sabato 25 febbraio 2017

ARISTOTELE E LA FILOSOFIA PRIMA COME TEOLOGIA


Nel libro I della “Metafisica, Aristotele attribuisce alla filosofia prima il compito di ricercare la «causa prima» del reale, il principio dal quale la stessa realtà dipende. Questo tipo di ricerca si conclude nel libro XII della “Metafisica”. Riprendendo le analisi precedenti, che individuano nella “sostanza” l’essere per eccellenza, egli trae la conclusione che i principi e le cause che si ricercano sono quelli della “sostanza” 
(ibidem - nella stessa opera -, XII, 1).

Le sostanze sono di tre tipi: quelle sensibili, distinte rispettivamente in “corruttibili” (ad esempio, piante e animali) e in  “incorruttibili” (come i cieli, i pianeti e le stelle) formati dall’etere, materia incorruttibile, soggetta solamente al movimento locale ad esclusione degli altri tipi di divenire (generazione e corruzione, mutamento qualitativo e quantitativo); il terzo tipo sostanza è “immobile e incorruttibile”. 

Le prime due sono oggetto della fisica, mentre la terza sostanza è oggetto di una scienza diversa, «dal momento che non c’è nessun principio comune ad essa e alle altre due (ibidem - nella stessa opera -, XII, 1 1069 b 36). Il “mutamento”, come detto nella “Fisica”, avviene in relazione a tre principi: i due contrari, forma e privazione, e la materia come sostrato. È la materia che muta, passando dalla privazione alla forma, dalla «potenza» all’«atto». Materia e forma, in quanto principi ultimi, non si generano. 

Occorre inoltre distinguere tra gli elementi costitutivi delle cose e il loro principio motore, sia che questo sia intrinseco o estrinseco alle cose stesse (XII, 4). Ma «oltre a queste cause, c’è poi ciò che tutto muove come causa prima di tutto» (1070 b 35). Senza questo tipo di causa, infatti, nulla potrebbe esistere, proprio perché questa è causa ultima che non rinvia ad altro. Occorre allora «dimostrare che necessariamente esiste una sostanza eterna ed immobile». Infatti, se tutte le sostanze fossero corruttibili, allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. «Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa, perché esso è sempre stato; né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbe esserci il “prima” o il “poi” se non esistesse tempo» (XII, 6, 1071 b 7). 

Tempo e movimento, come si vedrà trattando della “Fisica”, sono necessariamente correlati, cioè l’uno non può sussistere senza l’altro. Ma il tempo non può essersi generato, giacché in tal caso dovrebbe ammettersi un “prima” che preceda la genesi del tempo; ma il “prima” è sempre tempo. Lo stesso ragionamento vale per la sua corruzione, per la quale deve presupporsi un “poi nel quale il tempo non sarebbe più. Ma anche il “poi” è tempo. Dunque, il tempo è «eterno»; e, per le stesse ragioni, anche il movimento è «eterno». 

Ma il movimento esiste solo in quanto sussiste un principio motore e questo, per essere adeguato ad un tempo e movimento eterni, deve essere sempre e solo atto. Ciò che è in potenza potrebbe, infatti, anche non passare all’atto. «Dunque, è necessario che ci sia un principio, la cui sostanza sia l’atto stesso». Per questo, tale principio è totalmente privo di materia-potenza. Pertanto questo principio, in quanto causa adeguata del tutto, dev’essere «eterno», e quindi non generato né corruttibile; immobile, in quanto causa del mobile; atto puro, privo di potenza; immateriale, giacché la materia è potenza. In conclusione, esiste una sostanza sovrasensibile, causa prima non causata: questo è Dio. 

Dunque, il primo motore muove come causa finale: esso è il fine verso il quale tutte le cose tendono. «Dunque, il primo motore muove come oggetto d’amore, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse». Né il primo motore può essere diversamente da come esso è: «dunque questo è un essere che esiste di necessità; e, in quanto esiste di necessità, esiste come bene ed in questo modo è principio» (1072 b 10). 

Così il Dio aristotelico non è creatore, ma presuppone l’eternità del mondo. «Da un tale principio, dunque, dipendono il cielo e la natura» nel loro divenire. Per quanto concerne la sua natura, Dio è atto, pensiero che ha per oggetto se stesso, perfetta identità di intelletto e di intelligibile (che può essere capito e conosciuto soltanto attraverso l'intelletto). Inoltre: «Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente ed eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo è dunque Dio» (XII, 7, 1072 b 24-30). Sostanza eterna e separata, indivisibile e senza parti, impassibile e inalterabile. 

Dio muove direttamente il «primo cielo», cioè è causa di rotazione delle stelle intorno alla terra. Tutti gli altri movimenti, che sono moti differenti, sono prodotti da una molteplicità di motori, cioè sostanze soprasensibili viventi, capaci di muovere le singole sfere. Anche queste intelligenze – cinquantacinque secondo le teorie astrali di Callippo – muovono come oggetto di desiderio. 

Nel capitolo 9 del XII libro, Aristotele, rispondendo ad alcune obiezioni, precisa meglio la natura del suo Dio. Che cosa pensa? «infatti, se non pensasse nulla, non potrebbe essere cosa divina, ma si troverebbe nella stessa condizione di chi dorme. E se pensa, ma questo suo pensare dipende da qualcosa di superiore a lui, ciò che costituisce la sua sostanza non sarà l’atto del pensare, ma la «potenza» e non potrà essere la sostanza più eccellente: dal pensare deriva infatti il suo pregio». Perciò  «o pensa sé medesimo, oppure qualcosa di diverso; e se pensa qualcosa di diverso, o pensa sempre la medesima cosa, o qualcosa di sempre diverso». Ma è evidente «che esso pensa ciò che è più divino e più degno d’onore e che l’oggetto del suo pensare non muta: il mutamento, infatti, è sempre verso il peggio, e questo mutamento costituisce pur sempre una forma di movimento (…) Se dunque l’intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero». 

Nota Finale

Nel «Divenire», come l'intende Aristotele, ogni passaggio dalla «Potenza all'Atto» presuppone un «Essere in Atto». Così la trasformazione dell'uovo in pulcino presuppone l'esistenza di una gallina in «Atto». Soltanto l'«Essere in Atto» fa sì che un «Ente in Potenza» possa evolversi; l'argomento «Ontologico» diventa così «Teologico» per passare alla dimostrazione della «Necessità» dell'«Essere in Atto». 

Il «Divenire» è tale per cui ogni oggetto è mosso da un altro, questo da un altro ancora, e così via a ritroso, ma alla fine della catena deve esistere un «Motore Immobile», da cui derivi il movimento iniziale ma che a sua volta non sia mosso da altro, altrimenti la catena proseguirebbe nel raggiungimento di una «Causa prima». 

Dio è la «Causa prima» di ogni movimento: egli infatti è «Motore» perché è la meta finale a cui tutto tende, «Immobile» perché «Causa Incausata», essendo già realizzato in se stesso come «Atto Puro».

Tutti gli «Enti» risentono della sua forza d'attrazione perché l'essenza, che in costoro è ancora qualcosa di potenziale, in «Lui» giunge a coincidere con l'«Esistenza», cioè è tradotta definitivamente in «Atto»: il «Suo» essere non è più una possibilità, ma una «Necessità». In Lui tutto è compiuto perfettamente, e non v'è nessuna traccia del «Divenire», perché questo è appunto solo un passaggio. Non vi è neppure l'imperfezione della Materia che continua invece a sussistere negli «Enti» inferiori, i quali sono ancora una mescolanza, un insieme non coincidente di «Essenza ed Esistenza», di «Potenza ed Atto», di «Materia e Forma». 

Nella concezione cosmologica aristotelica Dio muove il cielo delle stelle fisse come «Causa Finale» non come «Causa Efficiente» che implicherebbe lo spostamento materiale per il movimento mentre Dio, «Atto Puro», è una realtà immateriale. 

La divinità poi non può avere contatti né interessarsi del mondo: essendo una «Realtà somma» non può occuparsi, sminuendosi, di una «Realtà inferiore»; quindi egli agisce ma come «Oggetto di Desiderio e Amore», come la cosa amata attira l'amante. Il Dio aristotelico può essere definito inoltre «Mente pura non frammista a Materia». Questa espressione sta ad indicare che Dio non può essere «Materia» (quindi potenzialità). Può essere «Atto» in quanto è un elemento attualizzato e concreto.


domenica 12 febbraio 2017

ARISTOTELE E L‘ANALISI DEI SIGNIFICATI DELL’ESSERE


Si è visto quali e quanti sono i molteplici significati dell’«essere». Due di questi significati, cioè l’«essere come accidente» e l’«essere come vero», nel libro VI della “Metafisica” sono esclusi dall’indagine. L’essere nel senso dell’accidente indica ciò che non accade né sempre né per lo più, ma solo «talora», cioè casualmente. Così, se nello scavare un campo si trova un tesoro, questo è un fatto del tutto accidentale. Quindi la causa dell’accidente non è determinabile, in quanto del tutto fortuita. Pertanto la filosofia prima, in quanto scienza, non può indagare la causa dell’accidente, cioè la ragione e la necessità di tale accadere. 

Del pari, dall’indagine è escluso lo studio del’essere nel senso di vero e del non essere nel senso di falso. Questo perché vero e falso «riguardano la connessione e la divisione di nozioni». È dunque il pensiero che unisce, nell’affermazione, o divide, nella negazione, certe nozioni, determinando così il vero o il falso. Ora «il vero e il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse il vero e il male fosse senz’altro il falso), ma solo nel pensiero» (Met., VI, 4).Vero e falso appartengono alla logica, non alla metafisica. Restano pertanto gli altri due significati come propri dell’indagine metafisica: L’«essere per sé o l’essere secondo le diverse categorie» e l’«essere come potenza e atto». 

L’essere per sé o l’essere nel significato delle categorie, a differenza dell’essere nel senso dell’accidente, che esiste solo per altro, indica l’essere che essenzialmente è. Questa è la “sostanza”. Le altre categorie, infatti, sono derivazioni o attributi della “sostanza”. Esse sono così enumerate: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire e patire, dove e quando. Ciascuno di questi predicati è essere in virtù della categoria della “sostanza”. Quest’ultima può esistere indipendentemente dai suoi predicati, mentre questi non lo possono. Tutto ciò è valido sul piano logico-ontologico. Fattualmente, però, la “sostanza” esiste sempre in rapporto a dei predicati. Così non esiste il bianco (qualità) se non in riferimento alla cosa che è bianca, o il camminare se non in rapporto a ciò che cammina. Il «ciò che» indica la “sostanza”. «Pertanto l’essere primo, ossia non un particolare essere, ma l’essere per eccellenza, è la sostanza» (Met., VII, 1). 

Essa è «prima» per la “nozione”, per la “conoscenza” e per il “tempo”: per la “nozione” in quanto la nozione di ogni categoria implica necessariamente quella di “sostanza”; per la “conoscenza”, in quanto riteniamo di conoscere una cosa solo quando rispondiamo alla domanda su che cos’è quella determinata cosa (cioè conosciamo in senso proprio quando determiniamo la sua essenza e non un suo aspetto particolare, ad esempio la qualità). Inoltre, la “sostanza” precede e fonda, anche sul piano temporale, ogni altra determinazione. «E in verità ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza”» (Met., VII, 1, 1028 b). 

A tale domanda, l’opinione comune risponde che l’«essere» o la "sostanza" sono i corpi, gli animali, le piante o gli elementi fisici che li compongono. Ma le sostanze sono «solamente» queste, oppure esistono anche sostanze soprasensibili? Così, se i filosofi ionici hanno sostenuto che sostanze sono quelle sensibili, Platone e i platonici ritengono sostanze in senso primario le forme e gli enti matematici e solo secondariamente e in senso limitato le realtà sensibili. Per rispondere a tale domanda, occorre considerare in generale la “sostanza” e i suoi significati. Parlando di “sostanza” o “ousía, noi intendiamo riferirci o all’essenza, o all’universale, o al genere o al sostrato. 

Con “sostrato  indichiamo «ciò di cui vengono predicate tutte le altre cose, mentre esso non viene predicato di alcun’altra». Queste caratteristiche spettano sia alla “materia” (ad esempio, il bronzo), sia alla “forma” (la configurazione data dallo scultore al bronzo), sia al “sinolo” o composto che risulta dall’insieme di materia e forma (la statua in quanto materia organizzata in una certa forma). 

Quando parliamo di «materia», ci riferiamo ad una realtà indefinita e indeterminata, che non è configurabile né come qualità né come quantità né come alcuna delle altre determinazioni. Quindi, se è vero che essa non si predica di altro e tutto si predica di essa, tuttavia essa non può sussistere senza la “forma”, né è qualcosa di per sé unitario; inoltre essa è solo potenza. Per tutti questi motivi, la “materia” è “sostanza” in senso debole. 

L’altro termine con cui si identifica la “sostanza” è la «forma». Con questo termine si intende il «che cos’è» di una cosa o la sua essenza (tò ti èn éinai), ciò per cui una certa realtà è quella e non altra: così la “forma” di un triangolo è data dal fatto che essa possiede alcune proprietà peculiari; l’essenza dell’uomo è il suo essere animale razionale. Esiste quindi un nesso fra ciò che si dà concettualmente come costante e le cose che realmente esistono. Se analizziamo il processo di costruzione di una casa, vediamo che: il costruttore possiede nel pensiero la “forma” della casa, sa che cos’è l’essere casa. In cero modo la casa ha origine da casa: da qualcosa di immateriale (il suo concetto) che genera qualcosa che include la “materia”. Ciò che permane senza la “materia”, in modo costante, è appunto l’essenza o l’esser quella cosa e non altro. 

La “forma è ciò che «informa» una certa “materia”. Come tale, essa è logicamente separabile da quest’ultima. Inoltre, talune sostanze esistono senza la “materia”. Infine, la “sostanza” nel senso della “forma” è sempre qualcosa di determinato (un tóde ti, dice Aristotele) e insieme determina e dà unità alla “materia”. La “sostanza” indica il “sinolo”, cioè il composto di “materia” e “forma”. Si tratta della cosa «individua» (realtà determinata, carattere che la distingue dalle altre) concretamente esistente, purché si tenga presente che anche la “sostanza” intesa come “forma” è «individua». L’universale, infatti, a differenza di quanto riteneva Platone, non può avere esistenza separata. Sotto quest’aspetto, l’«essenza e la cosa coincidono».  (ibidem, - Nella stessa opera – VII, 6, 1032 a), come ad esempio Socrate e l’essenza di Socrate. 

In merito alle caratteristiche delle sostanze sensibili singole non c’è né definizione né dimostrazione, in quanto esse hanno “materia” e la natura di questa è di poter essere e non essere, mentre la definizione concerne il necessario. Inoltre, le sostanze sensibili sono tutte corruttibili, mentre la dimostrazione verte su oggetti necessari. Dunque, delle cose sensibili non v’è scienza ma solo «sensazione». L’«ousía-éidos» di Aristotele non è dunque l’universale astratto, né l’universale esiste in sé, come realtà separata, bensì costituisce l’aspetto logico-astratto della “forma” ontologica che esiste solo nella realtà concreta. La “forma” in quanto pensata è l’«éidos», la specie. Come tale, è solo astrazione della mente. 

Ora analizziamo il significato dell’«essere come atto e potenza». Parlando della “materia”, si è visto che essa viene determinata come «potenza», cioè come capacità e insieme possibilità di ricevere la “forma”: il bronzo è la statua «in potenza», in quanto può effettivamente assumere la “forma” della statua. In questo senso, la “forma” è l’attuazione di quella possibilità, l’«atto». La realtà in cui entra come costituente la “materia” è sempre, in qualche misura, «potenza». L’«atto» come realizzazione della «potenza» indica il giungere al fine del divenire: in questo senso è “entelécheia”. Così, le cose che si risanano, mentre sono nel processo di risanamento, sono in movimento, cioè non hanno ancora raggiunto il «ciò in vista di cui» il movimento esiste. L’«atto» perfetto ( enérgeia) è quello al quale inerisce intrinsecamente il fine, come ad esempio il vedere e il pensare; così si vede e si è visto nel medesimo tempo, si pensa e si è pensato. Solo questo è l’«atto» compiuto. 

Ogni movimento è incompleto, solo l’«atto» indica il perfetto compimento. L’«atto» sul piano della conoscenza ha priorità sulla «potenza» giacché la «potenza» si può conoscere solo a partire dall’«atto». L’«atto» precede la «potenza» nella definizione: costruttore è colui che può costruire. L’«atto» è primo anche sul piano temporale: «sempre infatti ciò che è “atto” deriva da ciò che è in “potenza” ad opera di qualcosa che è in “atto”, per esempio l’uomo dall’uomo, l’uomo colto dall’uomo colto, a patto che ci sia ogni volta chi ha dato il primo impulso, e chi dà l’impulso è già in “atto”» (Met., IX, 8). 

L’«atto» precede la «potenza» anche sul piano della “sostanza”: quanto è detto venir dopo sul piano della genesi deve invece precedere sul piano della “forma” o della “sostanza”: così l’uomo è anteriore al fanciullo e al seme. L’«atto» è il fine e la «potenza» viene assunta in vista di questo. L’«atto» precede la «potenza» anche in quanto le cose eterne sono dette anteriori sul piano della “sostanza”, rispetto alle sostanze corruttibili. Un ruolo essenziale i concetti di «potenza e atto» giocano nella spiegazione del divenire, come si vedrà successivamente. 


sabato 4 febbraio 2017

ARISTOTELE E LA FILOSOFIA PRIMA COME SCIENZA DEGLI ASSIOMI


Gli “assiomi” che studia la filosofia sono quei principi o leggi che «valgono per tutti quanti gli esseri e non sono proprietà peculiari di qualche genere particolare di essere ad esclusione di altri. E tutti quanti si servono di questi “assiomi”, perché sono propri dell’essere in quanto essere e ogni genere di realtà è essere» (Met., IV, 3, 1005 a 22). 

Primo assioma è il “principio di non contraddizione”, così formulato: «È impossibile che la stessa cosa ad un tempo appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto»; o anche: «è impossibile a chicchessia credere che una stessa cosa sia e non sia», o: «è impossibile ad un tempo affermare e negare». 

Di due proposizioni contraddittorie una deve essere falsa. Il “principio del terzo escluso” afferma che non c’è alcun medio tra essere e non essere. Tale principio ha primariamente valore ontologico e può declinarsi in modo particolare in riferimento a ciascun aspetto specifico di realtà o scienza. Del “principio di non contraddizione” Aristotele afferma che è il principio più sicuro di tutti, perché intorno ad esso è impossibile cadere in errore. Inoltre è il più noto, non ha carattere ipotetico e deve essere posseduto da colui che vuole conoscere qualsiasi cosa. Dunque esso è immediatamente evidente. In quanto evidente, non può essere dimostrato: ogni dimostrazione infatti lo presuppone. Esso si pone solamente per via confutatoria o dialettica. 

La confutazione mostra, a partire da quanto afferma il suo negatore, l’impossibilità del costituirsi della negazione medesima. Per questo è sufficiente che chi nega il principio «dica qualcosa che ha significato per lui e per gli altri: e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa». Dire qualcosa e dire qualcosa di determinato è lo stesso. Si determina solo in quanto ciò che è così determinato è posto come se stesso e non altro. Dunque, senza il principio non è possibile alcun linguaggio, dialogo o pensiero. Senza il principio neppure è possibile agire. Chi nega il principio, nega i significati o li riduce a uno: vero e falso, giusto e ingiusto si identificano.