domenica 12 febbraio 2017

ARISTOTELE E L‘ANALISI DEI SIGNIFICATI DELL’ESSERE


Si è visto quali e quanti sono i molteplici significati dell’«essere». Due di questi significati, cioè l’«essere come accidente» e l’«essere come vero», nel libro VI della “Metafisica” sono esclusi dall’indagine. L’essere nel senso dell’accidente indica ciò che non accade né sempre né per lo più, ma solo «talora», cioè casualmente. Così, se nello scavare un campo si trova un tesoro, questo è un fatto del tutto accidentale. Quindi la causa dell’accidente non è determinabile, in quanto del tutto fortuita. Pertanto la filosofia prima, in quanto scienza, non può indagare la causa dell’accidente, cioè la ragione e la necessità di tale accadere. 

Del pari, dall’indagine è escluso lo studio del’essere nel senso di vero e del non essere nel senso di falso. Questo perché vero e falso «riguardano la connessione e la divisione di nozioni». È dunque il pensiero che unisce, nell’affermazione, o divide, nella negazione, certe nozioni, determinando così il vero o il falso. Ora «il vero e il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse il vero e il male fosse senz’altro il falso), ma solo nel pensiero» (Met., VI, 4).Vero e falso appartengono alla logica, non alla metafisica. Restano pertanto gli altri due significati come propri dell’indagine metafisica: L’«essere per sé o l’essere secondo le diverse categorie» e l’«essere come potenza e atto». 

L’essere per sé o l’essere nel significato delle categorie, a differenza dell’essere nel senso dell’accidente, che esiste solo per altro, indica l’essere che essenzialmente è. Questa è la “sostanza”. Le altre categorie, infatti, sono derivazioni o attributi della “sostanza”. Esse sono così enumerate: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire e patire, dove e quando. Ciascuno di questi predicati è essere in virtù della categoria della “sostanza”. Quest’ultima può esistere indipendentemente dai suoi predicati, mentre questi non lo possono. Tutto ciò è valido sul piano logico-ontologico. Fattualmente, però, la “sostanza” esiste sempre in rapporto a dei predicati. Così non esiste il bianco (qualità) se non in riferimento alla cosa che è bianca, o il camminare se non in rapporto a ciò che cammina. Il «ciò che» indica la “sostanza”. «Pertanto l’essere primo, ossia non un particolare essere, ma l’essere per eccellenza, è la sostanza» (Met., VII, 1). 

Essa è «prima» per la “nozione”, per la “conoscenza” e per il “tempo”: per la “nozione” in quanto la nozione di ogni categoria implica necessariamente quella di “sostanza”; per la “conoscenza”, in quanto riteniamo di conoscere una cosa solo quando rispondiamo alla domanda su che cos’è quella determinata cosa (cioè conosciamo in senso proprio quando determiniamo la sua essenza e non un suo aspetto particolare, ad esempio la qualità). Inoltre, la “sostanza” precede e fonda, anche sul piano temporale, ogni altra determinazione. «E in verità ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza”» (Met., VII, 1, 1028 b). 

A tale domanda, l’opinione comune risponde che l’«essere» o la "sostanza" sono i corpi, gli animali, le piante o gli elementi fisici che li compongono. Ma le sostanze sono «solamente» queste, oppure esistono anche sostanze soprasensibili? Così, se i filosofi ionici hanno sostenuto che sostanze sono quelle sensibili, Platone e i platonici ritengono sostanze in senso primario le forme e gli enti matematici e solo secondariamente e in senso limitato le realtà sensibili. Per rispondere a tale domanda, occorre considerare in generale la “sostanza” e i suoi significati. Parlando di “sostanza” o “ousía, noi intendiamo riferirci o all’essenza, o all’universale, o al genere o al sostrato. 

Con “sostrato  indichiamo «ciò di cui vengono predicate tutte le altre cose, mentre esso non viene predicato di alcun’altra». Queste caratteristiche spettano sia alla “materia” (ad esempio, il bronzo), sia alla “forma” (la configurazione data dallo scultore al bronzo), sia al “sinolo” o composto che risulta dall’insieme di materia e forma (la statua in quanto materia organizzata in una certa forma). 

Quando parliamo di «materia», ci riferiamo ad una realtà indefinita e indeterminata, che non è configurabile né come qualità né come quantità né come alcuna delle altre determinazioni. Quindi, se è vero che essa non si predica di altro e tutto si predica di essa, tuttavia essa non può sussistere senza la “forma”, né è qualcosa di per sé unitario; inoltre essa è solo potenza. Per tutti questi motivi, la “materia” è “sostanza” in senso debole. 

L’altro termine con cui si identifica la “sostanza” è la «forma». Con questo termine si intende il «che cos’è» di una cosa o la sua essenza (tò ti èn éinai), ciò per cui una certa realtà è quella e non altra: così la “forma” di un triangolo è data dal fatto che essa possiede alcune proprietà peculiari; l’essenza dell’uomo è il suo essere animale razionale. Esiste quindi un nesso fra ciò che si dà concettualmente come costante e le cose che realmente esistono. Se analizziamo il processo di costruzione di una casa, vediamo che: il costruttore possiede nel pensiero la “forma” della casa, sa che cos’è l’essere casa. In cero modo la casa ha origine da casa: da qualcosa di immateriale (il suo concetto) che genera qualcosa che include la “materia”. Ciò che permane senza la “materia”, in modo costante, è appunto l’essenza o l’esser quella cosa e non altro. 

La “forma è ciò che «informa» una certa “materia”. Come tale, essa è logicamente separabile da quest’ultima. Inoltre, talune sostanze esistono senza la “materia”. Infine, la “sostanza” nel senso della “forma” è sempre qualcosa di determinato (un tóde ti, dice Aristotele) e insieme determina e dà unità alla “materia”. La “sostanza” indica il “sinolo”, cioè il composto di “materia” e “forma”. Si tratta della cosa «individua» (realtà determinata, carattere che la distingue dalle altre) concretamente esistente, purché si tenga presente che anche la “sostanza” intesa come “forma” è «individua». L’universale, infatti, a differenza di quanto riteneva Platone, non può avere esistenza separata. Sotto quest’aspetto, l’«essenza e la cosa coincidono».  (ibidem, - Nella stessa opera – VII, 6, 1032 a), come ad esempio Socrate e l’essenza di Socrate. 

In merito alle caratteristiche delle sostanze sensibili singole non c’è né definizione né dimostrazione, in quanto esse hanno “materia” e la natura di questa è di poter essere e non essere, mentre la definizione concerne il necessario. Inoltre, le sostanze sensibili sono tutte corruttibili, mentre la dimostrazione verte su oggetti necessari. Dunque, delle cose sensibili non v’è scienza ma solo «sensazione». L’«ousía-éidos» di Aristotele non è dunque l’universale astratto, né l’universale esiste in sé, come realtà separata, bensì costituisce l’aspetto logico-astratto della “forma” ontologica che esiste solo nella realtà concreta. La “forma” in quanto pensata è l’«éidos», la specie. Come tale, è solo astrazione della mente. 

Ora analizziamo il significato dell’«essere come atto e potenza». Parlando della “materia”, si è visto che essa viene determinata come «potenza», cioè come capacità e insieme possibilità di ricevere la “forma”: il bronzo è la statua «in potenza», in quanto può effettivamente assumere la “forma” della statua. In questo senso, la “forma” è l’attuazione di quella possibilità, l’«atto». La realtà in cui entra come costituente la “materia” è sempre, in qualche misura, «potenza». L’«atto» come realizzazione della «potenza» indica il giungere al fine del divenire: in questo senso è “entelécheia”. Così, le cose che si risanano, mentre sono nel processo di risanamento, sono in movimento, cioè non hanno ancora raggiunto il «ciò in vista di cui» il movimento esiste. L’«atto» perfetto ( enérgeia) è quello al quale inerisce intrinsecamente il fine, come ad esempio il vedere e il pensare; così si vede e si è visto nel medesimo tempo, si pensa e si è pensato. Solo questo è l’«atto» compiuto. 

Ogni movimento è incompleto, solo l’«atto» indica il perfetto compimento. L’«atto» sul piano della conoscenza ha priorità sulla «potenza» giacché la «potenza» si può conoscere solo a partire dall’«atto». L’«atto» precede la «potenza» nella definizione: costruttore è colui che può costruire. L’«atto» è primo anche sul piano temporale: «sempre infatti ciò che è “atto” deriva da ciò che è in “potenza” ad opera di qualcosa che è in “atto”, per esempio l’uomo dall’uomo, l’uomo colto dall’uomo colto, a patto che ci sia ogni volta chi ha dato il primo impulso, e chi dà l’impulso è già in “atto”» (Met., IX, 8). 

L’«atto» precede la «potenza» anche sul piano della “sostanza”: quanto è detto venir dopo sul piano della genesi deve invece precedere sul piano della “forma” o della “sostanza”: così l’uomo è anteriore al fanciullo e al seme. L’«atto» è il fine e la «potenza» viene assunta in vista di questo. L’«atto» precede la «potenza» anche in quanto le cose eterne sono dette anteriori sul piano della “sostanza”, rispetto alle sostanze corruttibili. Un ruolo essenziale i concetti di «potenza e atto» giocano nella spiegazione del divenire, come si vedrà successivamente. 


Nessun commento:

Posta un commento