sabato 15 luglio 2017

ARISTOTELE E LA POETICA


Il testo dellaPoetica benché breve e frammentario risulta una delle principali opere dello Stagirita. Esso è stato ripreso e studiato a partire dal Rinascimento, dopo la pubblicazione della traduzione latina di L. Valla. Tuttavia era conosciuto e commentato già dagli studiosi arabi e siriaci. 

Nello schema aristotelico delle scienze, questa parte rientra nelle “scienze poetiche” o “produttive”, il cui fine è la produzione di un oggetto. Tali scienze concernono tutte le tecniche o arti che nel loro operare completano e imitano la natura. Oggetto della poetica sono «le arti belle», sprovviste di un’utilità pratica. «L’epopea e la tragedia, come pure la commedia e la poesia ditirambica (canto corale), e gran parte dell’auletica (arte di suonare l’aulos , strumento solista) e della citaristica (L'arte di suonare la cetra ), tutte quante considerate da un unico punto di vista, sono “mímesis” (o arti di imitazione). Ma differiscono tra loro per «tre» aspetti: e cioè in quanto o imitano con mezzi diversi, o imitano cose diverse, o imitano in maniera diversa e non allo stesso modo» (I, 1)

Vi sono quindi arti che «imitano» per mezzo del colore o della forma, o mediante la voce, come avviene nella poesia, o nel suono come nella musica. I mezzi della “mimesi” sono costituiti dal ritmo, dal linguaggio e dalla melodia, che hanno a che fare con la successione temporale, mentre pittura e scultura si riferiscono allo spazio. 

Dall’intreccio fra i diversi elementi si generano le differenti forme di arte. Qual è il significato di “mimesi”, elemento che unifica tutte le arti? Il concetto di “mimesi” era stato introdotto da Platone per caratterizzare il rapporto intercorrente tra la realtà sensibile, imitazione o copia della realtà intelligibile, e, in quanto copia, sprovvista di vera consistenza ontologica, e l’arte. Infatti le arti belle in quanto a loro volta imitazione di copie (le realtà sensibili) sono tutte condannabili, poiché allontanano dalle “idee” producendo solo simulacri. 

In Aristotele, al contrario, oggetto della “mimesi” sono «caratteri, casi e azioni», cioè disposizioni morali, in altri termini quanto agli uomini accade e quanto gli uomini fanno. Suo oggetto è allora il mondo dello spirito umano, come osserva Ross. Inoltre, nonostante manchi in Aristotele una definizione esplicita del concetto di “mimesi”, tuttavia lo Stagirita offre di essa una caratterizzazione sufficiente quando tratta delle diverse forme di arte. 

L’imitazione non si caratterizza in termini di registrazione passiva, bensì di creazione. «Ufficio del poeta non è descrivere cose realmente accadute, bensì quali possono (in date condizioni) accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della “verisimiglianza” o della “necessità”. Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa (…); la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare» (Poe., 9, 1451 a 36 sgg.). 

Come si evidenzia dal testo, il poeta non descrive fatti, ma crea situazioni possibili e verosimili. Inoltre, il poeta raggiunge una qualche forma di universalità, sia pure a partire da un determinato individuo che nel suo agire rappresenta pur sempre un verosimile. Non si tratta quindi di un universale logico-conoscitivo, ma dell’universale poetico. Colui che esercita la “mimesi” imita persone che agiscono, «e queste persone non possono essere che nobili o ignobili», cioè o uomini migliori di noi o peggiori o come noi. La tragedia descrive caratteri migliori, la commedia peggiori. E tali imitazioni possono essere o in forma narrativa (epica) o in forma drammatica (tragedia). 

L’origine della poesia risiede nell’istinto di imitazione proprio dell’uomo, da un lato, e dall’altro, nella «tendenza a imitare (mediante il linguaggio) l’armonia e il ritmo». Inoltre, «non sarà certo l’immagine sua in quanto ne sia la fedele imitazione che ci recherà diletto, ma ci diletteranno l’esattezza dell’esecuzione, il colorito o qualche altra causa di simil genere». È chiaro quindi che preminente non è il contenuto, ma la forma della creazione artistica. 

Così, la commedia è «imitazione di persone più volgari dell’ordinario; non però volgari di qualsivoglia specie di bruttezza (o fisica o morale), bensì di quella sola specie che è il ridicolo: perché il ridicolo è una partizione speciale del brutto. Il ridicolo è qualche cosa come di sbagliato e di deforme, senza essere però cagione di dolore e di danno. (Poet., V). 

La tragedia, al contrario, è «mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; (…) la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni» (Poet., VI). La “purificazione” o “catarsi”, della quale Aristotele tratta, non ha il significato morale di una eliminazione delle passioni, quanto di un decantamento delle passioni in modo da sollevare le anime e da far loro provare piacere. E per Aristotele il piacere che sorge dalla “catarsi” è quello prodotto dalla liberazione dalla pietà e dalla paura, in altri termini si tratta di “piacere estetico”. 

Nota finale 

Come già per Platone anche per Aristotele l’arte è “mimesi”, ma non perché copia e ricalco della realtà, bensì in quanto rappresentazione idealizzata e universalizzata della vita, intesa nei suoi movimenti e aspetti più significativi. Capovolta l’interpretazione platonica, Aristotele riconosce all’espressione artistica, in particolare al «dramma» e alla «musica», un potere “catartico”, liberatorio, che, scaricando dall’emotività, produce negli spettatori un diletto assai vicino al piacere estetico.  


   

sabato 8 luglio 2017

ARISTOTELE E LE TRASFORMAZIONI DELLO STATO


Nel V libro della “Politica, Aristotele prende in esame le cause che portano alla trasformazione o alla rovina delle rette costituzioni, servendosi di una grande mole di informazioni storiche. La causa generale viene ravvisata dal fatto che, se tutti sono d’accordo nel porre alla base degli Stati un concetto di eguaglianza proporzionale, tuttavia lo applicano in modo scorretto. Così, la “democrazia” demagogica sorge «dall’idea che quanti sono uguali per un certo rispetto, siano assolutamente uguali (e in realtà, per il fatto che sono tutti ugualmente liberi pensano di essere assolutamente uguali), l’ “oligarchia” dalla supposizione che quanti sono disuguali sotto un certo rispetto siano del tutto disuguali (e in realtà essendo disuguali nel possesso della proprietà suppongono di essere assolutamente disuguali). Perciò gli uni, essendo uguali, ritengono giusto partecipare in ugual misura di ogni cosa, mentre gli altri, essendo diseguali, cercano di aver sempre di più, e il di più è diseguale» (V, 1). «Dovunque la ribellione nasce da diseguaglianza», e dunque quest’ultima è da considerarsi la causa del’’instabilità degli Stati. 

La “democrazia, sotto questo rispetto, è più solida e maggiormente al riparo dalle ribellioni, mentre la costituzione fondata sulla classe media è quella più sicura di tutte. Ma lo Stato si mantiene stabile se si conserva lo spirito di obbedienza alla legge e se non si consente a nessuna classe in particolare di diventare troppo forte. Ma l’elemento di gran lunga più importante, afferma Aristotele, è dato dal sistema di educazione rispondente alla costituzione. 

Il problema della costituzione migliore è da Aristotele affrontato in connessione con la questione della migliore vita desiderabile. La cosa più importante per l’individuo, e quindi anche per lo Stato, è la vita secondo virtù, provvista dei mezzi adatti a compiere azioni virtuose. Fra le condizioni dello Stato ideale, occorre innanzi tutto tener conto della popolazione; tale Stato deve avere «un numero tale di abitanti che sia il minimo indispensabile in vista dell’autosufficienza per un’esistenza agiata in conformità delle esigenze di una comunità civile». 

E poiché in questo Stato tutti devono partecipare alla vita e alle cariche politiche, esso deve poter essere abbracciato in un unico sguardo, cioè non essere troppo vasto. Così il territorio deve consentire una vita libera e piacevole, ma non essere così esteso da spingere al lusso. Gli abitanti dovrebbero avere il carattere degli Elleni, che possiedono il coraggio dei popoli del Nord e l’intelligenza dei popoli dell’Asia; perciò questa gente «vive continuamente libera, ha le migliori istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti, qualora raggiunga l’unità costituzionale» (VII, 7). 

Lo Stato deve avere, per raggiungere le proprie finalità, coltivatori, artigiani, militari, sacerdoti e giudici. Ma non tutto ciò che è indispensabile per la vita dello Stato è insieme parte dello Stato. Così i lavoratori manuali non hanno la virtù politica, mentre i coltivatori non hanno il tempo per esercitarla. 

L’ultima parte della “Politica è interamente dedicata all’ “educazione”. Infatti, la virtù dipende da «tre» fattori: natura, abitudine e ragione. L’ “educazione” concerne l’abitudine e la ragione. E poiché lo Stato è costituito da chi comanda e da chi è comandato, anche l’ “educazione” dovrà incentrarsi su questo aspetto essenziale. Ogni cittadino deve imparare innanzi tutto ad obbedire e quindi a comandare. L’ “educazione” dovrà pertanto formare uomini buoni e buoni cittadini, secondo l’ideale già delineato nell’ “Etica”. Infine, l’ “educazione” dovrà essere impartita dallo Stato, prendere il suo avvio dall’ “educazione” del corpo, e proseguire con l’ “educazione” degli impulsi e degli appetiti, per avere il suo coronamento con la formazione della ragione.  

  

domenica 2 luglio 2017

ARISTOTELE E LE FORME DI COSTITUZIONE


Che cos’è la “costituzione”? «La costituzione è l’ordinamento delle varie magistrature di uno Stato e specialmente di quella che è sovrana suprema di tutto: infatti, sovrana suprema è dovunque la suprema autorità dello Stato e la suprema autorità è la costituzione» (Pol., III, 6). 

Nelle democrazie, sovrano è il popolo; nelle oligarchie, la sovranità spetta ai pochi ricchi. Ora lo Stato esiste solo in vista dell’interesse comune. «È evidente quindi che quante costituzioni mirano all’interesse comune sono giuste in rapporto al giusto in assoluto, quante, invece, mirano solo all’interesse personale dei capi sono sbagliate tutte e rappresentano una deviazione dalle rette costituzioni: sono pervase da spirito di dispotismo, mentre lo Stato è comunità di liberi» (Pol., III, 6). 

Esistono pertanto diverse forme di costituzione giuste, nel senso sopra precisato. Queste sono la “monarchia”, l’ “aristocrazia”, la “politía”; loro degenerazioni sono rispettivamente la “tirannide”, l’ “oligarchia” e la “democrazia” nel senso deteriore. Si ha invece la “politía”, «quando poi la massa regge lo Stato badando all’interesse comune» (III, 7). Nella “tirannide”, prevale l’interesse del monarca; l’ “oligarchia” privilegia l’interesse dei ricchi, la “democrazia” l’interesse dei poveri: al vantaggio della comunità invece non bada nessuna di queste forme costituzionali. 

Pertanto, perché vi sia una forma costituzionale adeguata, occorre che nello Stato sia prevalente la classe media, come avviene nella forma da Aristotele privilegiata, la “politía”. Lo Stato è costituito non in vista della ricchezza, né solo come alleanza militare, né allo scopo di commerciare, né per semplice comunanza di luogo: «tutto questo necessariamente c’è, se deve esserci uno Stato, però non basta perché ci sia uno Stato: lo Stato è comunanza di famiglie e di stirpi nel vivere bene: il suo oggetto è un’esistenza pienamente realizzata e indipendente (…). È proprio in grazia delle opere belle e non della vita associata che si deve ammettere l’esistenza della comunità politica» (III, 9). 

Qui si allude a una comunità politica che vede la partecipazione dei molti al potere. A differenza di Platone, Aristotele difende la forma democratica corretta. Molte persone, prese nella loro totalità e non singolarmente, sono infatti superiori ai pochi eccellenti. «In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza». 

A ciò deve aggiungersi il pericolo dell’esclusione della massa dalle cariche. Inoltre, «le leggi rettamente emanate devono essere sovrane e chi detiene il potere, sia uno o siano più, è sovrano in tutti quei casi in cui le leggi non possono pronunciarsi con esattezza, perché non è facile emanare norme generali per tutti i casi» (III, 12). 

Certo, soggiunge Aristotele, se esistesse uno (o pochi) «tanto diverso per virtù o per capacità politica: come un Dio tra gli uomini è naturalmente un uomo siffatto». Per simili uomini non c’è vincolo o subordinazione alla legge; «sono essi la legge e sarebbe ridicolo chi cercasse di redigere una legislazione per loro» (III, 13). Ed è proprio per questo che gli stati retti a “democrazia” hanno l’ «ostracismo» (istituzione giuridica della democrazia ateniese volta a punire con un esilio temporaneo di 10 anni coloro che avrebbero potuto rappresentare un pericolo per la città): perseguono infatti l’eguaglianza e per questo bandiscono quanti mostrano di possedere eccessivo potere o a causa della ricchezza o per altri motivi. 

Perciò, conclude Aristotele, occorre operare per favorire nello Stato la presenza di una classe media. Infatti, «lo Stato vuole essere costituito, per quanto è possibile, di elementi uguali e simili, il che succede soprattutto con le persone di ceto medio». Questo ceto evita i pericoli di quegli Stati dominati o da chi possiede troppo o da chi non possiede niente, Stati per questo motivo esposti ai pericoli della “tirannide”, della “oligarchia” o della “democrazia” sfrenata. Solo il ceto medio consente di mantenere l’uguaglianza.