Come per Platone e
Aristotele, anche per Plotino l’«Uno» non ama il mondo, ma è amato dal mondo; sono
quindi assenti le condizioni per le quali l’«Uno» voglia salvare il mondo
direttamente o mediante un salvatore come nel cristianesimo. L’«Uno» dona ogni
bene all’altro da sé con la stessa necessità con cui la luce diffonde la sua
luminosità su tutte le cose. Sono invece il mondo e l’uomo nel mondo ad essere
attratti dall’«Uno» e a volgersi all’«Uno» spogliandosi della propria mondanità
e umanità. Non è quindi al cristianesimo, ma all’insegnamento delle “Upanisad”, in cui si esprime la sapienza
d’Oriente, che si rifà l’ascesi di Plotino come itinerario dell’anima per il
ricongiungimento con l’«Uno».
In questo
itinerario, che è tanto un’ascesi quanto un’ascesa, l’anima si
risveglia dal sogno che l’aveva portata nel mondo. In ciò è la sua resurrezione
che, precisa Plotino contro il cristianesimo, è «dal corpo e non col corpo»,
perché risorgere col corpo equivale a cadere da un sogno all’altro.
Le vie del ritorno sono
tracciate dalla «bellezza», dall’«amore» e dall’«estasi». La “bellezza” consente di passare
dall’immagine sensibile all’idea universale di cui l’immagine è rivelazione. Non
chiudendosi in se stessa, ma rinviando ad altro, l’immagine è quel mezzo (metaxú) che consente all’anima di
risalire o di ritornare all’«Uno» da cui è discesa. Il ritorno all’«Uno»,
infatti, è percorribile solo mediante un ritorno a se stessi. Le tappe del
ritorno a Dio sono dunque le tappe della progressiva interiorizzazione
dell’Uomo. Lo stesso dicasi dell’ “amore”
che è passione che deriva dall’atto della visione: “éros” da “órasis” (Enneadi, III, 5, 3).
Se l’ “amore” considera
la bella apparenza non come espressione di sé, ma come rinvio ad altro da sé,
allora è iniziazione dello spirito e via all’intelligibile. Se l’ “amore” è per sua natura irrequietezza e
perenne insoddisfazione, come voleva il mito platonico di “Eros” figlio di Povertà e di Acquisto, ciò vuol dire che anche
nelle sue forme inferiori è condizionato dall’oscura presenza dell’«Uno» che lo
incalza oltre ogni limite. Ma se la “bellezza”
e l’ “amore” avvicinano all’«Uno»,
solo l’ “estasi”, il distacco da sé (ék-stasis) concede quell’intimo contatto
(prosbolé) che è unione assoluta con
l’unità originaria.
Qui l’anima si
spoglia della sua autocoscienza individuale, come da un’amara eredità
di cui è bello essere liberati, e si “perde”
nell’«Uno». Separandosi (ék-stasis)
dal sensibile, dal razionale e dall’individualità personale, l’ “anima” ripercorre a ritroso i gradi
dell’emanazione, rigettando ogni forma di molteplicità (áfele pánta) per ritirarsi nell’«Uno». Siccome poi l’«Uno» non è
oggetto, l’ “anima” può
congiungervisi solo ritrovandolo in se stessa, o, come dice Plotino, nel suo
centro profondo (Kéntron tés psychés):
«Essere solo in se stessa e non nell’essere, vuol dire essere in Dio» (Enneadi, VI, 9, 11).
Plotino rappresenta la vetta speculativa più elevata di un
vasto movimento di pensiero che, ispirandosi a Platone – donde il nome di
“neoplatonismo” – tenta di comporre in modi più o meno originali la “ricerca filosofica” con la “tradizione religiosa”. E così, mentre
nella Grecia antica la “ricerca
filosofica” era nata come volontà di liberazione dalle tradizioni, dai
costumi e dalle opinioni stabilite, con la prevalenza dell’interesse religioso,
che si registra nell’età illuministica, la “tradizione”
riprende i suoi diritti affermandosi come garanzia di una verità che non è più
il prodotto di una ricerca, ma il frutto di una rivelazione originaria.
Nota finale
Il neoplatonismo, di cui Plotino fu il più significativo
rappresentante, rientra nel vasto movimento sincretistico dell’epoca (III-V sec. d.C.); utilizzando
il complesso delle idee platoniche, il nuovo sistema filosofico fuse con
originalità elementi delle varie correnti di pensiero, non rimanendo
insensibile alle istanze mistiche e gnostiche dell’Oriente.