Promotore dell’umanesimo
cristiano, che viene a costituirsi con la sua stessa opera, Petrarca, distaccandosi
anche dottrinalmente dal Medioevo, tenterà la sintesi del Cristianesimo con
l’antichità classica. La Sapienza classica e cristiana – Cicerone e Agostino
sono i maestri del Petrarca – è quella
fondata sulla «meditazione interiore», indispensabile all’uomo per conseguire la «pace spirituale» in questa vita e la «beatitudine» nell’altra.
Nella riflessione morale e letteraria,
che, con sorprendente varietà di accenti, il Petrarca condusse nel corso della
sua vita, c’è un punto che merita di esser considerato essenziale e, per
l’intelligenza del suo pensiero, non meno che della sua personalità, decisivo.
Con particolare intensità,
sebbene, come diceva, fosse di ingegno piuttosto equilibrato che acuto, atto a
coltivare la Filosofia morale e le belle lettere in luogo delle ardue questioni
della Metafisica, il Petrarca avvertì infatti che fra il mondo intellettuale e
morale nel quale amava vivere e ricercare e scrivere, e quello della vera e
propria Filosofia s’era spalancato un abisso incolmabile e istituito un
insanabile conflitto; e che, qualunque cosa dovesse poi pensarsi dell’uno e
dell’altro termine, innanzi tutto convenisse accettarli quali erano, termini di
un dissidio che invano si sarebbe sperato di poter comporre in una sintesi.
A giudizio del Petrarca, e, quel
che forse conta di più, nella concretezza delle sue conoscenze, e, addirittura,
delle sue emozioni e passioni, mentre il polo filosofico appariva
caratterizzato da asprezze di linguaggio, ineleganza, e da una sorta di intima
disarmonia intellettuale, l’altro era invece in primo luogo costituito da una
sintesi: nel cui interno era bensì possibile sorprendere contrasti non a pieno
risolti, e varie disarmonie, ma che non di meno era una sintesi, un’armonia
fondamentale, radicata nel convincimento che, con Cristo, fosse assai più
facile mettere d’accordo Cicerone che non Aristotele.
Il polo, insomma, al quale il Petrarca aderiva, che proprio
mediante la sua opera era anzi stato costituito, era quello dell’«umanesimo
cristiano»: ossia, occorre specificare contro possibili equivoci, di un
umanesimo che, nel suo essere tale, e cioè fondato nell’esperienza viva della
parola antica, trova il suo accordo con il Cristianesimo, del quale quindi non costituisce
che una sorta di dimensione interna.
E’
un punto, questo, importante, e sul quale è perciò necessario
insistere: «umanesimo cristiano» non significa qui che ogni umanesimo è
cristiano perché il Cristianesimo stesso è umanesimo. Ma significa bensì che
con il Cristianesimo l’antichità classica può trovare un accordo, e che,
conservando la sua essenziale caratteristica, può entrare nel suo ambito.
Le opere nelle quali questo
orientamento è espresso sono naturalmente scritte in Latino, non in «volgare».
Diversamente da Dante, che del «volgare» si servì per comporre il Convivio, la Vita nova, le Rime, la stessa Commedia, e che il Latino riservò
al trattato politico e ad altre minori scritture, al «volgare» il Petrarca non
ricorse se non per comporre il Canzoniere, e all’altra lingua affidò il resto, non solo il poema che
intitolò Africa, ma anche le sue
raccolte di lettere e gli scritti ai quali è riservata l’esposizione del suo
pensiero.
Il posto preminente
è tenuto, fra questi, dal Secretum, un’opera di discreta estensione, che, nella forma di un
dialogo avente a protagonisti, da un lato, Sant’Agostino e, da un altro,
l’autore stesso, svolge, sulla scorta di questo pensatore cristiano prediletto
fra tutti, un’analisi assai varia e approfondita della vita interiore, che il
Petrarca ripercorre con un senso delle sfumature, dei contrasti e anche delle
ambiguità, con una capacità di avvertirle e, nello stesso tempo, di porle in
evidenza col non risolverle, che di quest’opera fanno una specie di atto
inaugurale, se non, come è stato detto tante volte, della «modernità», almeno
di certi suoi essenziali aspetti. Assai meno di questa capacità conta, infatti,
nel Secretum, la trama logica
dell’argomentazione, o, se si preferisce, la tesi.
La qualità ultima della scrittura morale
del Petrarca sta infatti proprio nell’ampio spazio che si apre fra il rigorismo
a cui i discorsi agostiniani sono ispirati e le incertezze, vissute come
«colpa», che esso suscita, e sembra ingigantire, nell’animo del Petrarca nell’atto
stesso in cui le mette a nudo e le condanna: con la conseguenza che anche il
maestro finisce, quasi involontariamente, per far risaltare quella tendenza
all’autoanalisi perplessa, e incapace di risoluzione, che è tipica in effetti
dell’atteggiamento petrarchesco, che non va esente, sotto questo riguardo, da
un certo autocompiacimento. E non è vero, dunque, da questo punto di vista, o
non è vero nel senso consueto e più ovvio, quel che tante volte è stato detto
di questo atteggiamento del Petrarca che, nella sua oscillazione fra gli ideali
ascetici e severi della pura contemplazione religiosa e l’inclinazione a dar
ascolto alle contrastanti voci delle passioni terrestri, combatterebbe in se
stesso la battaglia dell’antico e del nuovo, della «trascendenza» e dell’«immanenza»,
comparendo, nell’incertezza del risultato, uomo tanto del Medioevo quanto della
nuova età.
- Trascendenza; Il termine indica in primo luogo il carattere essenziale dell’Assoluto, sia nel senso che esso non è soggetto alle condizioni di esistenza del finito, sia nel senso che esso oltrepassa i limiti della conoscenza umana.
- Immanenza; La situazione di una realtà in quanto intimamente legata ad un'altra, di cui generalmente costituisce le premesse e le garanzie di sviluppo e di affermazione. In Filosofia (contrapposto a Trascendenza), di ogni realtà in rapporto di coessenzialità con altre (di una medesima essenza, identico quanto all’essenza, specialmente come termine teologico).
Il consiglio
che si fa rivolgere dal filosofo cristiano è che nella solitudine studiosa egli
sappia ritrovare la massima morale atta ad illuminare e guidare la sua vita,
essendo per altro fuori questione che le voci che, in tale solitudine,
parleranno al suo spirito saranno quelle a lui care degli scrittori, non solo
cristiani, ma anche, e sopra tutto, classici.
Grande rappresentante dell’Umanesimo filologico, Petrarca
vede negli studia humanitatis uno strumento efficace per creare una nuova cultura e una
nuova concezione di vita. La sua biblioteca, ricchissima di codici preziosi,
può esser guardata come luogo ideale in cui la filologia moderna nasce,
specificandosi non solo come amore per la parola ricercata, ma soprattutto come
coscienza della sua concreta storicità.
E’
ben comprensibile che uno scrittore di questa qualità non potesse
nutrire, nei confronti della Filosofia, né la passione sperimentatrice che
traversa e anima l’opera di Dante, né l’ansia di placarla nell’assoluta
contemplazione del tutto, che altresì è tipica del poeta della «Commedia». E anche è
comprensibile che nella Filosofia il Petrarca avvertisse sopra tutto qualcosa
di ostile alla causa, quale egli la intendeva, dell’uomo, e che, anche in
questo mostrando la sua straordinaria capacità di anticipare in sé situazioni
che sarebbero state al centro di tempi ancora non nati, essa entrasse in
contrasto, innanzi tutto nella sua coscienza, con la disposizione a edificare
la vita morale in un quadro di valori letterariamente atteggiati, e non privi
altresì di un’intrinseca vena «edificante».
Ad Aristotele, e a quanti ne professavano le dottrine, il
Petrarca rimproverava essenzialmente di scrivere male; e di scrivere così, o
non bene come accadeva a Cicerone, non perché la natura li avesse privati di
questa capacità, ma perché di questa si erano essi privati quando avevano
deciso di preferire, all’etica, la logica, le aspre dispute concernenti la
fisica e la metafisica a quelle che hanno ad oggetto l’uomo e la sua salvezza
in Cristo.
Nessun commento:
Posta un commento