sabato 15 dicembre 2018

MALACHIA



Posto alla fine della raccolta dei profeti, Malachia – il cui nome potrebbe essere anche uno pseudonimo, “messaggero di JHWH” (vedi 3,1) – visse forse nel V secolo a.C. e riflette il clima della comunità ebraica al tempo di Esdra e Neemia. Ma lo apre anche su altri orizzonti più vasti e protesi verso un futuro messianico: è per questo che Malachia è stato citato ben dodici volte dal Nuovo Testamento e un suo passo di sapore universalistico (1,11) è stato applicato, dai primi commentatori cristiani e dal Concilio di Trento, all’Eucarestia.

Dopo una celebrazione dell’amore di Dio che ha scelto Giacobbe-Israele e rigettato Esaù-Edom (1,2-5), Malachia polemizza con la freddezza e l’indifferenza dei sacerdoti nell’espletare le loro funzioni liturgiche (1,6-2,9) e con gli Israeliti che divorziano dalle loro mogli per sposare donne straniere (2,10-16). Si apre, così, una pagina grandiosa che dipinge il «giorno del Signore» nel quale si celebrerà un giudizio di purificazione dal male (2,17-3,5).

Si passa poi a una lezione concreta: le cavallette e la scarsità del raccolto sono viste come segno della punizione divina a causa dell’infedeltà nel versare le decime al tempio (3,6-12). Ai giusti scoraggiati il profeta annunzia l’irruzione di Dio nella storia umana per far finalmente trionfare le vittime delle prepotenze. Questa irruzione sarà preparata dal ritorno sulla terra di Elia, una promessa che Gesù applicherà alla figura di Giovanni Battista (3,6-24).

Pieno di Zelo per la santità dei sacerdoti e per il loro ideale di dedizione alla legge del Signore, impegnato nella perfetta osservanza del culto e nella moralità dei costumi, sostenitore della purezza del matrimonio, Malachia riflette un momento storico non facile, segnato da una pratica religiosa formalistica e da una vita morale in crisi. È questa l’atmosfera di torpore che egli vuole scuotere con l’annunzio del giudizio imminente di Dio e che anche Esdra e Neemia avevano cercato di vincere introducendo maggior rigore nell’osservanza della legge.

Nota Finale

Il nome ebreo Malachia, che significa “mio messaggero”, probabilmente è solo l’appellativo di un profeta rimasto anonimo. Chiunque sia il redattore del libro, egli – rivolgendosi agli Ebrei nel V secolo a.C., alcuni decenni dopo il loro ritorno dall’esilio babilonese e la ricostruzione del tempio – rimprovera non soltanto il popolo ma anche i sacerdoti per la rilassatezza dei costumi e per le infedeltà all’alleanza. 

Come Zaccaria, Malachia parla del giorno del Signore, in cui Dio benedirà i giusti e condannerà i malvagi. Il nuovo elemento introdotto dal vaticinio di Malachia è la promessa che nel grande giorno del giudizio finale sarà inviato un messaggero per preparare la venuta del Signore e purificare il culto, messaggero che gli evangelisti del Nuovo Testamento hanno identificato in Giovanni Battista. Un altro dato di questo profeta, riguardante “l’oblazione pura” offerta in ogni luogo della terra, è stato liberamente applicato dalla tradizione cattolica all’Eucarestia, il sacrificio perfetto e universale.



venerdì 7 dicembre 2018

ZACCARIA



Sotto l’unico nome di Zaccaria (che in ebraico significa: “Il Signore ricorda”) si raccolgono due profeti diversi, così come è accaduto al libro di Isaia che comprendeva gli scritti di almeno tre differenti profeti. Il cosiddetto Primo Zaccaria occupa i capitoli 1-8 del libro: egli inizia la sua predicazione nell’ottobre-novembre del 520 a.C. È quindi contemporaneo del profeta Aggeo, ma la sua scrittura riflette maggiormente quella di un grande profeta dell’esilio, Ezechiele.

Gli oracoli del Primo Zaccaria sono, perciò, da collegare ai primi anni della ricostruzione, dopo l’esilio babilonese, ed evocano i due personaggi principali, il capo politico Zorobabele e il sacerdote Giosuè.
Le sue pagine sono in prosa e sono dominate da otto visioni surreali (capitoli 1-6) poste in coppia tra loro, ma con la prima e l’ultima reciprocamente coordinate. Eccone, allora, la sequenza simbolica logica.

Prima visione: i cavalieri (1,7-17); a essa si associa l’ottava: i cocchi (6,1-8). La seconda visione delle corna e degli artigiani (2,1-4) si raccorda a quella del “geometra” (2,5-9). La quarta, che mette in scena le vesti sacerdotali di Giosuè (3,1-10), va insieme con la quinta del candelabro e degli olivi (4,1-14). La sesta, che introduce un rotolo volante (5,1-4), si connette con la settima, che presenta un moggio enorme da cui esce una donna, l’«iniquità» (5,5-11). Non mancano elementi suggestivi come quello del «servo Germoglio» (3,8), una figura di taglio messianico.

Con il secondo Zaccaria (capitoli 9-14) si passa dalla prosa alla prevalenza di testi poetici e si giunge fino all’epoca ellenistica, come sembrerebbe attestato dal passo di 9,1-17 che mette in scena forse Alessandro Magno e la sua conquista delle città siro-palestinesi (fine IV secolo a.C.). Non mancano anche qui immagini curiose come nella parabola dei due pastori. Molti elementi di queste pagine sono stati riletti dal Nuovo Testamento in chiave cristiana: si ricordino il pastore trafitto, i trenta sicli d’argento e il celebre ingresso in Sion del re-Messia su un asino per annunziare a tutto il mondo il ristabilimento e il trionfo della pace (9,9-10). 

Nota Finale

Nella prima sezione di questo libro, Zaccaria sprona gli Ebrei tornati dall’esilio, e specialmente i loro capi Giosuè e Zorobabele, alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Gli oracoli del profeta, databili intorno al 519 a.C., si differiscono notevolmente da quelli dei suoi contemporanei: consistono in visioni allegoriche e dialoghi esplicativi sul significato delle visioni. Le immagini, spesso oscure e barocche, sono entrate nel bagaglio tradizionale della letteratura apocalittica. Segue quindi un’esortazione a osservare i comandamenti del Signore e la promessa di un premio per coloro che li rispetteranno.

Nella seconda sezione il tono generale cambia e l’esposizione rispecchia un’età successiva a quella di Zaccaria. Lo sconosciuto compilatore di questa parte prevede per Israele guerre e patimenti, dopo i quali giungerà la redenzione. La descrizione della venuta del re vittorioso e umile è stata vista dagli scrittori del Nuovo Testamento come una prefigurazione dell’entrata di Gesù in Gerusalemme nella domenica delle Palme. Altri simboli, come i trenta denari, l’uomo trafitto e il pastore rifiutato dal suo popolo, serviranno agli evangelisti per interpretare le ultime ore della vicenda terrena del Cristo.

sabato 1 dicembre 2018

AGGEO



Insieme a Zaccaria, il profeta Aggeo (il cui nome rimanda in ebraico al termine “festa”) è il testimone partecipe della ricostruzione della città santa da parte degli Ebrei ritornati dall’esilio babilonese. Le date offerte dal libretto del profeta parlano di agosto-dicembre 520 a.C., allorché si erano intrapresi i lavori di ricostruzione del tempio di Sion (vedi Esdra 5,1 e 6,14, ove si citano Aggeo e Zaccaria).

Lo svolgimento dei due capitoli dell’opera di Aggeo è abbastanza netto. Si parte con un’esortazione rivolta al capo politico degli Ebrei rientrati dalla Babilonia, Zorobabele, e al sacerdote Giosuè, perché si impegnino ad accelerare i lavori di riedificazione vincendo gli egoismi e le inerzie (1,1-11). Rispondono Zorobabele, Giosuè e il popolo (1,12-15), assicurando il loro impegno. Aggeo si rivolge di nuovo ai suoi interlocutori esaltando l’opera da essi intrapresa: la gloria del secondo tempio supererà quella dell’edificio salomonico distrutto nel 586 a.C. dai Babilonesi (2,1-9). In esso confluirà la ricchezza dei popoli (2,7), cioè i contributi persiani e quelli degli Ebrei della diaspora (il passo è stato letto in chiave messianica e universalistica da san Girolamo nella sua versione latina della “Vulgata”).

Le difficoltà agricole che Israele sta attraversando – continua il profeta (2,10-19) – saranno risolte se si offriranno sacrifici puri e accettabili ritualmente, diversamente da quanto finora si è fatto. Rivolgendosi, infine, a Zorobabele, Aggeo annunzia che il Signore abbatterà presto i regni nemici e renderà lo stesso Zorobabele un “anello-sigillo” (2,20-23). È probabile che il profeta veda nel capo d’Israele di quegli anni una specie di figura messianica.

Breve scritto, l’opera di Aggeo è composta in un linguaggio di non alto livello letterario e risulta una testimonianza diretta della situazione difficile in cui si erano trovati i rimpatriati da Babilonia, una volta giunti nella terra dei padri e intrapresa la ricostruzione della città santa di Gerusalemme e del suo tempio.

Nota Finale

Nel 520 a.C., dopo il rientro in patria dall’esilio babilonese, Aggeo esorta il popolo a completare la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, distrutto da Nabucodonosor circa settant’anni prima. Sono già passati quasi due decenni dal ritorno degli Ebrei in Palestina, in seguito all’editto di Ciro del 538 a.C., ma del nuovo tempio sono state poste soltanto le fondamenta. Aggeo invita allora i capi della comunità giudaica a impegnarsi con entusiasmo per completare l’opera. Il profeta chiama inoltre i sacerdoti a purificare il culto e sottolinea il legame fra le antiche tradizioni israelite e la promessa di un’età messianica. Il tempio, anche per merito delle insistenze di Aggeo, verrà definitivamente consacrato nel 515 a.C. Il libro, redatto probabilmente più tardi, contiene soltanto un estratto della vigorosa predicazione del profeta.



giovedì 22 novembre 2018

SOFONIA



Di poco più anziano di Geremia, il profeta Sofonia (“il Signore protegge”) visse sotto il regno di Giosia e all’epoca della riforma religiosa compiuta da quel re, attorno al 622 a.C. (2Re 22). La sua predicazione si muove sostanzialmente lungo due traiettorie: il giudizio inesorabile sui peccatori di Giuda e la speranza per gli “anawim”, i «poveri» del Signore, che verranno da lui salvati e difesi.

Una prima parte (1,2-2,3) raccoglie oracoli molto severi di giudizio, che rimandano ripetutamente al «giorno di JHWH», cioè al suo intervento all’interno del groviglio di ingiustizie presente nella storia (si ricordi che il tema del «giorno di JHWH» era stato annunziato per la prima volta dal profeta Amos nell’VIII secolo a.C.). La tradizione cristiana medievale si è ispirata proprio a questa pagina di Sofonia per creare il celebre canto del “Dies irae”. 

Una seconda parte (2,4-3,8) raccoglie, invece, oracoli contro le nazioni che vengono giudicate da Dio: sfilano i Filistei, Moab, Ammon, l’Etiopia, l’Assiria e, infine, Gerusalemme, «città ribelle» e prepotente. Ma ecco, all’improvviso, nella terza parte (3,9-20) la grande svolta: l’orizzonte si illumina e il “resto” fedele a Dio e le stesse nazioni giuste vedono aprirsi una nuova era di gioia e di pace. Si cita probabilmente un canto di Sion (3,14-18), in cui si esalta l’ingresso del Signore nel cuore della città santa come cittadino e come salvatore. Sarà una presenza che irradierà su tutto Israele e sull’intera umanità speranza, gioia e salvezza.

Giudizio e salvezza, terrore e felicità si accostano in questo libretto che rivela la ripresa di temi già noti (il «giorno di JHWH» e i «poveri» del Signore), ma anche l’inserzione di elementi posteriori di epoca post-esilica, come quello sulla conversione delle «isole» (2,11), cioè dei popoli lontani, sulla scia del Secondo Isaia. Un libretto che mostra, quindi, come la parola di Dio veniva conservata e applicata a nuovi contesti e prospettive, per offrire a tutti il dono della salvezza.

Nota Finale

Sofonia è uomo dotato di un vivo senso del peccato, che egli sente come una profonda offesa alla maestà del Dio vivente. Egli profetizza durante i primi anni del re di Giuda Giosia (640-609 a.C.), annunciando con linguaggio espressivo l’avvento del “giorno del Signore”, in cui la punizione di Dio si abbatterà su tutte le nazioni. Giuda stesso è condannato per la sua corruzione religiosa e morale, provocata dall’orgoglio e dalla disubbidienza. Pochi si salveranno, ammonisce il profeta: la collera divina risparmierà soltanto coloro che si pentiranno e torneranno al Signore

È un annunzio molto vicino ad alcune pagine di Amos, ma anticipa anche certi temi del quasi contemporaneo Geremia, come la condanna dei sacerdoti e dei profeti che portano la nazione alla rovina. La descrizione del giorno del Signore” ha ispirato l’inizio di un celebre testo liturgico medievale, il “Dies irae”.



domenica 18 novembre 2018

ABACUC



Di questo profeta, il cui nome sembra rimandare in ebraico a una pianta acquatica, si conosce ben poco. Il nemico che incombe nel suo breve scritto è variamente interpretato: si va da un personaggio dello stesso regno di Giuda, che, ribellandosi a Nabucodonosor, ne causò l’invasione del paese (VII-VI secolo a.C.), fino ai Greci dell’epoca di Alessandro Magno (IV-III secolo a.C.), dagli Assiri ai Babilonesi. L’opinione prevalente colloca Abacuc sul finire del VII secolo a.C.

Il suo libretto raccoglie una specie di dialogo tra il profeta e Dio secondo diverse tonalità letterarie. Ci si lamenta che il giusto sia oppresso (1,1-4) e JHWH risponde annunziando l’irruzione dei Caldei (Babilonesi), che con la loro potenza giudicheranno il “nemico” nel nome del Signore (1,5-11). Il profeta avanza ancora la sua accorata protesta a Dio a causa della prepotenza dei tiranni (1,12-2,1). Il Signore replica dichiarando che l’empio perirà mentre il giusto per la sua fede vivrà (2,2-5). Viene, così, affermata la vittoria del bene sul male.

Seguono cinque «Guai!» contro il tiranno che opprime le nazioni: egli sarà votato alla rovina e i popoli ritroveranno la loro libertà (2,6-20). Il libro è concluso da un salmo, forse più antico, in cui si esalta l’epifania gloriosa e potente del Signore che giudica e salva. I versi di questo poema sono di grande intensità, segnati da una vera e propria coreografia di immagini. Il libro di Abacuc – considerato uno degli scritti più profondi dell’Antico Testamento – ha avuto un notevole successo nella successiva tradizione giudaica e cristiana.

Il profeta appare anche nel libro di Daniele (14,33-39) in un episodio curioso, già da noi letto. Nel Nuovo Testamento la sua frase: «Il giusto sopravvive per la sua fedeltà!» (Ab 2,4) sarà usata da Paolo quasi come dichiarazione di base per la sua riflessione teologica sulla fede e sulla grazia (Romani 1,17; Galati 3,11; vedi anche Ebrei 10,38). Tra i manoscritti trovati a Qumran, presso il Mar Morto, è venuto alla luce un antico commento agli oracoli del profeta, mentre la versione greca antica di 3,2 («Ti manifesterai in mezzo a due animali…») è stata alla base, con Isaia 1,3, della tradizione della nascita di Gesù tra il bue e l’asino.  

Nota Finale

In questo libro il profeta pone direttamente a Dio l’eterna domanda che tormenta l’uomo: «Perché taci mentre l’empio ingoia il giusto?» E la risposta è che il Signore regna sempre sulla storia e, sia pure attraverso vie imperscrutabili, sceglierà il tempo in cui punire i malvagi e ristabilire il suo ordine; nell’attesa «il giusto vivrà per la sua fede». Questa espressione, ripresa soprattutto da Paolo nella lettera ai Romani, ha assunto un’importanza fondamentale nel pensiero cristiano come punto d’inizio dell’approfondimento teologico del concetto di “fede”.

La composizione dell’opera risale probabilmente alla fine del VI secolo a.C., quando i Caldei (cioè i Babilonesi) sottomettono l’Assiria e minacciano direttamente Giuda. Al termine del libro si trova però anche un carme più antico, forse del X secolo a.C., che celebra l’irruzione trionfale del Signore nella storia umana per giudicare e salvare.



venerdì 9 novembre 2018

NAUM



Nato nel villaggio ignoto di Elcos, che san Girolamo collocava in Galilea, Naum (o Nahum) ci offre un libretto profetico centrato sull’evento della distruzione della capitale assira Ninive, caduta nel 612 a.C. sotto i colpi del re dei Medi, Ciassare, e di Nabopolassar, il fondatore della dinastia neo-babilonese. Si ha, quindi, la possibilità di riferire l’opera del profeta Naum (il cui nome significa “consolazione”) al tempo del re di Giuda Giosia e della sua riforma religiosa (2Re 22), che sembra essere evocata in un paragrafo di questo breve scritto profetico (1,9-2,2).

Dicevamo, però, che il centro della predicazione di questo profeta, vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C., è costituito da un canto dedicato alla rovina della grande avversaria di Israele, l’Assiria (2,3-3,19). Si tratta di una lamentazione sarcastica in cui, fingendo il lutto per quella fine, si ironizza e si esprime la gioia per l’opera di giustizia compiuta dal Signore contro un oppressore così duro e crudele. La caduta di Ninive diventa il simbolo della grande vittoria che Dio riporta sul male e dalla speranza in un futuro diverso per le vittime.

Il poema contro Ninive è di un’intensa forza poetica ed è articolato in una serie di quadri che dipingono le vicende quasi in presa diretta ed evocano anche un evento precedente, la distruzione di Tebe, la capitale egiziana sconfitta nel 663 a.C. dall’assiro Assurbanipal (3,8-10), il cui destino ricade ora sul vincitore di allora. Si noti anche che il libretto di Naum è preceduto da un salmo alfabetico incompleto (1,2-8), i cui versetti sono aperti da parole che iniziano con le lettere dell’alfabeto ebraico in successione, dall’ “Alef” alla “Kaf” (esclusa la lettera “Dalet”).

Le parole severe del giudizio divino si accompagnano alle promesse di una sicura salvezza: Il Signore, che regge il cosmo e la storia, si schiera dalla parte degli oppressi e assicura loro la liberazione e la possibilità di ritornare a essere in festa (2,1), mentre sugli oppressori cala il silenzio della morte (3,18).

Nota Finale

La predicazione di Naum, nato in un piccolo villaggio della Galilea, Elcos, si svolge alcuni anni prima della caduta di Ninive, conquistata dai Babilonesi nel 612 a.C. Per secoli l’Assiria (paragonata nel testo a una tana di leoni), ha devastato e dominato le altre nazioni del Medio Oriente, ma ora, afferma il profeta in uno stile vibrante e appassionato, la collera del Signore si abbatterà sul suo orgoglioso impero: nessun potere umano può usurpare indefinitamente il dominio di Dio sull’universo. L’autore, che è lontano dallo spirito universalistico di Giona e da quello del Nuovo Testamento, esprime con rara efficacia il tema della giustizia vendicativa di Dio. Il canto del giudizio divino su Ninive è di una tale potenza evocatrice e finezza letteraria da essere considerato uno dei capolavori della poesia ebraica.



sabato 3 novembre 2018

MICHEA



Contadino come il profeta Amos, ma contemporaneo e forse discepolo di Isaia, Michea (“chi è come il Signore?”) visse e operò nell’VIII secolo a.C. nel regno meridionale di Giuda, ove era nato (nel villaggio di Moreset-Gat, a 35 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme). Michea è citato da Geremia (26,17-18), ma a sua volta nel capitolo 4 cita il canto di Sion che Isaia ha composto nel capitolo 2 del suo libro di oracoli. È lo stupendo inno alla pace e alla salvezza dei tempi messianici.

La prima parte del suo libretto (capitoli 1-3) è un vigoroso messaggio di denuncia nei confronti dei politici di Giuda, dei profeti di professione e dei sacerdoti infedeli, responsabili di ingiustizie sociali vergognose. Si passa, poi, a una raccolta di oracoli protesi verso il futuro con la speranza di una nazione nuova e santa, guidata da un nuovo Davide. È qui che appare quell’annunzio (5,1) che Matteo citerà così nel racconto dei Magi: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te infatti uscirà un capo che pascerà il mio popolo, Israele» (2,6). L’orizzonte tratteggiato dal profeta aveva, infatti, chiari connotati messianici. Questa è la seconda parte del libro di Michea (capitolo 4-5).

La terza parte (capitoli 6-7) inizia con un appassionato dialogo tra Dio e Israele infedele. Il dialogo si trasforma in una requisitoria processuale in cui si contesta al popolo una religiosità puramente rituale, non alimentata dalla vita e dalla giustizia, nello spirito di un messaggio che i profeti hanno spesso ripetuto (6,6-8). Michea non esita a condannare le infedeltà e i peccati del popolo, ma l’ultima parola è riservata alla speranza e al perdono. Israele si convertirà e Dio avrà ancora pietà del suo popolo e metterà sotto i piedi i suoi peccati eliminandoli (7,19).

Predicatore saldo e non privo di immediatezza, dovuta alla concretezza di uomo dei campi, Michea ripropone le caratteristiche della profezia delle origini, che nell’VIII secolo a.C. aveva visto emergere le figure di Amos, Osea e Isaia. Come si è detto, la sua fortuna continuerà anche attraverso la rilettura cristiana.

Nota Finale

Il libro di Michea, profeta che svolge la sua missione nel regno meridionale di Giuda (VIII secolo a.C.), comprende numerosi oracoli brevi, pronunciati in tempi diversi e raccolti in seguito in una cornice unitaria. Michea si scaglia contro il culto esteriore e lo sfruttamento dei poveri, annunciando la punizione divina su Samaria e Gerusalemme, ma profetizza anche la restaurazione del regno davidico e la gloria futura del popolo ebraico. Celebre è l’annunzio dell’avvento di un sovrano messianico il quale nascerà a Betlemme, la patria di Davide, e «sarà grande fino agli estremi confini della terra». Questo testo è citato da Matteo come annunzio della nascita di Gesù. L’ultima parte del libro contiene il nucleo della predicazione profetica di Michea sul vero culto e sulla vera religione, che si riassume in queste parole: «Praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio».



giovedì 25 ottobre 2018

GIONA



Questa raffinata storia, che ha per protagonista un profeta, Giona (“colomba”), evocato nel secondo libro dei Re (14,25) al tempo di Geroboamo II, sovrano di Samaria dell’VIII secolo a.C., è in realtà un racconto esemplare più che un vero e proprio testo profetico. Esso vuole sostenere in modo molto vivace l’apertura universalistica che si stava introducendo in alcuni ambiti del giudaismo dopo l’esperienza dell’esilio babilonese e della diaspora di Israele in altre nazioni.

Se, da un lato, non mancavano correnti particolaristiche e inclini alla chiusura (si pensi all’opera di Esdra e Neemia) – e lo stesso profeta Giona ne è una testimonianza – dall’altro, si sentiva l’urgenza di un impegno missionario. La trama del racconto è, infatti, retta da un viaggio che il profeta doveva compiere a Ninive , la capitale dell’Assiria, un antico simbolo di oppressione per Israele. Un viaggio per invitare alla conversione: Giona, per nulla convinto di tale scelta e quindi renitente alla chiamata divina, aveva deciso invece di dirigersi all’estremo opposto (la città di Tarsis – di non certa identificazione – ne è il simbolo), imbarcandosi su una nave che solcasse il Mare Mediterraneo e proseguisse per l’occidente.

Il narratore di questo breve e vivace racconto ha il gusto dell’ironia nei confronti di un profeta così gretto, e non rifiuta il ricorso al fiabesco (il pesce mostruoso che ingoia Giona e lo rigetta, un simbolo che sarà ripreso da Gesù per indicare la sua morte e risurrezione), cita nel capitolo 2 un salmo di supplica, adatto ad esprimere i sentimenti del profeta chiuso nel grembo del mostro e del mare, e usa nel capitolo 4 una bella parabola in azione (il ricino, il verme e il vento).

Ma tutto il libretto è orientato a quella domanda finale che esige una risposta da parte del profeta, del lettore e di tutto Israele: Il Signore non deve aver compassione di tutte le sue creature viventi e offrire la possibilità del riscatto dal loro male così da ottenere la salvezza? Il libro esalta, quindi, l’amore universale di Dio e la sua volontà di liberazione e di gioia per tutti gli uomini.

Nota Finale

Diversamente dagli altri scritti profetici, che si snodano attraverso l’esposizione solenne di una serie di oracoli, il libro di Giona si presenta come un racconto esemplare dai colori vivaci, che descrive la riluttanza del profeta ad accettare la missione affidatagli dal Signore di andare a predicare a Ninive, la capitale dell’Assiria, e il suo sgomento di fronte al desiderio di Dio di voler convertire e perdonare la grande città, emblema dei nemici tradizionali del popolo ebraico.
Lo scopo del libro è quello di dimostrare che l’amore misericordioso di Dio è universale e che il messaggio salvifico deve varcare i ristretti confini della nazione ebraica.

L’opera è stata quasi certamente redatta in epoca post-esilica (V-III secolo a.C.), anche se il profeta Giona è vissuto alcuni secoli prima. Nei vangeli, Gesù parla più volte del “segno di Giona”, riferendosi all’episodio in cui Giona è inghiottito e liberato dal mostro marino, che in Matteo è interpretato come una profezia simbolica della morte e risurrezione del Cristo.



sabato 20 ottobre 2018

ABDIA



Abdia (“servo del Signore”) ha lasciato il più breve di tutti gli scritti profetici: un solo capitolo di 21 versetti. Dell’uomo Abdia e della sua storia non sappiamo nulla né è da confondere – come farà una successiva tradizione giudaica – con Abdia, maggiordomo del re Acab al tempo del profeta Elia (1Re 18).

Secondo alcuni studiosi il testo di Abdia a noi giunto sarebbe costituito da due frammenti (versetti 1-14 e 15-21). Nel primo si legge un veemente oracolo contro Edom, la popolazione imparentata con gli Ebrei, ma ad essi ostile. Il profeta lo pronunzia perché gli Edomiti si schierarono con gli invasori babilonesi al momento della distruzione di Gerusalemme (586 a.C.). Ben dieci versetti di questo oracolo si ritrovano, con alcune varianti, nel libro di Geremia (49,7-16).

Il secondo frammento, pur partendo ancora da Edom, allarga l’orizzonte descrivendo «il giorno del Signore», che vedrà la rivincita gloriosa di Israele su Edom e il sorgere di una nuova era di gioia per il popolo di Dio, ritornato sul monte di Sion. Si può, dunque, pensare a uno scritto immediatamente post-esilico.

Segnata da una forte passione nazionalistica, quest’unica pagina a noi giunta di Abdia è la testimonianza dell’incarnazione della parola di Dio nella storia di Israele, nelle sue sofferenze e passioni, ma anche nelle sue speranze in un futuro migliore di libertà, attuato dalla giustizia divina che si schiera dalla parte degli oppressi. Il profeta vede realizzarsi tutto ciò nel «giorno del Signore».

Nota Finale

Si tratta del libro più breve dell’Antico Testamento. Il profeta, il cui nome significa “servo del Signore” e del quale si hanno scarse notizie, ammonisce il paese di Edom (discendente da Esaù) preannunciando che sarà colpito dalla punizione divina per aver rifiutato di combattere contro gli stranieri che hanno conquistato Gerusalemme e per aver anzi approfittato della situazione saccheggiando il territorio di Giuda. Il brano esalta la giustizia di Dio, che agisce come difensore del diritto non solo del suo popolo ma di tutte le genti. Abdia assicura quindi i superstiti d’Israele che la terra promessa sarà loro restituita e che avranno la rivincita su Edom. 

La sventura di Gerusalemme descritta dal profeta è probabilmente il sacco (assalto, devastazione) della città compiuto dai Babilonesi nel 586 a.C. e, poiché Edom viene soggiogato dai Nabatei nel 312 a.C., la profezia di Abdia si può collocare fra queste due date.




sabato 6 ottobre 2018

AMOS



Nato a Tekoa, un villaggio nel deserto di Giuda a sud di Gerusalemme, Amos era un piccolo possidente agricolo che allevava bestiame (1,1) e coltivava sicomori (7,14), un albero tropicale dai frutti dolci e dalla scorza simile al sughero. Al suo lavoro fu strappato dalla chiamata divina, che lo lanciò nel regno settentrionale d’Israele, nell’opulenta città di Samaria. Là egli iniziò una predicazione tesa alla denuncia delle ingiustizie perpetrate dalle alte classi nei confronti dei poveri e degli umili e dal forte richiamo alle esigenze del Dio dell’alleanza.

Le sue parole, spesso intrise di sdegno e colorate di immagini desunte dal mondo agricolo da cui il profeta proveniva, sono state raccolte in un libro (forse il primo dei testi profetici, essendo vissuto Amos a metà dell’VIII secolo a.C., sotto il regno di Geroboamo II). La divisione di questa raccolta di oracoli veementi è scandita da alcuni verbi. Nelle sette scene dei capitoli 1-2, ove sono giudicate le nazioni, si ha il verbo «dire», presente in quella che gli studiosi chiamano “la formula dell’inviato” divino: «Così dice il Signore…».

Nei capitoli 3-6 i discorsi sono, invece, introdotti da tre «Ascoltate!» (3,1; 4,1; 5,1), che spesso s’intrecciano con i «Guai!» del giudizio divino scagliati contro i ricchi proprietari terrieri (5,7), destinati al «giorno del Signore», in cui Dio interverrà contro l’ingiustizia (5,18) e contro gli abusi dei politici (6,1). La terza parte (capitoli 7-9) è occupata da cinque visioni, introdotte dalla formula: «Ecco ciò che mi fece vedere il Signore», o dal verbo «vedere» (7,1.4.7; 8,1; 9,1).

Il profeta offre una serie di denunce precise e documentate contro le violenze, le volgarità, le ingiustizie perpetrate dai ricchi di Samaria, attirandosi anche gli attacchi del sacerdote Amasia, capo del clero del santuario del re a Betel. Si rivela, così, anche l’annunzio – caro a tutti i profeti – di un culto non ipocrita ed esteriore, ma radicato nella vita. Altrimenti Dio rigetterà santuari, canti, feste, sacrifici (4,4-5; 5,4-6; 5,21-24), perché per lui fondamentali sono la giustizia, la fedeltà, l’onestà. Il libro di Amos (“il Signore porta” è il significato del suo nome, come di quello del suo avversario Amasia) finisce con una pagina di speranza messianica, forse posteriore, che si apre a un orizzonte di salvezza e di vita (9,11-15).

Nota Finale

Da un piccolo villaggio del regno meridionale di Giuda, dove fa il pastore e il coltivatore di sicomori, Amos viene inviato da Dio a predicare nel regno settentrionale di Israele, sotto Geroboamo II (VIII sec. a.C.). In questi anni, Israele si trova all’apice della potenza e del benessere economico, ma è anche afflitto da profonde ingiustizie sociali. Scandalizzato dai culti pagani, dall’oppressione dei poveri e dall’immoralità, Amos inveisce aspramente contro gli Israeliti ed entra ben presto in conflitto con le autorità, che lo espellono dal santuario regale di Betel. In ordine di tempo, Amos è il primo profeta di cui ci siano giunti gli oracoli scritti e non soltanto alcune note biografiche come nel caso di Elia ed Eliseo. La sua profezia è carica di simboli desunti dal mondo campestre e di uno sdegno veemente contro l’ingiustizia. Il susseguirsi di dure minacce si conclude però con una nota di speranza: la promessa che Israele risorgerà e tornerà a essere fertile e ricco.



sabato 29 settembre 2018

GIOELE



Profeta dal nome simile a un programma (“JHWH è Dio”), Gioele non offre nel suo breve libro indicazioni biografiche dirette: Linguaggio e temi lo fanno collocare in epoca tarda, dal V al IV secolo a.C. La sua opera è sostanzialmente affidata a due grandi scene. Nella prima (capitoli 1-2) si ha una vivace rappresentazione di due piaghe endemiche dell’agricoltura orientale, la siccità e l’invasione delle cavallette. Le torme di questi insetti, che con i loro sciami oscurano il cielo e trasformano in deserto i campi coltivati, portando ovunque carestia e desolazione, diventano il simbolo di un’invasione militare che tutto annienta.

L’immagine che in pratica vale anche per la nostra lingua, che accosta le “cavallette” ai “cavalli” e alla “cavalleria”, è un segno del pericolo da parte di un nemico e del relativo giudizio che Dio sta operando nei confronti del suo popolo. Dopo la descrizione di una solenne liturgia penitenziale, per ottenere la liberazione divina da questo flagello, si passa alla seconda scena (capitoli 3-4), di taglio apocalittico. L’avvio del capitolo 3 è stato, tra l’altro, citato da Pietro nel suo discorso di Pentecoste (Atti degli Apostoli 2, vv.17-21).

Nell’era perfetta della salvezza, quando si apriranno gli ultimi giorni, lo Spirito del Signore non sarà più effuso solo sui profeti, sui capi, sui re, sul Messia, ma sull’intero popolo di Dio, dai giovani agli anziani, dagli uomini alle donne, dai liberi agli schiavi. Ma sugli “empi” si abbatterà la tempesta della collera divina, che inaugurerà il suo giudizio nella Valle della decisione o Valle di Giosafat, situata a oriente dell’antica area del tempio e della città di Gerusalemme.

La parola “Giosafat” in ebraico significa “il Signore giudica”: esprime, perciò, simbolicamente l’evento finale della storia, descritto dal profeta con colori accesi, che saranno ripresi in seguito dall’arte e dalla letteratura. L’identificazione della Valle di Giosafat con quella orientale di Gerusalemme (la valle del Cedron) è avvenuta nel IV secolo d.C. e ha fatto sì che essa si popolasse di migliaia di sepolcri di fedeli ebrei, che hanno voluto attendere là il giudizio finale divino.

Nota Finale

Quando un immenso sciame di cavallette, piaga endemica dell’agricoltura orientale, invade le campagne di Giuda, il profeta Gioele interpreta l’evento come un annuncio del giorno del giudizio finale, e il devastante esercito di insetti diventa una potente immagine dell’esercito di Dio. Il pressante invito del profeta al pentimento, espresso in un linguaggio apocalittico, è seguito da una grandiosa visione del futuro, quando il Signore compenserà il suo popolo per tutto ciò che ha sofferto, annienterà i suoi nemici e costituirà il nuovo mondo. 

Di Gioele non sappiamo quasi nulla e il suo libro viene attribuito da molti studiosi al periodo post-esilico, attorno agli anni 400-350 a.C. Il famoso passo che profetizza l’effondersi dello spirito divino su ogni uomo è citato da Pietro negli Atti degli Apostoli come presagio del dono dello Spirito Santo durante la festa di Pentecoste.



sabato 22 settembre 2018

OSEA



Questo profeta – il cui nome rimanda in ebraico alla “salvezza” offerta dal Signore – apre la serie dei cosiddetti “profeti minori”. In realtà, la sua è una testimonianza di alto profilo e si basa su un’esperienza personale che viene assunta a simbolo religioso per tutto il popolo ebraico. Vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. nel regno settentrionale di Israele, Osea aveva sposato una donna, Gomer, figlia di Diblain (1,3), la quale era una prostituta (forse una sacerdotessa dei culti degli indigeni cananei, culti della fertilità a sfondo sessuale).

I primi tre capitoli del libro sviluppano in modo molto intenso questa storia personale. Tuttavia il profeta la trasfigura facendola diventare una parabola dell’intera vicenda del popolo di Israele: di fronte all’amore fedele da parte del Signore la “sposa” Israele aveva risposto con l’infedeltà dell’idolatria cananea, bollata appunto come prostituzione e adulterio.

Osea operava in questo modo una svolta: la raffigurazione dell’alleanza tra JHWH e Israele non era più modellata, come al Sinai, sulla base di un rapporto tra un re e un suo vassallo, un rapporto “politico” tra due personaggi. Era, invece, rappresentata come una relazione d’amore tra due persone, con aspetti di intimità, di comunione, di spontaneità. Questo tema nuziale verrà ripreso dai profeti successivi in forme diverse e costituirà un simbolo significativo anche per il Nuovo Testamento. Tra l’altro, nel capitolo 11 lo stesso Osea assumerà un’altra immagine, quella paterna (o materna) per definire il rapporto tra Dio e l’uomo.

Il resto del libro (capitoli 4-14) sembra essere una raccolta eterogenea di oracoli, in cui predomina il giudizio divino nei confronti del popolo idolatra e infedele. Il profeta ripete anche il tipico annunzio del culto unito alla vita e alla giustizia: «Io voglio l’amore, non i sacrifici» (6,6), dirà, e Gesù raccoglierà questo appello divino (Matteo 9,13; 12,7). Tuttavia il giudizio si apre alla speranza: se Israele si pente e si converte, Dio risponderà con la sua grazia e il suo amore e la gioia inonderà tutta la terra (capitolo 14). Nell’interno del libro di Osea non mancano allusioni o riferimenti alla vita politica del regno ebraico di Samaria nell’VIII secolo a.C.

Nota Finale

Osea, profeta dell’VIII sec. a.C., che svolge la sua missione nel regno settentrionale di Israele, vede la sua dolorosa vicenda coniugale con la moglie fedifraga Gomer come la parabola dell’amore costante e appassionato di Dio per l’infedele nazione d’Israele. Preoccupato per l’idolatria diffusa tra il popolo e per le ingiustizie subite dai poveri, Osea lancia la sua protesta contro le innumerevoli infedeltà di Israele, su cui incombe il castigo divino. Il libro si chiude tuttavia con la promessa che Israele rivivrà, perché l’amore di Dio, che il profeta descrive anche con immagini paterne, non potrà mai spegnersi. 

Come l’altro profeta a lui contemporaneo, Amos, Osea è particolarmente attento al tema della «giustizia» ed è il primo scrittore biblico a descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo in termini nuziali: questo simbolismo verrà trasferito nel Nuovo Testamento con l’immagine della Chiesa sposa di Cristo.





sabato 15 settembre 2018

DANIELE



Inserito dalla tradizione cristiana tra i profeti “maggiori”, il libro di Daniele (“Dio giudica”) è in realtà uno scritto tardivo, appartenente alla cosiddetta “apocalittica”, una letteratura e una teologia fiorite a partire dal III secolo a.C. nel giudaismo e che avrà grande successo. La sua rappresentazione del mondo è divisa tra terra e cielo in modo netto, quella dell’umanità in bene e male, quella della storia tra il presente dominato da Satana e il futuro retto dal Signore con i giusti.

Anche se il libro è ambientato ai tempi di Nabucodonosor e dei suoi successori (VI secolo a.C.), in realtà l’epoca a cui fa riferimento allusivamente è quella della rivolta dei Maccabei (II secolo a.C.) contro il potere oppressivo della Siria ellenistica. Protagonista è un ebreo esemplare, Daniele, circondato da amici. Egli sfida il potere imperiale, che verrà condannato da Dio stesso (alcune scene, come quelle del sogno di Nabucodonosor, della fornace di fuoco o della fossa dei leoni e del banchetto del re Baldassar sono diventate giustamente famose).

Dal capitolo 7 in avanti si hanno, invece, visioni, cioè rivelazioni divine interpretate da un angelo e spesso popolate di mostri e figure misteriose, simbolo del potere oppressivo schiacciato da Dio. Particolare rilievo ha quella del «Figlio d’uomo» (7,13-14), che riceve un potere universale ed eterno da parte dell’Anziano, cioè del Signore: forse questo personaggio incarna l’Israele fedele glorificato da Dio, ma la tradizione giudaica e cristiana l’ha interpretato come figura del Messia, e Gesù si è arditamente applicato tale titolo (vedi, ad esempio, Matteo 26,64).

C’è un aspetto curioso da segnalare nel tessuto del libro. Il volume di Daniele è in pratica scritto in tre lingue: l’ebraico nei capitoli 1 e 8-12, l’aramaico (lingua dominante nel periodo successivo all’esilio babilonese) da 2,4 fino a 7,28, mentre in greco sono stati aggiunti i passi di 3, *24-*90 e dei capitoli 13-14 (sono le cosiddette parti deuterocanoniche, perché non accolte nel Canone ebraico e protestante). Celebri, oltre al citato capitolo 7, sono anche la particolare interpretazione delle «settanta settimane o anni» del capitolo 9, sulla base di una profezia di Geremia (25,11-12), e la storia di Susanna, vittima innocente salvata da Daniele (capitolo 13).

Nota Finale

Più che un testo profetico, il libro di Daniele appartiene alla cosiddetta “letteratura apocalittica” che si propone di descrivere un mondo nuovo destinato ai giusti, al di là delle difficoltà e delle miserie contingenti. Due sono i temi ricorrenti nelle storie di Daniele e dei suoi compagni, ambientate fittiziamente durante l’esilio babilonese (VI secolo a.C.): il primo è quello della «fedeltà alla religione ebraica» in un ambente estraneo e ostile, il secondo è quello della «saggezza» di Daniele che, ispirato da Dio, si dimostra superiore a tutti i dotti di Babilonia. Il libro contiene anche una serie di visioni che, attraverso figure simboliche, presentano la caduta dei babilonesi a opera dei Persiani, le conquiste folgoranti di Alessandro Magno, la divisione del suo impero, la lunga lotta fra Tolomei (“il regno di mezzogiorno”) e Seleucidi (“il regno di settentrione”) per il controllo della Palestina e l’avvento dell’oppressore Antioco IV Epifane (“un uomo abbietto”).

Il libro, che molti studiosi ritengono sia stato compilato da un redattore ignoto proprio durante le persecuzioni di Antioco IV contro gli Ebrei (168-164 a.C.), vuole incoraggiare il lettore a essere fedele alla legge di Dio e celebrare il dominio del Signore sulla storia del mondo. La versione greca dell’opera contiene alcune parti, come il cantico dei tre giovani nella fornace ardente e la storia di Susanna, che non sono presenti nel testo ebraico e aramaico giunto fino a noi, ma che sono state accolte nella bibbia dalla tradizione cattolica.