è intermedio tra l’essere e il non-essere, è la realtà sensibile, in quanto diviene, ossia ora è ed ora non è, e questa è oggetto di opinione (dóxa). L’opinione, poi, è una forma intermedia fra la scienza (conoscenza di ciò che è) e l’ignoranza (non conoscenza o conoscenza di nulla) (Rep. , V, 476 d – 477 b). 

La “Dottrina delle idee” quindi serve fondamentalmente a salvaguardare la possibilità della scienza intesa come conoscenza dell’universale e dell’immutabile, ossia di ciò che è e non può non essere, di ciò che è necessario, perché non può stare diversamente da come è. In questa sua concezione della scienza come conoscenza dotata di assoluta necessità, la quale poi si identifica con la filosofia, Platone mostra di considerare la filosofia come la forma più alta di sapere, superiore alle stesse scienze matematiche, che a quel tempo realizzavano il massimo rigore scientifico possibile. Sempre nella “Repubblica”, infatti, egli distingue la filosofia dalla matematica, chiamando la prima «scienza» o «intellezione» (nóesis) e la seconda semplicemente «pensiero dianoetico» (diánoia), cioè discorsivo, per il fatto che la prima sale fino alla conoscenza del principio non ipotetico, cioè non soltanto presunto vero, ma realmente vero, mentre la seconda si limita ad assumere delle ipotesi come se fossero principi (ed invece non lo sono) e a dedurre le conseguenze che da queste necessariamente derivano (Rep., VI, 510 b – 511 a). 

Mentre la filosofia possiede una necessità assoluta, tale per cui non solo le cose stanno come essa dice, ma non possono stare diversamente, la matematica possiede invece una necessità solo ipotetica, che si riduce alla pura coerenza tra le conclusioni e le premesse, per cui le conclusioni sono vere solo se sono vere le premesse. Gli stessi oggetti della matematica, ossia i numeri e le figure geometriche, non sono che immagini, afferma Platone, degli oggetti della filosofia, cioè delle idee: tanto gli uni quanto gli altri, tuttavia, appartengono al mondo intelligibile, cioè ad una sfera di realtà superiore al mondo sensibile. Quest’ultimo è l’oggetto dell’opinione, la quale comprende anch’essa «due» gradi: il più alto, ossia la conoscenza degli oggetti sensibili veri e propri, è chiamato da Platone «credenza», mentre il più basso, ossia la conoscenza delle immagini degli oggetti sensibili, è chiamato «immaginazione». Quattro sono dunque i gradi della conoscenza, che Platone paragona ai quattro segmenti consecutivi in cui può essere divisa una linea: “immaginazione”, “credenza”, “pensiero dianoetico” e “intellezione” (Rep., VI, 511 a – e). 

La “Dottrina delle idee” non ha solo una funzione «epistemologica»: essa, per Platone, ha anche un significato «etico», cioè serve a fornire all’uomo un criterio di comportamento in vista della realizzazione della sua perfezione, cioè della «virtù». Affinché sia possibile la «virtù», e quindi sia possibile un’«etica», è necessario, secondo Platone, che esistano dei valori oggettivi, come il “bene”, il “bello”, il “giusto”, i quali si mantengano sempre uguali anche in momenti diversi, cioè siano immutabili, e vengano riconosciuti come tali da tutti gli uomini, in altri termini siano universali. Tale carattere di «valore», proprio delle idee, è reso manifesto soprattutto dalla “Dottrina dell’idea del bene”, esposta da Platone nella “Repubblica”. 

In questo dialogo, chiarendo quale deve essere l’educazione da impartire ai reggitori della città, cioè ai filosofi, Platone afferma che essa deve consistere nell’insegnare loro una disciplina sublime, o massima, la quale ha come fondamento la conoscenza dell’«idea del bene», cioè del «bene in sé», di quel «bene» che rende buone tutte le azioni buone. Solo, infatti, chi conosce il «bene» sarà in grado di governare gli altri, indicando loro che cosa è «bene» e che cosa è «male» e consentendo loro in tal modo di diventare virtuosi. 

Questa idea, però, è talmente elevata che di essa non possiamo mai avere una conoscenza adeguata, perciò Platone la illustra ricorrendo ad un paragone con quello che egli chiama «la prole del bene», vale a dire la sua immagine. Il sole. Come il sole, afferma Platone, illumina con la sua luce le cose sensibili, cioè è causa della loro visibilità, e col suo calore le fa nascere e crescere, ossia è causa della loro vita, così l’«idea del bene» illumina tutte le altre idee, ovvero è causa della loro intelligibilità, ed insieme le fa essere ciò che sono, cioè è causa della loro esistenza e della loro essenza. Perciò si può dire che l’idea del bene «non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza», ossia non è un’idea come le altre, ma è il principio di tutte le idee ed è quindi al di sopra di esse (Rep., VI, 504 c – 508 b). 

L’idea del bene, come si vede, è per Platone la più alta realtà esistente, il principio di ogni realtà, ossia l’assoluto, l’incondizionato: non si può chiamarla Dio solo perché essa non è un soggetto intelligente ed amante, ma è soltanto oggetto di intelligenza e di amore. Il fatto che un tale principio sia chiamato da Platone col nome di «bene» dimostra come la concezione platonica della realtà sia fondamentalmente di carattere «etico». Pertanto, i quattro gradi più alti della conoscenza (“immaginazione”, “credenza”, “pensiero dianoetico” e “intellezione”), sono il percorso progressivo di avvicinamento alla «virtù», cioè un progresso di tipo «morale». 

Ciò è confermato dalla dottrina contenuta in un altro celebre dialogo contemporaneo alla “Repubblica”, il “Convito”, dove Platone illustra un’altra idea di importanza fondamentale per la sua etica, l’«idea del bello». Quivi infatti egli definisce l’amore, tema del dialogo, essenzialmente come tendenza al possesso perpetuo del «bene» e del «bello» (questi due concetti per Platone ed in genere per la mentalità greca sono equivalenti). 

Per chiarire poi tale definizione, egli prende ad esempio l’amore sessuale, che è amore per un bel corpo e più precisamente desiderio di procreare nel «bello» mediante l’unione dei corpi, al fine di rendersi immortali (almeno nella specie); mostra poi che l’amore per un bel corpo può portare ad amare il «bello» che è comune a tutti i corpi, e che questo può portare successivamente ad amare una bella anima, perché la bellezza dell’anima è più preziosa della bellezza del corpo. Ma anche l’amore per una bella anima è desiderio di procreare nel «bello» cioè desiderio di produrre, mediante l’unione tra le anime, belle opere, come le opere di poesia e di arte in genere, o le buone leggi, che rendono buone le azioni degli uomini. L’amore diventa in tal modo educazione dell’anima a produrre azioni virtuose, ed anche a produrre le scienze, ed in particolare la scienza suprema, cioè la scienza del «bello in sé». Il famoso «amor platonico» è dunque desiderio di generare «virtù» nella contemplazione dell’«idea del bello» e di procurarsi in tal modo la vera «immortalità». 

La Dottrina platonica delle idee non si esaurisce nell’affermazione della necessità di queste entità al fine di assicurare la possibilità della scienza in generale e dell’etica: essa si estende sino all’illustrazione dei rapporti reciproci che intercorrono fra le idee, cioè di quella che potremmo chiamare la “Struttura interna del mondo intelligibile”, e dell’attività razionale cui compete l’indagine di tale struttura, vale a dire la «dialettica», che per Platone è la stessa filosofia. Il termine «dialettica», come quasi tutti i termini in uso nella filosofia occidentale, è di origine greca e significa originariamente l’arte del discutere fra due o più interlocutori (dialéghesthai), ciascuno dei quali cerca di far prevalere la propria tesi confutando, cioè riducendo a contraddizione, quella dell’avversario. 

Sia Platone che Aristotele considerano inventore di quest’arte Zenone di Elea, il discepolo di Parmenide, che con i suoi famosi argomenti cercò di difendere la dottrina del maestro, riducendo a contraddizione le obiezioni degli avversari. Ad essa diedero tuttavia contributi importanti anche i sofisti e Socrate, il quale ultimo fece della confutazione, cioè appunto della riduzione a contraddizione, il procedimento stesso della sua filosofia. Platone riprende la sua concezione socratica della «dialettica», applicandola al mondo delle idee e facendo in tal modo di quest’arte la conoscenza dei rapporti fra le idee, cioè la forma più alta della scienza, la Filosofia. 

Nota Finale: 

Con la Dottrina delle Idee, Platone darà una svolta determinante ai grandi temi della filosofia presocratica, superando definitivamente la negazione parmenidea della molteplicità dell’«essere». Libero dall’ipoteca dell’eleate, il pensiero filosofico dopo Platone potrà così affrontare i problemi della vita dell’uomo nel mondo del molteplice e diveniente. Dice Platone: «Filosofo è il perfetto amante e pone “Eros” come condizione di ogni esperienza. Amore esprime il senso stesso della filosofia perché tendenza al possesso perpetuo del “Bene” e del “Bello”, che ha in sé, nel suo appagamento, il suo fine assoluto: la “Felicità”». 

La grandiosa costruzione rappresentata dalla "Dottrina delle Idee" non era tuttavia esente da difficoltà e Platone stesso, rendendosene conto, le espose in alcuni suoi dialoghi, principalmente nel “Parmenide” e nel “Sofista”, che segnano la «svolta» del suo pensiero, cioè il passaggio dalla prima alla seconda fase della "Dottrina delle Idee". L’autocritica contenuta nel “Parmenide” ha fatto dire che con essa Platone stabilì «il record dell’onestà intellettuale». In questo dialogo, infatti, il filosofo anzitutto riespone la dottrina sviluppata nei dialoghi precedenti, portandola alle sue estreme, ma coerenti, conseguenze. 

Alla radice di queste difficoltà, che sono le difficoltà inerenti alla separazione tra idee e cose e che probabilmente indussero gli amici di Platone (Eudosso, Speusippo, Senocrate, Aristotele) a modificare o ad abbandonare la separazione, c’è un «errore» di logica commesso da Platone, come ormai riconoscono quasi tutti gli studiosi, il quale deriva proprio dal significato duplice, epistemologico ed insieme etico, e quindi ambiguo, attribuito da Platone alla sua dottrina. 

Le idee, infatti, non solo esprimono dei predicati universali, cioè comuni a molte cose, ma si predicano anche di se stesse, cioè si auto predicano, diventando in tal modo anche dei soggetti. Per esempio l’idea della «grandezza» è essa stessa «grande», l’idea della «bellezza» è essa stessa «bella», l’idea dell’«uomo» è essa stessa un «uomo». Ciò fa si che l’idea diventi una specie di cosa accanto alle cose, cioè sia separata dalle cose allo stesso modo in cui le cose sono separate l’una dall’altra, con tutte le difficoltà che ciò produce.