domenica 30 aprile 2017

ARISTOTELE E L’ETICA (PREMESSA)


L’etica, assieme alla politica, appartiene per Aristotele alle scienze dell’agire pratico. Dell’etica, egli tratta in tre diverse opere: “Etica Eudemia”, “Grande Etica”, “Etica a Nicomaco”. Muta in esse il taglio, mentre sostanzialmente identica rimane la struttura. Nella trattazione ci atterremo essenzialmente a l’ “Etica a Nicomaco”, che appare la più completa e matura sia nei giudizi come nella esposizione. 

A differenza dei moderni che scindono la morale dalla politica, ovvero l’agire dell’individuo da quello della collettività, per Aristotele, come per Platone «identico è il bene per il singolo e per la città». Proprio per questo «sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere quello della città; certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città» (Eth. Nic., I, 2). 

In questo senso, l’etica è parte della politica, alla quale appartiene dunque la ricerca del bene supremo. La politica viene così ad avere il carattere di scienza architettonica o di comando, in quanto «essa determina quali scienze sono necessarie nella città e quali ciascuno deve apprendere e fino a che punto». Questa connessione di etica e politica, caratteristica del pensiero greco classico, trova tuttavia in Aristotele il punto di avvio per una reciproca differenziazione e autonomizzazione, conformemente alla tendenza dello Stagirita di costituire ciascun momento della scienza nella sua differenza e analogamente al processo storico di autonomizzazione dell’individuo, che si concluderà nell’ellenismo - Il periodo della storia greca dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla battaglia di Azio , con la quale Roma si assicurò il predominio sull'Egitto (31 a.C.) -

In apertura, Aristotele traccia alcune indicazioni di metodo: poiché l’oggetto di questa scienza è costituito non dal necessario, ma da ciò che può essere diversamente, nella trattazione, quindi, non si deve esigere l’esattezza o il rigore delle matematiche, come pretendeva il tardo Platone nella sua riduzione del Bene al Numero. Il procedimento da adottare è quello «dialettico». Non si può, come fa Platone, partire dall’assunzione di un Bene in sé come principio e di qui dedurre le norme e le determinazioni dell’agire. Occorre al contrario rovesciare il procedimento, partendo dall’esperienza o da ciò che è bene per noi, per giungere al principio che lo fonda e lo giustifica. 

Scopo essenziale dell’etica è quello di stabilire che cos’è il “bene”. Infatti, «ogni arte e ogni scienza, e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche bene; perciò a ragione definirono il bene ciò a cui ogni cosa tende». Se è vero dire che il “bene” è fine di ogni agire, tuttavia occorre distinguere tra quei fini che vengono perseguiti come mezzi per un fine ulteriore e invece quel fine che non rinvia ad altro e che perciò si costituisce come fine ultimo. «Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola (così infatti si andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota ed inutile), in tal caso è chiaro che questo deve essere il “bene” e il “bene supremo”». Qual è il sommo dei beni nell’agire? Comunemente questo “bene” è detto essere la “eudaimonía”, ossia la «felicità»

Le opinioni degli uomini invece divergono nel determinare la natura della «felicità». Taluni infatti ritengono che essa consista nel piacere, altri nella ricchezza e nell’onore, altri parlano invece dell’esistenza di un bene in sé come fondamento della esistenza di tutti gli altri beni. Ma l’onore non è fine in sé, in quanto dipende «più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato»; del pari, il guadagno è ricercato non per se stesso, ma come mezzo per qualcosa d’altro. Neppure è accettabile la tesi di Platone che fa del “bene” un’idea trascendente. Infatti il “bene” «non potrebbe essere un universale comune ed unico: in tal caso infatti non sarebbe espresso in tutte le categorie bensì in una sola» (Eth. Nic., I, 6). Se così fosse, inoltre, dovrebbero esistere un’unica scienza di tutti i beni. Mentre non solo si danno diverse scienze in riferimento alle diverse categorie, ma anche esistono più scienze di un’unica categoria. «Così dell’occasione v’è la scienza, quanto alla guerra, della strategia, quanto alla malattia, della medicina; e della giusta misura, quanto all’alimentazione, v’è la medicina, quanto agli aspetti fisici la ginnastica». 

In conclusione il “bene”, come l’essere, si dice in molti modi. «Dunque il bene non è una qualità comune, che si esprima sotto una sola idea». Dunque qual è il “bene” per l’uomo? Per indagare questo concetto, Aristotele prende l’avvio dal concetto di «opera» (érgon) che è peculiare all’uomo e a nessun altro. Infatti così come per il flautista, o qualunque altro artigiano, il bene e la perfezione risiedono nella propria opera, così se esiste un’opera che è propria dell’uomo in questa consiste la realizzazione dell’eccellenza o “virtù”, e quindi il raggiungimento del proprio “bene”. 

Ora quest’opera non risiede semplicemente nel «vivere», comune anche alle piante, né nella «sensazione», comune anche agli altri animali, come si è visto nella “Psicologia”. «Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale». Dunque, «se propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che questa è l’opera del suo genere e in particolare di quello virtuoso (…); se è così, noi supponiamo che dell’uomo sia proprio un dato genere di vita, e questa sia costituita dall’attività dell’anima e dalle azioni razionali, mentre dell’uomo virtuoso sia proprio ciò, compiuto però secondo il “bene” e il “bello”, in modo che ciascun atto si compia bene secondo la propria “virtù”. Se dunque è così, allora il “bene” proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo “virtù”, e se molteplici sono le “virtù”, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera, né un sol giorno; così neppure una sola giornata o breve tempo rendono la beatitudine o la felicità» (ibidem - nella stessa opera -, I, 7). 

La perfezione di questa attività, cioè la sua “areté” o “virtù”, realizza dunque il “bene”. «La vita della persone virtuose non richiede il piacere come qualcosa di accessorio, bensì possiede il piacere in sé. Infatti (…) non è buono chi non gioisce delle azioni virtuose né alcuno chiamerebbe giusto un uomo che non goda di agire secondo giustizia». Così come il piacere non è la virtù, ma ad essa consegue, così la realizzazione della felicità richiede anche i beni esteriori sebbene non sia riducibile ad essi né ne dipenda essenzialmente. Inoltre, la «felicità» richiede una vita compiuta e una perfetta “virtù”. Ora solo nell’attività secondo “virtù” si dà continuità e stabilità. «Questa qualità sarà dunque presente all’uomo felice ed egli sarà tale per tutta la sua vita. Sempre infatti o più di ogni cosa egli farà o contemplerà le cose virtuose, ed egli sopporterà i casi della sorte ottimamente e in ogni maniera degnamente, se è veramente buono e tetragono senza fallo» (Eth. Nic., I, 10). 

Dunque, la “virtù” deve essere scelta per se stessa; ma questo non significa alcun disprezzo per i beni accessori della vita. «Poiché la felicità è dunque un’attività dell’anima conforme ad una virtù perfetta, dovremo indagare intorno alle virtù», o meglio, intorno alla “virtù” umana. «Infatti noi intendiamo studiare il bene umano e la felicità umana». In questo nesso consiste il legame che unisce “Psicologia” ed “Etica”. 

Ora l’anima presenta «tre» funzioni: una “vegetativa”, una “sensitiva” e una “razionale”. Ciascuna di queste attività dunque si esprime in una peculiare «virtù». Inoltre, anche la parte appetitiva o concupiscibile partecipa in qualche modo della parte razionale, in quanto essa deve obbedire alla ragione. Abbiamo cioè a che fare con l’appetito razionale o con la razionalità appetitiva. E poiché l’anima consta di due tipi di attività, quella irrazionale e quella razionale, anche le «virtù» corrispondenti saranno di «due» tipi: le “virtù etiche” e le “virtù dianoetiche”. Le “virtù dianoetiche” o razionali sono ad esempio la sapienza, l’intelletto, la ragione discorsiva, la saggezza. “Virtù etiche” sono ad esempio la generosità, la moderazione, il coraggio. Delle prime Aristotele si occupa nel VI libro, delle seconde nei libri II-VI dell’”Etica Nicomachea”.    


giovedì 20 aprile 2017

ARISTOTELE E L’ANIMA RAZIONALE


Nel processo conoscitivo, esplicato dall’anima, dopo la “percezione” e la “rappresentazione” abbiamo il “pensiero”. Questo, a differenza della fantasia che, pur essendo distinta da sensazione e riflessione, può sussistere senza di esse, non può esistere senza la sensazione. La sensazione è il tramite obbligato del pensiero. 

Per quanto riguarda l’atto intellettivo, questo è analogo all’atto percettivo, sebbene esso sia in rapporto con forme intelligibili le quali devono essere assimilate dall’intelletto analogamente a quanto avviene per la forma sensibile in rapporto alla percezione. Ma «questa parte dell’anima (…) deve essere impassibile, in quanto recettiva della forma e tale e quale essa è in potenza, ma non essa stessa forma (…). Necessariamente, quindi, l’intelletto poiché tutto pensa, è privo di mescolanza – come dice Anassagora – al fine di dominare, vale a dire di conoscere: infatti, il manifestarsi in lui di ciò che gli è estraneo, impedisce ed ostacola, si che non ha nessun altra natura se non questa di essere potenza. Quindi, la parte dell’anima chiamata intelletto (dico intelletto ciò con cui l’anima riflette e concepisce), prima di pensare non è in atto alcuna realtà. Per questo non è neppure logico che sia mescolato al corpo, perché diverrebbe una qualità determinata, o freddo o caldo, oppure avrebbe un organo, come la facoltà sensitiva: ora non ne ha alcuno» 
(De Anima, III, 4). 

L’anima pertanto, in questa sua parte noetica (“Noûs” =intelletto) è luogo delle forme, in quanto possiede la capacità di ricevere tutte le forme. Proprio in quanto l’intelletto è «potenza», cioè capacità di conoscere le forme, occorre un intelletto in «atto» che possa attualizzare questa potenzialità. 

Questo intelletto «attivo», immortale, eterno, incorruttibile, separato dalla materia, è sempre e soltanto in «atto», cioè per agire non deve passare dalla «potenza all’atto» come l’intelletto «possibile» o «passivo». 

Nota finale: Con l’introduzione dell’intelletto «attivo» riemerge nella gnoseologia aristotelica non solo il platonismo ma anche il problema dell’immortalità dell’anima che verrà lungamente dibattuto nei secoli successivi.   


sabato 8 aprile 2017

ARISTOTELE E L’ANIMA SENSITIVA


Dopo aver delineato le funzioni svolte dall’anima “vegetativa”, si analizzano le funzioni della parte “sensitiva”. Questa esiste solo in potenza e, per essere analizzata, deve ricevere l’affezione dell’oggetto. L’oggetto della sensazione, il sensibile, può riferirsi ad un solo senso, e allora è detto “sensibile proprio” – ad esempio il colore della vista, il suono dell’udito, il sapore del gusto –; “comuni” sono invece quelle affezioni che possono riferirsi a più sensi, come ad esempio moto, quiete, numero, figura, grandezza. Così, ad esempio, un movimento è sensibile sia al tatto come alla vista. «In generale, per ogni percezione, bisogna tener presente che il senso è il ricettacolo delle forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l’impronta dell’anello senza il ferro e l’oro, accoglie cioè l’impronta aurea o ferrea, ma non in quanto oro o ferro. Analogamente il senso patisce sotto l’azione di ciascun ente che ha colore o sapore o suono, ma non in quanto è considerato ognuno di questi enti, ma in quanto esso è tale, e in virtù della forma» (De Anima, II, 12). 

Quindi nella sensazione è solo la forma quella che viene assimilata e non la materia. Inoltre, nella percezione del “sensibile proprio”, il singolo senso non si può ingannare: le percezioni sono in sé vere, perché rispecchiano la realtà. L’errore può inserirsi soltanto nell’elaborazione dei dati che porta alla rappresentazione. Oltre ai cinque sensi, non vi è altro senso. I “sensibili comuni”, come si diceva, sono colti così come avviene quando percepiamo con la vista il dolce. «I sensi percepiscono accidentalmente i sensibili propri gli uni agli altri, non per ciò che essi stessi sono, ma in quanto costituiscono un unico senso, quando simultaneamente nasce la sensazione per il medesimo oggetto, così abbiamo percezione del fiele perché amaro e giallo: invero non è certamente proprio d’altro senso l’atto di asserire che le due qualità rispondono ad un unico ente: di qui l’inganno e l’opinione che ogni sostanza, purché gialla, sia fiele (De Anima, III, 1). 

I cinque sensi fanno capo al “senso generale” che, oltre alle cinque funzioni specifiche, ne possiede alcune generali. Così ci accorgiamo dei “sensibili comuni mediante la facoltà della percezione assunta nella sua totalità. Dalla «sensazione» derivano la «fantasia», cioè la produzione di immagini, e la «memoria» come conservazione di queste. L’«anima sensitiva», inoltre, ha le funzioni del “movimento” e dell’ “appetire” o “desiderare”. Il movimento stesso deriva dal desiderio, messo in moto dall’oggetto desiderato, colto mediante la «sensazione».