Si è visto quali e quanti sono i
molteplici significati dell’«essere». Due di questi significati, cioè l’«essere come accidente» e l’«essere come vero», nel libro VI della “Metafisica” sono esclusi dall’indagine.
L’essere nel senso dell’accidente indica ciò che non accade né sempre né per lo
più, ma solo «talora», cioè casualmente. Così, se nello scavare un campo si
trova un tesoro, questo è un fatto del tutto accidentale. Quindi la causa
dell’accidente non è determinabile, in quanto del tutto fortuita. Pertanto la
filosofia prima, in quanto scienza, non può indagare la causa dell’accidente,
cioè la ragione e la necessità di tale accadere.
Del pari, dall’indagine è escluso lo studio del’essere nel
senso di vero e del non essere nel senso di falso. Questo perché vero e falso
«riguardano la connessione e la divisione di nozioni». È dunque il pensiero che
unisce, nell’affermazione, o divide, nella negazione, certe nozioni,
determinando così il vero o il falso. Ora «il vero e il falso non sono nelle
cose (quasi che il bene fosse il vero e il male fosse senz’altro il falso), ma
solo nel pensiero» (Met., VI, 4).Vero e falso
appartengono alla logica, non alla metafisica. Restano pertanto gli altri due significati
come propri dell’indagine metafisica: L’«essere
per sé o l’essere secondo le diverse categorie» e l’«essere come potenza e atto».
L’essere
per sé o l’essere nel significato delle categorie, a differenza
dell’essere nel senso dell’accidente, che esiste solo per altro, indica l’essere che essenzialmente è. Questa è
la “sostanza”. Le altre categorie,
infatti, sono derivazioni o attributi della “sostanza”. Esse sono così enumerate: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire e patire, dove e quando.
Ciascuno di questi predicati è essere in virtù della categoria della “sostanza”. Quest’ultima può esistere
indipendentemente dai suoi predicati, mentre questi non lo possono. Tutto ciò è
valido sul piano logico-ontologico. Fattualmente, però, la “sostanza” esiste sempre in rapporto a
dei predicati. Così non esiste il bianco (qualità) se non in riferimento alla
cosa che è bianca, o il camminare se non in rapporto a ciò che cammina. Il «ciò
che» indica la “sostanza”. «Pertanto
l’essere primo, ossia non un particolare essere, ma l’essere per eccellenza, è
la sostanza» (Met., VII, 1).
Essa è «prima» per la “nozione”, per la “conoscenza” e per
il “tempo”: per la “nozione” in quanto la nozione di ogni categoria implica
necessariamente quella di “sostanza”;
per la “conoscenza”, in quanto riteniamo di conoscere una cosa solo quando
rispondiamo alla domanda su che cos’è quella determinata cosa (cioè conosciamo
in senso proprio quando determiniamo la sua essenza e non un suo aspetto
particolare, ad esempio la qualità). Inoltre, la “sostanza” precede e fonda, anche sul piano temporale, ogni altra
determinazione. «E in verità ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre,
costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è
l’essere”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza”» (Met., VII, 1, 1028 b).
A tale domanda, l’opinione comune risponde che l’«essere» o la "sostanza" sono i corpi, gli animali, le piante o gli elementi fisici che li
compongono. Ma le sostanze sono «solamente» queste, oppure esistono anche
sostanze soprasensibili? Così, se i filosofi ionici hanno sostenuto che
sostanze sono quelle sensibili, Platone e i platonici ritengono sostanze in
senso primario le forme e gli enti matematici e solo secondariamente e in senso
limitato le realtà sensibili. Per rispondere a tale domanda, occorre
considerare in generale la “sostanza”
e i suoi significati. Parlando di “sostanza”
o “ousía, noi intendiamo riferirci o all’essenza, o all’universale, o al genere
o al sostrato.
Con “sostrato” indichiamo «ciò di cui vengono predicate tutte
le altre cose, mentre esso non viene predicato di alcun’altra». Queste
caratteristiche spettano sia alla “materia”
(ad esempio, il bronzo), sia alla “forma”
(la configurazione data dallo scultore al bronzo), sia al “sinolo” o composto che risulta dall’insieme di materia e forma (la
statua in quanto materia organizzata in una certa forma).
Quando parliamo di «materia»,
ci riferiamo ad una realtà indefinita e indeterminata, che non è configurabile
né come qualità né come quantità né come alcuna delle altre determinazioni. Quindi,
se è vero che essa non si predica di altro e tutto si predica di essa, tuttavia
essa non può sussistere senza la “forma”,
né è qualcosa di per sé unitario; inoltre essa è solo potenza. Per tutti questi
motivi, la “materia” è “sostanza” in senso debole.
L’altro termine con cui si
identifica la “sostanza” è la «forma». Con questo termine si intende il
«che cos’è» di una cosa o la sua essenza (tò
ti èn éinai), ciò per cui una certa realtà è quella e non altra: così la “forma” di un triangolo è data dal fatto
che essa possiede alcune proprietà peculiari; l’essenza dell’uomo è il suo
essere animale razionale. Esiste quindi un nesso fra ciò che si dà
concettualmente come costante e le cose che realmente esistono. Se analizziamo
il processo di costruzione di una casa, vediamo che: il costruttore possiede
nel pensiero la “forma” della casa,
sa che cos’è l’essere casa. In cero modo la casa ha origine da casa: da
qualcosa di immateriale (il suo concetto) che genera qualcosa che include la “materia”. Ciò che permane senza la “materia”, in modo costante, è appunto
l’essenza o l’esser quella cosa e non altro.
La “forma” è ciò
che «informa» una certa “materia”.
Come tale, essa è logicamente separabile da quest’ultima. Inoltre, talune
sostanze esistono senza la “materia”.
Infine, la “sostanza” nel senso della
“forma” è sempre qualcosa di
determinato (un tóde ti, dice
Aristotele) e insieme determina e dà unità alla “materia”. La “sostanza”
indica il “sinolo”, cioè il composto
di “materia” e “forma”. Si tratta della cosa «individua» (realtà determinata,
carattere che la distingue dalle altre) concretamente esistente, purché si
tenga presente che anche la “sostanza”
intesa come “forma” è «individua».
L’universale, infatti, a differenza di quanto riteneva Platone, non può avere
esistenza separata. Sotto quest’aspetto, l’«essenza e la cosa coincidono». (ibidem, - Nella stessa opera – VII, 6, 1032 a), come ad
esempio Socrate e l’essenza di Socrate.
In
merito alle caratteristiche delle sostanze sensibili singole non c’è né
definizione né dimostrazione, in quanto esse hanno “materia” e la natura di questa è di poter essere e non essere,
mentre la definizione concerne il necessario. Inoltre, le sostanze sensibili
sono tutte corruttibili, mentre la dimostrazione verte su oggetti necessari.
Dunque, delle cose sensibili non v’è scienza ma solo «sensazione». L’«ousía-éidos» di Aristotele non è dunque
l’universale astratto, né l’universale esiste in sé, come realtà separata,
bensì costituisce l’aspetto logico-astratto della “forma” ontologica che esiste solo nella realtà concreta. La “forma” in quanto pensata è l’«éidos», la specie. Come tale, è solo
astrazione della mente.
Ora
analizziamo il significato dell’«essere
come atto e potenza». Parlando della “materia”,
si è visto che essa viene determinata come «potenza»,
cioè come capacità e insieme possibilità di ricevere la “forma”: il bronzo è la statua «in potenza», in quanto può
effettivamente assumere la “forma” della statua. In questo senso, la “forma” è
l’attuazione di quella possibilità, l’«atto».
La realtà in cui entra come costituente la “materia”
è sempre, in qualche misura, «potenza».
L’«atto» come realizzazione della «potenza» indica il giungere al fine del
divenire: in questo senso è “entelécheia”.
Così, le cose che si risanano, mentre sono nel processo di risanamento, sono in
movimento, cioè non hanno ancora raggiunto il «ciò in vista di cui» il
movimento esiste. L’«atto» perfetto (
enérgeia) è quello al quale inerisce
intrinsecamente il fine, come ad esempio il vedere e il pensare; così si vede e
si è visto nel medesimo tempo, si pensa e si è pensato. Solo questo è l’«atto» compiuto.
Ogni movimento è incompleto, solo l’«atto» indica il perfetto compimento. L’«atto» sul piano della
conoscenza ha priorità sulla «potenza»
giacché la «potenza» si può conoscere
solo a partire dall’«atto». L’«atto» precede la «potenza» nella definizione: costruttore è colui che può costruire.
L’«atto» è primo anche sul piano
temporale: «sempre infatti ciò che è “atto”
deriva da ciò che è in “potenza” ad
opera di qualcosa che è in “atto”,
per esempio l’uomo dall’uomo, l’uomo colto dall’uomo colto, a patto che ci sia
ogni volta chi ha dato il primo impulso, e chi dà l’impulso è già in “atto”» (Met., IX, 8).
L’«atto» precede la «potenza» anche sul piano della “sostanza”: quanto è detto venir dopo sul
piano della genesi deve invece precedere sul piano della “forma” o della “sostanza”:
così l’uomo è anteriore al fanciullo e al seme. L’«atto» è il fine e la «potenza»
viene assunta in vista di questo. L’«atto»
precede la «potenza» anche in quanto
le cose eterne sono dette anteriori sul piano della “sostanza”, rispetto alle sostanze corruttibili. Un ruolo essenziale
i concetti di «potenza e atto» giocano nella spiegazione del divenire, come si
vedrà successivamente.
Nessun commento:
Posta un commento