sabato 27 gennaio 2018

LEVITICO


È stata l’antica tradizione greca della Bibbia ad attribuire al terzo libro dell’antico testamento il titolo di «Levitico», cioè di libro dei Leviti, dei sacerdoti. E non solo perché elaborato dalla Tradizione Sacerdotale, una linea di pensiero e di testi sorta nel VI secolo a.C. durante l’esilio di Israele a Babilonia, ma anche perché i contenuti riguardano spesso la legislazione liturgica e sacrale del popolo ebraico.

Abbiamo usato l’aggettivo «sacrale», che in ebraico rimanda a un termine che significa «sacro» e «santo»: «siate santi/sacri, perché io, il Signore, sono santo», ripete un ritornello del Levitico. Ora noi siamo soliti distinguere tra la «santità», che è una virtù morale e nasce dalla coscienza, e la «sacralità» che è l’area in cui si compiono i riti e che ha nel tempio il suo segno più alto.

Ecco, il «Levitico» si interessa delle norme che rendono possibile l’accesso del fedele al culto. Sono norme sacrificali, rituali, sociali che permettono di celebrare nella liturgia e nella vita quotidiana l’incontro col Dio santo e puro, separato dalle creature, limitate e imperfette (non per nulla l’ebraico qadosh, «sacro santo», significa letteralmente “separato”).

Il Libro, che ha come sfondo ideale il Sinai e la rivelazione di Dio a Mosè, contiene quattro grandi complessi di leggi: quello che determina i rituali per i sacrifici (capitoli 1-7), quello della consacrazione sacerdotale (8-10), la legge di “purità”, che delinea le norme di purificazione rituale soprattutto per la sfera sessuale e delle malattie (11-16), e la legge di “santità” che regola la vita sociale, liturgica e annuale del popolo secondo le tradizioni sacre (17-26). L’appello alla purità e santità esteriore e la complessità delle regole vogliono, però, esaltare oltre il mistero divino anche la totalità della donazione dell’uomo a Dio. Tutta l’esistenza del fedele viene, infatti, coinvolta nell’adesione al Signore.

Note Finali

La parola Levitico significa “ciò che riguarda i leviti”, i componenti la tribù di Levi designati dal Signore ad amministrare il culto del popolo eletto. Il libro contiene il complesso di leggi che regolavano la vita religiosa e sociale degli israeliti: vi sono elencate prescrizioni per i diversi sacrifici, per la consacrazione dei sacerdoti, per la distinzione tra ciò che era puro e ciò che era impuro e per vari rituali e precetti.

Linguaggio e teologia del Levitico si riflettono nelle parole e nei concetti di taluni autori del Nuovo Testamento e in particolare nella lettera agli Ebrei, dove il sacerdozio di Gesù Cristo viene contrapposto al sacerdozio levitico. Inoltre è significativo che, di tutti i numerosi precetti contenuti in questo libro, Gesù ricordi il comandamento «Ama il prossimo tuo come te stesso» ponendolo come secondo solo a quello dell’«Amore verso Dio». Il Levitico è stato redatto nel V-IV secolo a.C., ma contiene vari elementi, come la legge della Santità, che risalgono a epoca assai più antica.

sabato 20 gennaio 2018

ESODO


Il titolo Esodo, attribuito a questo celebre libro biblico dall’antica versione greca della Sacra Scrittura, definisce acutamente il cuore dell’intera opera. Essa, infatti, si sviluppa attorno a un’ «uscita» materiale, sociale e spirituale: il popolo ebraico, oppresso dalla potenza egiziana, «esce» dalla terra dei Faraoni verso la patria promessa ai padri da Dio, «esce» dal giogo pesante della schiavitù verso un orizzonte di libertà, «esce» dalle limitazioni e imposizioni religiose egiziane per servire il Signore in un culto libero e sincero.

Gli studiosi hanno vagliato accuratamente la documentazione storica offerta da queste pagine: l’autore biblico, infatti, non scrive un manuale di storiografia ma cerca di interpretare il senso religioso di eventi e di memorie antiche. E in molti è sorta la convinzione che questo libro biblico conservi l’eco di due distinti esodi, avvenuti in momenti diversi e unificati in un unico racconto. C’è un esodo fondamentale, una vera e propria “fuga” dall’oppressione faraonica, in cui gli Ebrei sono costretti a seguire la via tortuosa e difficile della penisola sinaitica per evitare di incorrere in pattuglie di frontiera egiziane. Si era forse nel XIII secolo a.C., allorquando, dopo il il regno del Faraone oppressore Ramses II, governava l’Egitto il Faraone Merneptah, del quale nel 1985 a Tebe fu trovata una stele di basalto nero che citava per la prima volta nella storia il popolo ebraico dichiarandolo vinto: «Israele è distrutto, è ormai senza seme».

Ma, all’interno delle pagine bibliche e sotto il manto di questo esodo glorioso e avventuroso sembra emergere la memoria di un altro esodo, forse avvenuto molto prima. Esso sembra avere le caratteristiche di una “espulsione”: gli Egiziani avviano gruppi di Ebrei verso la terra di Canaan facendo loro attraversare la frontiera settentrionale e imettendoli lungo la via litoranea del Mediterraneo, la più breve e diretta. Comunque sia, l’esodo rimarrà nella storia e nella fede di «Israele» come un grande segno divino: il Dio d’Israele si rivela come il Signore della Libertà, che non è indifferente al grido degli oppressi.

Il libro dell’Esodo, però, è dominato anche da un Monte, il Sinai, che si erge nell’aspra solitudine del deserto in cui vaga «Israele». E’ su quella vetta che la grande guida dell’esodo, Mosè, riceve le «Dieci Parole», il Decalogo, che sarà la base della morale biblica e della risposta che «Israele» dovrà offrire al Dio che si è alleato con lui. Attorno a quelle parole si distenderanno per lunghi capitoli le altre leggi, civili e religiose, del popolo ebraico. Anche se composte in epoche successive, esse vengono ricondotte all’esperienza del Sinai, che è come la culla spirituale dell’Israele biblico. Un popolo spesso ribelle ma destinato a incontrare Dio in un modo unico ed esaltante.

Note Finali

Gli avvenimenti narrati nel libro dell’Esodo riguardano «due» tappe fondamentali della storia di Israele: La Liberazione degli Ebrei dalla schiavitù cui erano ormai sottoposti in Egitto, dopo la morte di Giuseppe, e la costituzione definitiva di «Israele» come popolo attraverso l’alleanza stipulata da Dio con Mosè sul Monte Sinai.

Il Libro si apre con la storia di Mosè: la nascita, il mandato divino di liberare i suoi compagni, le dieci piaghe che colpiscono l’Egitto, l’istituzione della Pasqua e la fuga miracolosa degli israeliti attraverso il mar Rosso. La narrazione biblica prosegue con la conclusione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo sul monte Sinai. Qui Mosè riceve dal Signore i «Dieci Comandamenti», ma al Sinai vengono anche definite tutte le strutture fondamentali della vita sociale e religiosa del futuro «Israele».


La Liberazione della schiavitù degli israeliti viene celebrata nell’«Antico Testamento» come straordinario esempio dell’«Amore» di Dio per il popolo eletto e ha una parte importante anche nel «Nuovo Testamento», dove il simbolismo della Pasqua è applicato al sacrificio di Cristo sul Calvario e all’Eucarestia. Vari sono gli elementi di tradizione letteraria, alcuni antichissimi, altri riferibili al VI secolo a.C., che compongono il libro dell’Esodo.

domenica 14 gennaio 2018

GENESI


Il primo libro della Bibbia è chiamato dagli ebrei con la sua prima parola ebraica «Bereshit», “In Principio”. Ed effettivamente esso è il “Principio” della Rivelazione divina nelle Scritture, è il “Principio” della «Torah» o Pentateuco o Legge, i primi cinque libri sacri, è il “Principio” di quella catena ininterrotta di eventi e di parola che è la storia della salvezza, è il “Principio” del dialogo tra Dio e L’uomo che avrà il suo vertice in un altro “Principio” parallelo a questo: «In Principio era il Verbo» del vangelo di Giovanni.

La Genesi è simile a un dittico le cui «due tavole» sono diverse per qualità ed estensione. La prima occupa i primi undici capitoli e ha per protagonista l’Uomo in quanto tale: in ebraico Ha-adam, «l’Adamo» (con l’articolo), cioè l’uomo di tutti i tempi, creato da Dio come vertice della sua opera e caduto nella miseria a causa del “Peccato” «Liberamente commesso». A questa tavola segnata dalla tragedia e dal giudizio subentra la seconda, più ampia ma dall’orizzonte più ristretto. Essa occupa i capitoli 12-50 della Genesi e ha per soggetto Abramo e i suoi discendenti; l’attenzione si fissa, quindi, sul popolo della benedizione, dell’elezione e della promessa, «Israele».

Si incontrano qui vaste narrazioni che hanno per attori principali Abramo, Isacco, Giacobbe e, alla fine, in una storia suggestiva a sé stante, Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe, mentre attorno ad essi si stringe una folla di personaggi minori. Se nei capitoli 1-11 incombevano il “Peccato” umano e la “Maledizione” divina, nei capitoli 12-50 appare la "Benedizione". Se già nei primi capitoli Dio cercava di stabilire un’alleanza, cioè una relazione di intimità con l’uomo (capitoli 1-2,9), ora l’alleanza è solennemente sancita e ha il suo segno vivo nella promessa della “Terra” e della “Discendenza”. Sono queste le coordinate entro cui Dio ha scelto di rivelarsi: Lo Spazio (Terra) e la Storia (Discendenza) degli uomini.

Come ci si accorgerà nella lettura, il racconto della Genesi non è del tutto fluido e compatto come nell’opera di un solo autore. In esso, infatti, confluiscono “tradizioni” diverse antiche e più recenti. Si tratta di “fiumi” narrativi e teologici, trasmessi oralmente e a memoria, poi cristallizzati in uno scritto e infine elaborati in un libro unico. Gli studiosi, come abbiamo già visto, hanno a queste “tradizioni” attribuito nomi convenzionali, “Jahvista”, “Elohista”, “Sacerdotale” (vedi post gennaio 2018 ” Introduzione all’Antico testamento”).

Note Finali

La Genesi, il grande libro della creazione, dello splendore e delle miserie dell’uomo, ha per tema fondamentale l’alleanza tra Dio e il suo popolo eletto, manifestata nelle promesse fatte ad Abramo e rinnovate a Isacco e Giacobbe, i patriarchi di Israele; tema che sta alla base di tutto L’Antico Testamento e a cui fanno frequente riferimento anche gli autori del Nuovo Testamento. Per quanto il libro della Genesi taccia sul suo autore, per lungo tempo ne è stata attribuita la paternità a Mosè, ma quasi tutti gli studiosi moderni concordano ora sul fatto che, analogamente agli altri libri del Pentateuco, anche questo provenga da varie fonti e comprenda tradizioni diverse, alcune delle quali antichissime.

Delle due parti in cui si divide il libro, la prima riguarda la “preistoria” biblica (Adamo ed Eva, Caino e Abele, Noè e il diluvio, la torre di Babele) e costituisce una riflessione sulle radici stesse dell’uomo e sul peccato. La seconda, che tratta delle vicende dei patriarchi d’Israele, inizia con l’invito di Dio ad Abramo a lasciare la propria terra per quella che Dio stesso gli indicherà. Gli vengono promessi innumerevoli discendenti tra i quali spiccano Giacobbe, il cui secondo nome (Israele) sarà quello stesso del popolo eletto, e Giuseppe, le cui vicissitudini spiegano la successiva presenza degli israeliti in Egitto.  



   

sabato 6 gennaio 2018

INTRODUZIONE ALL’ANTICO TESTAMENTO


La parola “Bibbia” deriva dal greco «Biblía» “Libri”, ed esprime un dato indiscutibile. Pur essendo per il credente parola di Dio, essa è espressa attraverso tante voci diverse e tante mani di scrittori. Si tratta di 73 opere distribuite in due grandi settori, l’Antico e il Nuovo Testamento. Ora stiamo per aprire i 46 libri dell’Antico testamento e subito dobbiamo spiegare il significato di questa espressione.

Essa è la traduzione di un vocabolo greco (diathêkê), che a sua volta traduce un vocabolo ebraico (berît), e il cui senso è “alleanza, promessa, giuramento, testamento”. Come ci si accorgerà leggendo le prime pagine del primo e secondo libro della Bibbia, Genesi ed Esodo, la relazione che Dio stabilisce con il popolo d’Israele – e quindi con l’uomo – è un rapporto di alleanza, di impegno reciproco, è la rivelazione di un dono, è una specie di giuramento-testamento benefico di un padre nei confronti del figlio. Per questo la Bibbia, che descrive questa alleanza, è chiamata Testamento: “antico” in relazione alla prima alleanza con Israele, “nuovo” in relazione all’alleanza con Cristo e la Chiesa.

Il settore dell’Antico Testamento è come un territorio diviso in tre zone di diverso colore. Le divisioni sono leggermente diverse tra cristiani ed ebrei e tra cattolici e protestanti, nell’ambito dei cristiani. Vediamo di chiarire le distinzioni che sono, però, di secondo piano rispetto alla comune fede nella Bibbia.

Gli Ebrei dividono l’Antico Testamento, che per loro è ovviamente l’unica parte della Bibbia, in queste tre zone:
  • La «Torah» o “Legge”: sono i primi cinque libri della Bibbia, i più sacri, i più amati, chiamati dagli Ebrei con le prime parole con cui cominciano (“In principio” è la Genesi, “I nomi” è l’Esodo, ecc.) 
  • I Nebi’îm o “Profeti”. Si dividono a loro volta in due classi: i “Profeti anteriori” (sono i libri storici da Giosuè ai Re) è i “Profeti posteriori” (sono i profeti classici da isaia a Malachia). 
  • I Ketubîm o “Scritti” sono, invece, tutte le altre opere bibliche a tono “sapienziale” come Giobbe, i Salmi, il Cantico dei Cantici, ecc.     

I Cristiani, invece, usano seguire questa catalogazione in tre aree:
  • I libri storici, che abbracciano tutta la serie di libri che dalla “Legge” giunge sino alle ultime vicende di Israele descritte nella Bibbia. 
  • I libri profetici, che raccolgono gli scritti specifici dei profeti di Israele.
  • I libri sapienziali, che comprendono i grandi testi della meditazione di Israele sul senso della vita, sul mondo e su Dio come Giobbe e i Salmi. 

C’è poi una diversa estensione della Bibbia per cattolici e protestanti. I primi seguono un “canone”, cioè una definizione ufficiale dei libri biblici ispirati da Dio, più ampio, comprendente anche testi giunti a noi solo in greco e non in ebraico (cioè Giuditta, Tobia, 1 e 2 Maccabei, Siracide, Sapienza, Baruc). I protestanti, invece, seguono il “canone ebraico" e quindi hanno un Antico Testamento più breve, escludendo i sette libri giunti a noi in greco.

Prima di essere affidate allo scritto, molte opere dell’Antico Testamento hanno avuto un’esistenza orale, tramandate attraverso la fedelissima memoria degli Orientali, aiutata dalla stessa struttura delle lingue e del modo di narrare: pensiamo al cosiddetto “parallelismo” per cui un dato è ripetuto due o tre volte in modo diverso così da stamparsi bene nella memoria (Salmo 1: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti …»).

Nascono così le “tradizioni”, che sono simili a veri e propri fiumi di parole e di racconti orali fusi poi insieme nel testo scritto che possediamo. È per questo che in alcuni casi ci incontriamo con ripetizioni dovute alla fusione non sempre lineare delle tradizioni (vedi, per esempio, i due racconti iniziali della creazione in Genesi). Per le tradizioni presenti nella “Torah”, cioè nei primi cinque libri della Bibbia detti anche “Pentateuco” (dal greco “cinque astucci”, perché raccolti in altrettanti contenitori nelle antiche sinagoghe), gli studiosi hanno coniato nomi diversi così da riconoscerli:
  • la “Tradizione Jahvista” è la più antica (X sec. a.C.) ed è così chiamata perché Dio è presentato col nome specifico di Jahweh (di solito tradotto nella nostra Bibbia con “Signore”); 
  • la “Tradizione Elohista” (VIII sec. a.C.) usa il termine generico semitico Elohîm, “Dio”;
  • la “Tradizione Sacerdotale” è la più recente (VI sec. a.C.) ed è così definita perché sorta nell’ambito dei sacerdoti ritornati dall’esilio di Babilonia;
  • a sé stante c’è la “Tradizione Deuteronomica”, che ha un suo stile e che è presente nel libro del Deuteronomio (fine VII sec. a.C.).              

La prima parola è in quel «Sia la luce!» (Gn 1,3) che dà origine al cosmo. 2) C’è poi la parola che risuona in Abramo, padre di Israele e «nostro padre nella fede», come dirà S. Paolo. 3) C’è la parola che fa nascere Israele come popolo di Dio dal «crogiuolo di ferro» (Dt 4,20) della schiavitù egiziana, dalle piste infuocate del deserto, e soprattutto dal misterioso dialogo con Dio sulle vette del Sinai. 4) C’è la parola che si manifesta in Mosè, la grande guida della liberazione, il «profeta con cui il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10). 5) C’è la parola di Dio che apre l’orizzonte della terra di Palestina, la terra della promessa divina e della libertà, «terra dove non ti mancherà nulla, terra dove benedirai il Signore Dio tuo a causa della terra fertile che ti ha dato» ( Dt 8,9-10).

Ci sono poi i quadri affollati e tumultuosi della conquista sotto Giosuè, le scene vivaci e folcloristiche dei primi anni della vita libera in Palestina coi Giudici, con gli eroi tribali come Sansone. C’è il dramma del primo re Saul e lo splendore di Davide, radice della speranza nel Messia. C’è Salomone, emblema del perfetto re e del perfetto sapiente, ma c’è anche la lunga teoria di sofferenze e ingiustizie nascoste nella lista di eventi che caratterizzano l’infelice gestione del potere sotto i due regni divisi di Giuda (Gerusalemme) e di Israele (Samaria).

C’è però anche la voce della profezia che, nell’interno di questi eventi spesso sanguinosi, svela l’azione e le scelte di Dio che, come affermava il famoso vescovo francese Bossuet, «sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini». Ecco, allora, la parola di Dio in Amos, il profeta della giustizia, Ecco Osea, il profeta dell’amore, Isaia, il profeta dell’Emmanuele salvatore, il Messia, ecco Geremia, il profeta della rovina di Gerusalemme, ma anche della nuova alleanza con Dio non più su fredde tavole di pietra ma nell’interno del cuore dell’uomo.

C’è, però, la terribile parola di Dio risuonata in quel tragico 9 del mese di Av del 586 a.C., allorché le armate babilonesi di Nabucodonosor entrarono nella città santa e rasero al suolo il tempio di Dio e Sion, aprendo le porte all’amaro esilio di Israele «lungo i fiumi di Babilonia» (Salmo 137). In quell’ora oscura i profeti Geremia ed Ezechiele, accanto al giudizio, avevano svelato anche la parola della speranza e della risurrezione nazionale. Infatti nel 538 a.C., con l’editto di Ciro, all’orizzonte di Israele schiavo a Babilonia appare la possibilità di un secondo esodo verso il focolare nazionale di Palestina. Inizia, così, la ricostruzione del tempio e l’avvio di una nuova fase guidata da Esdra, l’uomo della Legge, una fase rigida che crea il severo Giudaismo del post-esilio, mentre la profezia apre orizzonti di luce e di salvezza universale (il cosiddetto Secondo Isaia, Giona, Zaccaria, Malachia).
 
Ma nella rivelazione di Dio c’è anche la “sapienza”: essa è un invito a cogliere il messaggio che Dio ci lancia attraverso i segreti dell’esistenza semplice e quotidiana, attraverso le professioni e la vita familiare, attraverso l’esperienza delle strade, della politica e della scienza (Proverbi e Siracide). C’è la sapienza drammatica che ci invita a cogliere la parola di Dio nascosta paradossalmente nel dolore innocente che tanto spesso sembra essere fonte di  “apostasia” (Il ripudio totale del proprio credo, spec. religioso.) più che di fede (Giobbe e Qoelet). C’è, però, anche la sapienza che diventa preghiera nei Salmi: essi portano a Dio il riso e le lacrime, la pace e l’amarezza della vita perché Dio vi si renda presente.

C’incontriamo, infine, con l’ultima epopea ebraica, quella dei fratelli Maccabei, espressione di un amore mai spento per la libertà e per il rispetto della dignità dell’uomo. E uno degli ultimi libri (cronologicamente parlando) dell’Antico Testamento, steso ormai alle soglie del Cristianesimo, il libro della Sapienza, fa balenare al fedele la grande speranza, quella della comunione piena e definitiva con Dio oltre le barriere della morte: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio … La loro speranza è piena di immortalità» (Sap 3,1-4).

Secondo la Bibbia, la parola di Dio viene seminata nel terreno concreto delle opere e dei giorni dell’uomo, nella storia e nello spazio, perché l’uomo sia trasformato e salvato dal suo male e dal suo limite. Isaia, usando un simbolo molto caro al panorama sempre assolato d’Oriente, quello della pioggia, scriveva: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Isaia 55,10-11). 







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