sabato 27 maggio 2017

ARISTOTELE E LA POLITICA (PREMESSA)


Si è avuto modo di osservare, trattando del rapporto tra “etica” e “politica”, come quest’ultima si ponga come la scienza più elevata e dominante. La stessa “felicità” si raggiunge solo in quanto si pervenga all’autosufficienza. «Noi intendiamo per autosufficienza non il bastare a sé solo di un individuo, che conduce una vita solitaria, ma anche il bastare ai suoi parenti, ai figli, alla moglie e infine agli amici e concittadini, poiché per natura l’uomo è un essere politico» (Eth. Nic., I, 7). 

Quindi la vita dell’uomo nella comunità non è frutto di scelta o di convenzione, ma determinazione «naturale», in quanto risponde alla natura o essenza dell’uomo. Ora la comunità perfetta è lo Stato, nel quale sono comprese e realizzate tutte le altre forme di comunità. Contro le tesi di sofisti come Licofrone o Trasimaco, che intendono lo Stato come costruzione artificiale e convenzionale fondata sulla scelta del singolo, e contro le concezioni anticomunitarie dei cinici, che esaltano l’autosufficienza del saggio e insieme la sua antipoliticità, Aristotele sottolinea il carattere intrinseco alla più profonda natura dell’uomo che riveste lo Stato. 

Contro ogni forma di individualismo, Aristotele pone in evidenza, affrontando il problema della genesi dello Stato, come gli elementi semplici che si ritrovano scomponendo quel complesso che è lo Stato non siano costituiti da individui, bensì sempre e soltanto da forme più elementari di comunità. Infatti, «è necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati l’uno dall’altro, per esempio la femmina e il maschio in vista della riproduzione (e questo non per proponimento, ma come negli altri animali e nelle piante è impulso naturale desiderare di lasciare dopo di sé un altro simile a sé) e chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione (Politica, I, 2), cioè il “padrone” e lo “schiavo”. 

Queste due comunità quindi si costituiscono e si intrecciano fino a formare la “famiglia”, assicurando la prima la riproduzione, la seconda il sostentamento. Inoltre, nella “famiglia” si dà la relazione tra padri e figli. Le famiglie si uniscono fra di loro per costituire il villaggio, mentre «la comunità che risulta di più villaggi è lo Stato perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. Quindi ogni Stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità: infatti esso è il loro fine e la natura è il fine: per esempio, quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa. Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il fine è il meglio e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste considerazioni è evidente che lo Stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo (…) E per natura lo Stato è anteriore alla “famiglia” e a ciascuno di noi perché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto, non ci sarà più né piede né mano se non per analogia verbale (…). È evidente dunque che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza è o bestia o dio» (Politica, I, 2). 

Lo Stato quindi, che dal punto di vista storico genetico compare alla fine del processo che prende l’avvio dalle comunità elementari, in quanto fine e forma che sorregge e guida l’intero processo, è ontologicamente primo. Tale è anche in virtù del suo essere “forma totale” della quale le parti sono solo dei momenti. Questi momenti, individui e comunità elementari, solo nel tutto possono esistere: infatti solo in esso acquistano la loro autosufficienza. Quest’ultimo concetto inoltre orienta il processo, che si compie solo in quanto si realizza l’autosufficienza. L’autosufficienza a sua volta consiste non semplicemente nella capacità di dare risposta ai bisogni elementari, cioè al vivere, bensì al «vivere bene», cioè ad una vita completa secondo le più elevate esigenze intellettuali e morali dell’individuo. Lo Stato pertanto non è né costrizione né limitazione, bensì ciò che consente il pieno realizzarsi e il massimo sviluppo storicamente possibile della libertà dell’individuo. Inoltre, lo Stato non nega né la “famiglia” né le altre forme di comunità, bensì esso sussiste, come dice Alf Ross, «come comunità di comunità». 

Nota Finale 

l’uomo, per natura animale politico, realizza se stesso e la propria virtù nella vita associata, nello Stato che, configurandosi come il «tutto», dà senso e giustificazione alle parti, famiglia e villaggio. Dice Aristotele: «Chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o è una belva, bestia o un dio». 




domenica 14 maggio 2017

ARISTOTELE E LE VIRTÙ DIANOETICHE


Si è visto in precedenza che la “virtù etica” consiste nel “giusto mezzo” quale prescrive la «retta ragione». Si tratta ora di esaminare più da vicino le virtù della parte razionale dell’anima. Quest’ultima, secondo Aristotele, ha due funzioni a seconda che si riferisca alla conoscenza delle realtà necessarie oppure a quella delle realtà contingenti, che non solo possono essere o non essere, ma anche essere diversamente. La prima parte o funzione dell’anima razionale costituisce la “ragione teoretica”, l’altra la “ragione pratica”. Della prima fanno parte la sapienza, l’intelletto, la scienza. La parte “pratica” concerne per un verso la “práxis” in senso stretto ossia l’agire etico e politico, per altro la “póiesis”, cioè l’agire produttivo. 

Dei tre elementi che sono nell’anima, «sensazione, ragione, desiderio», la «sensazione» non determina mai l’azione, mentre appetito e ragione la determinano in modi differenti. Infatti la “virtù morale” è disposizione a scegliere, e la scelta è un desiderio deliberato. Quindi l’azione comporta il desiderio di un fine, mentre la ragione calcola e sceglie i mezzi che sono necessari al raggiungimento di un fine. Tuttavia entrambe le parti dell’anima razionale hanno per oggetto la «verità», l’una la “teoretica”, l’altra la “pratica”. Quest’ultima consiste nel giusto appetire. 

L’uomo in quanto espressione di desiderio e di ragione produce quindi l’agire. Virtù della parte “pratica” è la «saggezza» (phrónesis). Essa consiste «nel saper deliberare bene intorno alle cose che sono per lui buone e giovevoli non in particolare (ad esempio, quali cose siano buone o giovevoli per la salute e la forza), bensì quali lo siano in generale per vivere bene (…). Resta che essa sia una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e male per l’uomo» (Eth. Nic., VI, 5). Quindi occorre conoscere quale sia il fine per l’uomo, mentre la «saggezza» delibera solo in riferimento ai mezzi per giungere al fine. «La virtù rende retto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi» (ibidem - nella stessa opera -, VI, 12). Ora senza la «saggezza» non vi può essere “virtù etica”, ma nello stesso tempo non v’è «saggezza» senza la “virtù etica”, proprio perché la «saggezza» si rivolge ai mezzi per conseguire il bene morale. 

La sapienza (sophía), che risulta essere sintesi di intelletto e scienza, costituisce la virtù più elevata, in quanto ha per oggetto la realtà più elevata e divina. La «felicità» consiste dunque nell’attività conforme alla virtù più elevata, cioè nella vita contemplativa. «Questa attività è infatti la più alta: infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle cui si riferisce il pensiero. Ed è anche l’attività più continua (…). Pensiamo poi che alla felicità debba essere congiunto il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è quella relativa alla sapienza; sembra infatti che la filosofia apporti piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi conosce che non per chi ancora ricerca il vero. E l’autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’attività contemplativa (…). 

Inoltre, sembra che l’attività contemplativa sia la sola ad essere amata per se stessa; infatti da essa non deriva alcun altro risultato all’infuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più o meno importante, oltre all’azione stessa (…). Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme ad esso sarà divina in confronto alla vita umana». Dunque questo modo di vita sarà il più felice: e di tanto si estende la speculazione, di tanto si estende la felicità. Conformemente all’ideale greco che privilegia il vedere sull’agire, la teoria sulla prassi, la vita speculativa del filosofo costituisce il più alto raggiungimento del fine proprio dell’uomo. Ma questo fine si realizza solo nel vivere comune, cioè nella “polis”. Quindi occorre ora prendere in esame il problema della “politica”. 

domenica 7 maggio 2017

ARISTOTELE E LE VIRTÙ ETICHE


Come si produce la “virtù etica? Secondo Aristotele, «essa deriva dall’abitudine, da cui trae anche il suo nome (êthos)». Queste virtù non sorgono in noi per natura, né contro natura, «bensì esse nascono in noi, che, atti per natura ad accoglierle, ci perfezioniamo attraverso l’abitudine». Per acquistare queste virtù, noi dobbiamo esercitarle, così come avviene anche nel campo delle tecniche: infatti, così come diventiamo costruttori con il costruire le case, ed è col suonare la cetra che diventiamo citaredi (nell'antica Grecia, poeti che cantavano accompagnandosi con la cetra), «così altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate diventiamo moderati, facendo cose coraggiose coraggiosi». In negativo, è facendo cose viziose che diventiamo viziosi. 

Quindi la disposizione presente in noi si realizza attraverso l’attività fino a divenire abitudine positiva o negativa, cioè “virtù” o “vizio”. «Segno delle disposizioni acquisite dev’essere il piacere o il dolore che sopraggiunge a seconda delle nostre azioni: così chi si astiene dai piaceri del corpo e gode proprio di ciò, è davvero moderato, chi invece se ne cruccia, è intemperante; e chi affronta i pericoli e ne gode o non se ne addolora è coraggioso, chi se ne addolora è vile. Infatti la “virtù etica” è in relazione con i sentimenti di piacere e di dolore» (ibidem - nella stessa opera -, II, 2). 

Con la pena e il dolore si corregge insieme l’anima viziosa. Tale tendenza in sé non è né buona né cattiva, ma va subordinata alla giusta regola imposta dalla parte razionale dell’anima. Riprendendo l’apparente paradosso, secondo cui per diventare giusti occorre praticare la giustizia, ma insieme sembra che occorra già essere giusti per fare azioni giuste, Aristotele chiarisce che, a differenza delle tecniche, dove i prodotti, ovvero il risultato dell’attività, hanno valore in se stessi, «invece nel caso delle virtù non è sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si agisca con giustizia o con moderazione, bensì occorre che chi le compie lo faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di se stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile». 

Solo a queste condizioni si tratta di “virtù”. Che cos’è allora la “virtù”? Intanto essa non è un sentimento, come il desiderio del piacere, dov’è assente la scelta; né è semplicemente una capacità, giacché questa potrebbe anche non essere sviluppata. La “virtù” fa invece parte delle “disposizioni”. In generale, «ogni virtù, a seconda delle qualità di cui essa è virtù, perfeziona questa e rende buono il risultato». Per questo, essa deve tendere al “giusto mezzo”, che non indica una via medica empirica, quanto il raggiungimento del termine perfetto di equilibrio, cioè il culmine e l’eccellenza. Così, «se noi proviamo quelle passioni quando si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si deve, allora saremo nel mezzo e nell’eccellenza, che son propri della virtù (…). Dunque la virtù è una certa medietà, che ha come scopo il giusto mezzo (…). La virtù è quindi una disposizione del proponimento, consistente nella medietà rispetto a noi stessi, definita dalla ragione e come l’uomo saggio la determinerebbe (…). Perciò secondo la sua essenza e secondo la ragione che stabilisce la sua natura, la virtù è una medietà, ma rispetto al bene e alla perfezione, essa è al punto più elevato» (ibidem - nella stessa opera -, II, 6). 

L’introduzione della ragione nella definizione mette in evidenza che la “virtù etica” non è in sé completa e perciò deve fare riferimento alla virtù intellettuale o “dianoetica” della saggezza. Nel mentre il concetto di “giusto mezzo” evidenzia la presenza di relazioni quantitative che sfociano nella qualità. Infine occorre guardarsi dal “vizio” che è più opposto alla corrispondente “virtù”, e dal “vizio” al quale tendiamo con più facilità. 

Dopo aver delineato le caratteristiche generali della “virtù”, a partire dal III libro Aristotele procede ad un’analisi dettagliata delle diverse “virtù etiche”. Poiché queste fanno riferimento a sentimenti e azioni, esse vengono esaminate ora in riferimento ai primi ora alle seconde. Fra i sentimenti dobbiamo ricordare ad esempio la paura, la confidenza, l’ira, la vergogna. Tra le azioni, vengono analizzate quelle in rapporto con la ricchezza (donazione del denaro o acquisizione della ricchezza), e il perseguimento dell’onore. 

Lo Stagirita si sforza di delineare con precisione gli ambiti delle singole “virtù”, senza una deduzione rigorosa e con un ordine spesso accidentale. Si tratta di un’analisi fenomenologica, che offre un quadro vivace dei comportamenti vigenti nei costumi e nella società del suo tempo. Aristotele dedica un intero libro, il V dell’ “Etica Nicomachea”, alla trattazione della “giustizia”. Che cos’è il “giusto”? Con “giusto” noi intendiamo da un lato ciò che è legale, dall’altro ciò che è corretto ed equo. La “giustizia”, inoltre, si presenta come «virtù perfetta», giacché di essa ci si serve non solo nei riguardi di se stesso, ma anche in relazione agli altri. Del pari l’ingiustizia  costituisce il vizio completo. 

Aristotele si sofferma a lungo nella trattazione della «giustizia particolare». Questa si divide in due parti, a seconda che tratti del “giusto” nella distribuzione dell’onore e della ricchezza fra i cittadini, oppure della “giustizia correttiva” nelle relazioni fra uomini. La «giustizia distributiva» riguarda il rapporto fra due persone e due oggetti, distribuisce i beni in rapporto al merito delle persone, così da considerare il “giusto” come una proporzione geometrica. La «giustizia commutativa» si presenta nelle relazioni sociali, sia che queste siano volontarie o involontarie. In essa prevale la proporzione aritmetica. 

Qui non si tratta di accertare il rapporto di merito fra due persone, bensì si considerano i due soggetti come eguali. La legge non chiede se è un buono che ha defraudato un cattivo o viceversa, ma bada soltanto alla natura del torto, alla volontarietà o meno dell’atto, al danno prodotto, determinando chi ha perduto o guadagnato. «Cosicché l’equo è il medio tra il più e il meno». La “giustizia”, in questo senso, è “reciprocità”. La “reciprocità” è la regola essenziale che tiene unita la comunità statuale, conservata dallo scambio reciproco dei servizi e dei beni tra gli uomini. Ma poiché i beni che si scambiano hanno diversa natura e qualità, cioè diverso valore, essi devono essere eguagliati, prima che avvenga lo scambio, attraverso una comune unità di misura per la loro valutazione. 

In questa analisi, Aristotele esamina le diverse relazioni economiche – scambio, moneta, valore, bisogno – non considerate a sé stanti, bensì come momento delle relazioni sociali e politiche. La “giustizia” è disposizione ad agire per scelta deliberata. Pertanto, occorre affrontare il problema della volontarietà degli atti, sulla cui base è possibile valutare il problema della responsabilità. Infine, l’equità deve intervenire nella correzione della legge, giacché «ogni legge è universale, mentre non è possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad alcune cose particolari». Perciò esiste uno squilibrio tra l’universalità della legge e la particolarità e variabilità dei casi che mal sopportano una norma fissa e rigida. «infatti, di ciò che è indeterminato, anche la norma dev’essere indeterminata».