domenica 29 ottobre 2017

PLOTINO: IL DESTINO DELL’ANIMA E LE VIE DEL RITORNO


Come per Platone e Aristotele, anche per Plotino l’«Uno» non ama il mondo, ma è amato dal mondo; sono quindi assenti le condizioni per le quali l’«Uno» voglia salvare il mondo direttamente o mediante un salvatore come nel cristianesimo. L’«Uno» dona ogni bene all’altro da sé con la stessa necessità con cui la luce diffonde la sua luminosità su tutte le cose. Sono invece il mondo e l’uomo nel mondo ad essere attratti dall’«Uno» e a volgersi all’«Uno» spogliandosi della propria mondanità e umanità. Non è quindi al cristianesimo, ma all’insegnamento delle “Upanisad”, in cui si esprime la sapienza d’Oriente, che si rifà l’ascesi di Plotino come itinerario dell’anima per il ricongiungimento con l’«Uno». 

In questo itinerario, che è tanto un’ascesi quanto un’ascesa, l’anima si risveglia dal sogno che l’aveva portata nel mondo. In ciò è la sua resurrezione che, precisa Plotino contro il cristianesimo, è «dal corpo e non col corpo», perché risorgere col corpo equivale a cadere da un sogno all’altro. 

Le vie del ritorno sono tracciate dalla «bellezza», dall’«amore» e dall’«estasi». La “bellezza” consente di passare dall’immagine sensibile all’idea universale di cui l’immagine è rivelazione. Non chiudendosi in se stessa, ma rinviando ad altro, l’immagine è quel mezzo (metaxú) che consente all’anima di risalire o di ritornare all’«Uno» da cui è discesa. Il ritorno all’«Uno», infatti, è percorribile solo mediante un ritorno a se stessi. Le tappe del ritorno a Dio sono dunque le tappe della progressiva interiorizzazione dell’Uomo. Lo stesso dicasi dell’ “amore” che è passione che deriva dall’atto della visione: “éros” da   “órasis” (Enneadi, III, 5, 3). 

Se l’ “amore” considera la bella apparenza non come espressione di sé, ma come rinvio ad altro da sé, allora è iniziazione dello spirito e via all’intelligibile. Se l’ “amore” è per sua natura irrequietezza e perenne insoddisfazione, come voleva il mito platonico di “Eros” figlio di Povertà e di Acquisto, ciò vuol dire che anche nelle sue forme inferiori è condizionato dall’oscura presenza dell’«Uno» che lo incalza oltre ogni limite. Ma se la “bellezza” e l’ “amore” avvicinano all’«Uno», solo l’ “estasi”, il distacco da sé (ék-stasis) concede quell’intimo contatto (prosbolé) che è unione assoluta con l’unità originaria. 

Qui l’anima si spoglia della sua autocoscienza individuale, come da un’amara eredità di cui è bello essere liberati, e si “perde” nell’«Uno». Separandosi (ék-stasis) dal sensibile, dal razionale e dall’individualità personale, l’ “anima” ripercorre a ritroso i gradi dell’emanazione, rigettando ogni forma di molteplicità (áfele pánta) per ritirarsi nell’«Uno». Siccome poi l’«Uno» non è oggetto, l’ “anima” può congiungervisi solo ritrovandolo in se stessa, o, come dice Plotino, nel suo centro profondo (Kéntron tés psychés): «Essere solo in se stessa e non nell’essere, vuol dire essere in Dio» (Enneadi, VI, 9, 11). 

Plotino rappresenta la vetta speculativa più elevata di un vasto movimento di pensiero che, ispirandosi a Platone – donde il nome di “neoplatonismo” – tenta di comporre in modi più o meno originali la “ricerca filosofica” con la “tradizione religiosa”. E così, mentre nella Grecia antica la “ricerca filosofica” era nata come volontà di liberazione dalle tradizioni, dai costumi e dalle opinioni stabilite, con la prevalenza dell’interesse religioso, che si registra nell’età illuministica, la “tradizione” riprende i suoi diritti affermandosi come garanzia di una verità che non è più il prodotto di una ricerca, ma il frutto di una rivelazione originaria. 

Nota finale 

Il neoplatonismo, di cui Plotino fu il più significativo rappresentante, rientra nel vasto movimento sincretistico dell’epoca (III-V sec. d.C.); utilizzando il complesso delle idee platoniche, il nuovo sistema filosofico fuse con originalità elementi delle varie correnti di pensiero, non rimanendo insensibile alle istanze mistiche e gnostiche dell’Oriente.  

              

domenica 15 ottobre 2017

PLOTINO E LE TRE IPÓSTASI


Il pensiero conosce solo in quanto definisce, distingue e discrimina, cioè solo in quanto si articola in seno alle distinzioni logiche e alla molteplicità. Ma nel pensiero si avverte una tensione che trascende ogni oggetto finito e ogni sistemazione raggiunta. Questa tensione porta al di là delle distinzioni inaugurate dal pensiero verso quell’«Uno in sé» che, non potendo essere raggiunto da alcuna conoscenza e da alcun linguaggio, perché questi hanno sempre come contenuto la distinzione che è separazione, è inconoscibile e inafferrabile (ágnoston kaì árreton). 

La speculazione di Plotino non prevede soltanto, come il dialogo platonico, la presenza di un “lógos” razionale e definibile, ma anche e soprattutto una totalità inesprimibile che condiziona gli atti intellettivi e ne è insieme la conclusione e il fine. A differenza del misticismo di provenienza orientale, che aveva percorso alcuni dei molteplici filoni gnostici, il misticismo di Plotino non è solo il culmine della sua filosofia, ma ne è la condizione vitale; l’«essere» nel suo fondo è mistero, ma non si arriva a “ri-conoscere” il mistero se prima non si “conosce” il senso dell’«essere». 

Il pensiero (Nous) che pensa l’«Uno» si pone fuori di esso, perché già vive l’ “alterità” di pensante e pensato. Il pensiero è l’«ipostasi» generata dalla sovrabbondanza dell’«Uno». «Ipostasi» è parola greca che significa «ciò che sta sotto», e il pensiero è appunto ciò che sta sotto la molteplicità delle idee che, nel loro insieme, costituiscono il “mondo noetico” che vive dell’ “alterità” tra pensante (Nous) e pensato (Einai).

ll Dio che Aristotele concepiva come pensiero del pensiero (nóesis noéseos) viene così da Plotino depotenziato a seconda ipostasi, dopo quella originaria dell’«Uno in sé» che non ospita distinzioni. Dal pensiero procede l’anima (psyché) che non rende ragione né dell’unità né dell’intelligibilità, ma della vita e del movimento. Essa quindi non è né l’«Uno» né il «Nous», ma quell’intermedio (metaxú) tra l’«essere» e la realtà sensibile che da lui procede. L’anima, infatti, è l’ultima delle ipostasi; dopo di lei non c’è che apparenza e «non-essere». 

La doppia concezione che Platone ha dell’anima come capacità di astrarre dal sensibile per cogliere le idee nella loro essenza (Fedone e Repubblica), e come principio psichico che genera vita (Fedro e Simposio) trova il suo sviluppo nella speculazione di Plotino dove l’anima, in quanto dipende dal Nous e ne partecipa, è soggetto di conoscenza e, come tale, si inserisce nel mondo noetico che è fuori del tempo, mentre, in quanto è per sua natura principio di vita, diventa condizione del processo generativo che si svolge nel tempo. 

Il mondo sensibile è opera dell’anima che, come un inconscio artefice, molto simile al demiurgo di Platone, mentre contempla essenze intelligibili plasma parvenze corporee. Essa è natura (phýsis), e poiché la sua potenza produttiva si esplica in una successione di atti e movimenti, il tempo sorge insieme con essa. Non c’è quindi tempo nell’«Uno» originario e nel Nous che presiede il mondo delle idee eterne. 

Al limite estremo dell’emanazione divina incontriamo la materia che non è un’ipostasi, una realtà sostanziale, ma è quel «non-essere», quella mancanza di realtà simile alla tenebra che si produce per mancanza di luce. Se l’«Uno» è ineffabile perché è al di là di ogni definizione e distinzione, la materia è indefinibile per difetto di determinazioni. Essa è «pura aspirazione all’esistenza» che acquista spessore solo perché l’anima, per la sua parte inferiore, è cieca tensione verso l’esteriorità, è desiderio di perdersi nel mondo. In questa tensione e in questo desiderio è il male che, al pari della materia che lo ospita, non esiste come realtà opposta al bene, ma solo come privazione del bene. E l’uomo come non può pensare il «non-essere» assoluto, così non può volere il male assoluto (Ennedi, IV, 9, 11). 


    

sabato 7 ottobre 2017

LA FILOSOFIA DI PLOTINO (PREMESSA)


La filosofia di Plotino, che rappresenta l’ultima grande sintesi del pensiero greco, ha in comune con la gnosi uno sfondo di consonanze con la saggezza d’Oriente, ma, a differenza del pensiero gnostico, la «convergenza» si esprime in Plotino come «traduzione» della sapienza orientale nelle categorie tipiche del pensiero greco. 

L’espansione dell’impero aveva convogliato a Roma, dove Plotino insegnava nella prima metà del III secolo d.C., una serie di credenze astrologiche, di pratiche teurgiche e di appelli a esperienze mistiche che Plotino accolse ricodificandole in una costruzione filosofica in grado di giustificare razionalmente il valore di un atto surrezionale (nel diritto canonico, reticenza nella esposizione dei fatti commessa nella richiesta di un rescritto, di un  responso scritto dell’autorità ecclesiastica relativo alla concessione di una grazia o alla soluzione di una controversia) che consentisse di approdare all’ineffabilità dell’«Uno» originario. 

Questo itinerario, che è identico a quello che animava la speculazione gnostica, viene purificato da quella profusione di immagini e da quella foresta di simboli attraverso cui la gnosi si era espressa, e ancorato alla dottrina del Bene-Uno che Platone aveva tratteggiato nel “Parmenide”. Di qui la denominazione di “Neoplatonismo” che risponde da un lato all’intenzione di Plotino che si propone come semplice esegeta della filosofia di Platone (Ennedi, I, 8), dall’altro al significato teoretico e storico che la sua filosofia andrà assumendo come riproposta del primato del pensiero greco, o più semplicemente platonico, rispetto alle altre forme di fede e di speculazione. 

L’esigenza dell’unità originaria era stata promossa nel pensiero greco dalla speculazione di Parmenide e dalla dottrina pitagorica della “monade”. Con Platone il problema dell’«Uno» viene fatto reagire con l’esperienza del «molteplice» le cui espressioni che vanno dalle «idee» come fondamento dell’intelligibilità delle cose, alle «anime» come principio della vita e del movimento, alla «materia» come matrice irrazionale delle apparenze, offrono a Plotino le strutture del suo impianto metafisico che trova la sua interna connessione nella dottrina dell’«emanazione» (apórroia) che salva l’unità e la continuità delle distinzioni. 

Per Platone e Aristotele, Dio e la materia erano infatti due principi originari, non connessi tra loro da alcun principio creazionistico. Ciò determinava da un lato che, se la materia è indipendente da Dio, Dio “manca” di qualcosa, e, in quanto mancanza, non può essere, per usare i termini aristotelici, «atto puro», ma «essere in potenza» rispetto alla materia che gode di una sua entità e indipendenza. Per risolvere questa contraddizione Plotino introduce il concetto di “emanazione”, per cui la materia «procede» da Dio non per un “atto creativo”, ma per un atto che potremmo definire “diffusivo”. La «creazione», infatti, implica una “produzione dal nulla”, e per Plotino, così come per l’intera mentalità greca, dal nulla non viene nulla ( ex nihilo nihil fit).  

La processione della materia da Dio avverrà allora per “emanazione” simile alla luce che si espande intorno alla fonte luminosa, al calore che si diffonde intorno al corpo caldo, al profumo che si diparte dal corpo odoroso affievolendosi col progressivo distanziarsi. La materia è l’estremo limite del propagarsi della luce che emana dall’«Uno» originario e che “non può non emanare”, essendo la luce di per sé diffusiva. In tal modo l’instaurarsi delle differenze non contraddice l’esigenza dell’unità e quindi la continuità (sunécheia) del reale.