sabato 25 marzo 2017

ARISTOTELE E LA PSICOLOGIA (PREMESSA)


L’indagine che ha per oggetto l’«anima» (psyché) come principio degli esseri viventi viene sviluppata da Aristotele nel contesto della scienza della natura. Tale scienza, infatti, indaga sugli esseri inanimati come su quelli animati, siano questi ultimi dotati di ragione o meno. La trattazione di gran lunga più significativa sul piano filosofico rimane il “De Anima” (in tre libri), che per la prima volta fonda la “psicologia” come scienza indipendente. Le dottrine dei predecessori avevano individuato «due» attributi essenziali dell’«anima»: il moto e l’atto percettivo. L’«anima», infatti, in quanto principio motore viene ritenuta essa stessa mobile, come pensano Leucippo e Democrito o i pitagorici, o Diogene ed Eraclito; mentre Anassagora la ritiene principio del movimento in quanto “Noûs” (intelletto). 

Per quanto concerne l’attributo della percezione, esso viene spiegato da tutti (tranne Anassagora) sulla base del principio che il simile si conosce con il simile. L’ «anima» conosce tutte le cose in quanto è costituita dai medesimi elementi. Questi principi sono considerati o incorporei o corporei o tutt’e due assieme, e si riconducono ad uno solo o a più principi. Dopo aver posto in evidenza le insufficienze di queste dottrine, in quanto spiegano l’azione motrice dell’«anima» sulla base di principi naturalistici e l’attività conoscitiva stessa sulla base della costituzione dell’«anima» mediante elementi, Aristotele sottolinea l’assurdità di limitare l’indagine dell’«anima» senza estenderla anche al «corpo», come se la  relazione fra i due fosse del tutto casuale. 

Questo delinea in senso psicofisico l’indagine aristotelica, almeno fino a quando non si verificherà che determinati aspetti dell’«anima», come il pensiero, non possono essere analizzati con gli strumenti della scienza naturale, bensì con una strumentazione schiettamente filosofica. Ciò avverrà nel terzo libro. Nel secondo libro, Aristotele tratta innanzi tutto della definizione dell’«anima». Il «corpo», negli esseri viventi, ha la qualità di substrato o materia, ma non quella di forma. Ora ogni sostanza è “sinolo” di materia e forma. Quindi il principio che anima il «corpo» non può essere lo stesso «corpo». «Necessariamente quindi l’anima è sostanza, intesa come forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ma la sostanza è atto perfetto (entelécheia). L’anima, quindi, è atto perfetto di un corpo del genere specificato» (De Anima, II, 1). 

La definizione generale, pertanto, valida per ogni tipo di «anima», è che essa è «l’atto perfetto primo di un corpo naturale organico». Dunque il «corpo», senza l’«anima» che è forma, non può passare all’atto. Solo nella unità di «corpo» e di «anima» si costituisce l’essere vivente. Da ciò Aristotele trae una conseguenza: «È chiaro dunque che l’anima non è separabile dal corpo, o almeno – se per natura essa è divisibile – non sono separabili certe sue parti: infatti l’atto perfetto di alcune sue parti è l’atto perfetto delle rispondenti parti del corpo. Ma nulla impedisce che almeno altre sue parti siano separabili, poiché non sono atto perfetto di alcun corpo» (ibidem - nella stessa opera -, II, 1, 13 a). 

Con questa definizione Aristotele cerca una sintesi tra coloro che considerano l’ «anima» solo come principio fisico e quelli che, come Platone, reputano l’«anima» come totalmente altro dal «corpo». Ora se esistono parti o funzioni dell’«anima» non riconducibili al «corpo», queste potranno esistere anche separatamente dal «corpo». 

Nell’«anima» si ravvisano «tre» funzioni: quella “vegetativa”, quella “sensitiva” e quella “intellettiva” o razionale. La prima (abbiamo un’anima “vegetativa”, con funzioni di nutrizione, crescita e riproduzione) è comune, presente in tutti gli esseri viventi e in particolar modo esclusiva delle piante; la seconda, con la prima, (abbiamo un’anima “sensitiva” che è la capacità di provare sensazioni ed emozioni: percezione, movimento, desiderio, piacere, dolore,ecc.) e risulta tipica di animali e uomini; infine, l’anima razionale o “intellettiva”, coincidente con il pensiero e la capacità di agire consapevolmente, che è tipica degli uomini. Tutte e «tre», infine, sono nell’uomo. «Da queste considerazioni risulta che le altre parti dell’anima non possono essere separate, come vogliono alcuni pensatori (cfr. Platone, Timeo, 69 d sgg.), ma tuttavia è evidente che si distinguono logicamente per il loro concetto. Infatti, se è vero pure che l’atto del percepire si differenzia dall’atto dell’opinare, anche la facoltà sensitiva si differenzierà dalla facoltà opinante» (II, 2). Invece, l’intelletto, o la facoltà speculativa, può essere separato dal «corpo», «come l’eterno dal corruttibile». 

Per quanto riguarda il rapporto tra questi «tre» momenti, Aristotele afferma che «si determina per l’anima circa ciò che avviene nelle figure: invero sempre il precedente è insito in potenza nel susseguente (ibidem - nella stessa opera -, II, 3). Quindi la facoltà nutritiva è contenuta in quella sensitiva, mentre nelle piante la nutritiva è disgiunta dall’anima sensitiva. 

domenica 19 marzo 2017

ARISTOTELE E LA LOGICA


La logica non è inclusa, come abbiamo visto, né fra le scienze "teoretiche" né fra quelle "pratiche", in quanto è considerata da Aristotele come parte della cultura generale, parte che dovrebbe essere appresa prima di accingersi a studiare una scienza. Essa infatti considera la forma che il discorso deve possedere per avere valore dimostrativo. Per questo suo carattere, al complesso dei trattati che compongono il “corpus” della logica, è stato dato, successivamente, il titolo di “Organon” ovvero «strumento» della scienza. Normalmente lo Stagirita si riferisce a questi trattati chiamandoli “Analitici”. È questo, infatti, il titolo dato ai «due» libri principali. 

Con il termine «analitica» ci si riferisce alla risoluzione del ragionamento nelle premesse dalle quali il ragionamento dipende. Nelle “Categorie” vengono esaminati termini semplici delle proposizioni, cioè termini senza connessione reciproca; così la proposizione «l’uomo corre» si riconduce ai termini «uomo» e «corre». Ora, «i termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una “sostanza”, o una “quantità”, o una “qualità”, o una “relazione”, o un “luogo”, o un “tempo”, o l’ “essere in una situazione”, o un “avere”, o un “agire” o un “patire”» (ibidem - nella stessa opera -, cap. 4). Si tratta delle «categorie», solitamente otto e non dieci come in questo caso, in quanto «essere in una situazione» e «avere» vengono ricondotti ad altre categorie. 

Le categorie, che nella “Metafisica” indicano i molteplici significati dell’essere, qui stanno ad indicare i generi supremi ai quali sono riconducibili i termini delle proposizioni. Anche nel discorso, la “sostanza” costituisce la “prima categoria” e indica il “soggetto grammaticale”. Essa è presupposta da tutte le altre categorie, che pertanto sono i predicati ultimi ai quali tutti i predicati sono riconducibili (ad esempio, rosso o bello rientrano nella “qualità”), mentre essi non possono essere compresi in altri predicati. Questi termini, assunti per sé , senza la connessione delle proposizioni, non sono né veri né falsi. Infatti, verità e falsità sussistono solo nella reciproca connessione dei termini nella proposizione, rendendo possibile l’affermazione o la negazione. 

La teoria delle proposizioni è indagata nel “De Interpretazione”. Nomi o verbi, parti della proposizione, non sono né veri né falsi: «il nome è suono della voce significativo per convenzione, il quale prescinde dal tempo»; «verbo è il nome che esprime inoltre una determinazione temporale». Il verbo è espressione caratteristica di ciò che si dice di qualcos’altro, ossia di ciò che si dice di un sostrato, o di ciò che sussiste in un sostrato» (ibidem - nella stessa opera -, cap. 3). Vero e falso si danno solo nel giudizio, che può essere affermativo (Katáphasis) o negativo (Apóphasis). Nei discorsi non dichiarativi o apofantici, come ad esempio nella preghiera, nella invocazione o simili, non ha invece luogo il vero o il falso. Il giudizio è vero quando asserisce che vanno uniti elementi che nella realtà sono effettivamente uniti, o che vanno divisi elementi effettivamente divisi. 

La verità della proposizione è data dalla corrispondenza con la realtà, nella quale sussiste quella connessione ontologica tra sostanza e predicati che il giudizio esprime in termini di soggetto e attributi grammaticali di questo. I giudizi vengono quindi distinti sulla base della quantità o estensione in: “universali” («tutti gli uomini sono mortali») o “individuali” e “singolari”, se riguardano un individuo («Socrate è bianco») oppure “particolari”, se riguardano solo alcuni («alcuni uomini sono bianchi»). 

Gli “Analitici Primi prendono in esame la connessione di più giudizi, cioè il ragionamento. In esso si dà un nesso di consequenzialità tra proposizioni antecedenti e conseguenti, quando queste ultime seguono necessariamente dalle prime. Il ragionamento perfetto è costituito da «tre» proposizioni, delle quali due fungono da antecedenti e costituiscono le "premesse", mentre la terza costituisce la "conclusione". Il "medio" unisce la premessa maggiore alla conclusione: «Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale» Il ragionamento perfetto è il “Sillogismo”, definito da Aristotele come «un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente per il fatto che questi oggetti sussistono» (ibidem - nella stessa opera -, I, 24, b 18-22 ). 

Le premesse divengono quindi causa della sequenza delle proposizioni, non però del loro valore di verità. Così, nell’esempio classico: «tutti gli uomini sono mortali» consegue necessariamente la conclusione «Socrate è mortale», attraverso la premessa minore che funge da medio «Socrate è un uomo». In questa forma, la premessa ha solo carattere ipotetico, come se si dicesse: «Se tutti gli uomini sono mortali, allora…». Come abbiamo detto, gli “Analitici Primi” trattano solo della «coerenza» delle proposizioni, non della verità. Quindi, Aristotele prende in esame le diverse figure del “sillogismo” e i diversi modi delle varie figure. Le figure (schémata) sono determinate dalla posizione assunta dal termine medio. Negli “Analitici Secondi” si analizza non solo la correttezza formale o coerenza dei ragionamenti, ma anche il loro valore di verità. Nella “dimostrazione scientifica”, la premessa deve essere sempre vera, perché il conseguente sia altresì vero. 

Le premesse di tale “sillogismo” devono pertanto essere «vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause delle conclusioni». «Il “sillogismo”, infatti, sussiste anche senza queste condizioni, mentre la dimostrazione non può sussistere senza di esse, giacché non produrrebbe scienza» (ibidem - nella stessa opera -, II, 71, b 25 ). La dimostrazione è un sapere della causa o del perché; solo a questa condizione il sapere è necessario, giacché «è impossibile che ciò di cui vi è scienza in senso proprio stia diversamente da come è». 

Come conosciamo tali premesse? Infatti, se anche esse dovessero essere conosciute per via dimostrativa, occorrerebbe ricorrere ad altre premesse  e così all’infinito. Quindi, la conoscenza dei principi non può avvenire per via argomentativa, bensì attraverso una forma di conoscenza immediata. «Di conseguenza, principio della conoscenza scientifica non è la conoscenza scientifica. Allora, se non abbiamo alcun altro genere di conoscenza vera oltre la scienza, l’intuizione sarà principio della scienza» (ibidem - nella stessa opera -, II, 19, 100 b 5). Si tratta della forma di conoscenza immediata di ciò che è immediatamente evidente. 

Tra gli assiomi o principi della scienza, alcuni di essi sono comuni a più scienze (così taluni assiomi della matematica), mentre altri saranno comuni a tutte le scienze, come ad esempio il principio di non contraddizione o quello del terzo escluso, presi in esame nel IV libro della “Metafisica”. Questi principi costituiscono il fondamento primo di ogni scienza. Nei “Topici” vengono presi in esame i “sillogismi” cosiddetti “dialettici” i quali, al contrario di quelli scientifici, concludono a partire da premesse solo probabili, fondate perciò sulla “opinione”: essi sono o accettabili da tutti, o dalla grande maggioranza o dai più sapienti. 

Questi “sillogismi sono particolarmente importanti nelle dispute. Ma “sillogismi” dialettici sono anche quelle forme argomentative utilizzate per illustrare i principi primi che, come abbiamo avuto modo di vedere, possono esser «dimostrati» solamente attraverso la confutazione dei loro negatori. Questo tipo di argomentazione prende le mosse dall’opinione dell’avversario per confutarla. In tal modo si mostra l’essere evidente del principio, ovvero l’impossibilità di dare o chiedere una sua dimostrazione. Esso infatti costituisce la condizione imprescindibile del darsi di ogni dimostrazione.      

domenica 12 marzo 2017

ARISTOTELE E LA FISICA O FILOSOFIA DELLA NATURA


Oltre alla filosofia prima, delle scienze teoretiche fanno parte anche la fisica e la matematica. La fisica ha per oggetto le cose che hanno una esistenza separata, ma sono nel divenire; la matematica, invece, ha per oggetto realtà invariabili, le quali tuttavia non esistono per sé o separate, giacché gli oggetti della matematica – ad esempio, numeri e figure – sono solo astrazioni che derivano dalle realtà dalle quali esse sono astratte. La “phýsis”, oggetto della fisica, indica quella realtà che ha in sé il principio del movimento e della quiete. A differenza della natura dei presocratici, che significa la totalità dell’essere, la natura aristotelica indica solamente una parte del reale, quella soggetta al divenire. 

La prima questione che occorre risolvere concerne l’esistenza stessa della “phýsis”. Tale esistenza, infatti, è stata decisamente negata da taluni filosofi precedenti, in particolare dagli “eleati” (Parmenide, Senofane, Zenone, Melisso). Questi infatti negano ogni tipo di divenire e insieme riducono tutte le cose all’uno. Tuttavia «esaminare se l’essere sia uno e immobile non fa parte delle ricerche fisiche» (Phys., I, 2). 

Ogni scienza particolare presuppone come esistente il proprio oggetto e di questo studia leggi e proprietà. L’eventuale giustificazione dell’oggetto stesso compete perciò ad altra scienza. Questo dovrebbe valere anche per la “Fisica”. Invece Aristotele, sia pure con qualche titubanza, affronta immediatamente tale questione pregiudiziale, conformemente al significato profondo di questa scienza, che è non scienza particolare in senso stretto, ma “ontologia dell’essere in divenire”. «Da parte nostra noi poniamo che le cose della natura, o tutte o in parte, sono mosse. Ciò è evidente per intuizione immediata» (Phys., I, 2). Egli non presuppone l’esistenza, quanto ne afferma l’originaria evidenza e quindi la sua indimostrabilità. Né si può dimostrare ciò che è evidente a partire da ciò che evidente non è. Esso può essere colto o meno, come avviene in rapporto ai colori. Si può e si deve, invece, procedere alla confutazione dei suoi negatori, attraverso un procedimento dialettico, così come è avvenuto in relazione al principio di non contraddizione e alla sua evidenza logica nel IV libro della “Metafisica”. 

Il medesimo procedimento, rivolto in particolare contro gli “eleati”, viene da Aristotele sviluppato nella “Fisica”. Altre dottrine sono pervenute talvolta alla negazione del divenire soltanto per l’incapacità a fornire di esso una spiegazione adeguata. Innanzi tutto, in quanto esse concepiscono il divenire come passaggio dall’«essere» o dal «non essere» in senso assoluto. Il divenire viene ammesso, ma insieme viene posto come aspetto essenziale di questo il «non essere». Ma ciò è contraddittorio. Tale è ancora il divenire, se esso è ricondotto semplicemente ai contrari; sicché il divenire si realizza solo a patto di identificare i due contrari: il bianco è nero, il grande è piccolo. 

La soluzione del problema è trovata da Aristotele nell’introduzione del «sostrato»: infatti, è l’uomo che diviene da non-musico a musico, e non il non-musico che diviene musico. «Sicché è chiaro (…) che tutto ciò che diviene è sempre composto e vi è non solo qualcosa che diviene, ma anche l’oggetto che qualcosa diviene; ed esso è duplice : da una parte, infatti, è il “sostrato”, dall’altra è l’ “opposto”: e dico “opposto” l’a-musico, “sostrato”, l’uomo; “opposta” la mancanza di figura o di forma o di ordine, “sostrato”, invece, il bronzo o la pietra o l’oro» (Phys., I, 7). 

Il divenire si configura pertanto come passaggio del “sostrato” dalla «potenza» all’«atto», cioè dalla privazione di una certa forma alla forma stessa o «atto». E la privazione, ad esempio, il non-musico, non indica il non essere assoluto, ma semplicemente il non essere in «atto» di una certa forma, cioè la privazione di quella forma, il suo essere in «potenza». «In senso assoluto nulla diviene dal non ente»: quindi non è possibile «sopprimere l’affermazione che ogni cosa o è o non è» (Phys., I, 8). Inoltre, il movimento si produce in rapporto alle quattro cause – materiale, formale, efficiente e finale – già esaminate nella “Metafisica”. Non sono cause invece né la fortuna né il caso. In contrapposizione al meccanicismo, la natura è intesa come causa finale. Perciò negare il finalismo significa negare la stessa natura. La necessità, presente anch’essa in natura, non è altro che l’elemento materiale presente nella finalità. 

Il “movimento” è definito da Aristotele né come solo «atto» né come sola «potenza», ma come «atto di una potenza in quanto è potenza» (Phys., III, 1): così il movimento qualitativo o alterazione è «atto» di ciò che è alterabile, in quanto è alterabile; lo stesso deve dirsi in rapporto agli altri tipi di movimento. Esso inoltre, come abbiamo visto, concerne l’essere solo di alcune categorie – sostanza, qualità, quantità, luogo – non di tutte. Le precondizioni che rendono possibile il movimento sono: il motore il mosso, lo spazio e il tempo, i contrari. Inoltre, il movimento ha luogo solamente da “sostrato” a “sostrato”. Trattando delle precondizioni del movimento, Aristotele affronta e risolve innanzi tutto il problema dell’«infinito», giacché l’«infinito» sembra essere necessariamente implicato sia nello spazio, come nel tempo, nella perennità del movimento, nella tendenza a porre il limite, nel nostro pensiero (Phys., III, 4). 

Per lo Stagirita, l’«infinito» non esiste come sostanza separata, cioè come realtà a sé stante, né può concepirsi come corpo sensibile infinito in «atto». L’«infinito» esiste sempre e solo in «potenza» nelle realtà continue, come spazio, tempo e movimento. Esso indica semplicemente la possibilità della considerazione senza limite propria del pensiero nell’atto della divisione del continuo o nella assunzione di un termine sempre maggiore del termine dato. Ma non può mai darsi in «atto». 

Nel IV libro della “Fisica”, Aristotele analizza il ”luogo” e il “tempo”. Per quanto concerne il “luogo”, esso non è né forma né materia, come ritengono taluni, proprio perché forma e materia sono nel “luogo”. Neppure è intervallo, giacché questo muta, mentre il “luogo” rimane immutato. Né è materia, giacché mentre questa è separabile, il “luogo” non è separabile dai corpi. Esso è quindi primo immobile, limite del corpo contenente (IV, 4). Questa definizione diverrà famosissima nel Medio Evo e verrà fissata nella celebre formula «terminus continentis immobilis primus». In quanto limite, il “luogo” esiste solo in relazione al corpo di cui è il limite. Proprio per questo, esso non si identifica con il vuoto. 

I capitoli finali del IV libro della “Fisica” affrontano il problema del “tempo”, con una profondità e finezza di analisi presupposta dalle indagini di Plotino, S. Agostino, S. Tommaso, Hegel. Secondo il consueto procedimento, Aristotele esamina dapprima le aporie sull’esistenza del “tempo”. Se infatti si intende il “passato” come ciò che non è più e il “futuro” come ciò che non è ancora, il “tempo” dovrebbe esistere pur essendo costituito di parti che non sono. Anche l’esistenza dell’istante appare problematica: infatti esso non può intendersi né come identico, né come differente, né come continuo. Il “tempo” è stato spesso identificato con la sfera del tutto, e quindi con lo stesso movimento. Ma il “tempo” non è il movimento, giacché quest’ultimo è nel “tempo”. 

Tuttavia il “tempo” non esiste senza il movimento; esso è qualcosa del movimento. Tempo, spazio, e mobile si implicano reciprocamente. In questo rapportarsi, essi esprimono il prima e il poi, che dallo spazio si estende al mobile e quindi al “tempo”. Il “tempo” è allora «numero del movimento secondo il prima e il poi» (IV, 2). Il concetto di “numero” è da intendere non come numero astratto, cioè come mezzo di numerare, ma come numero concreto o numero numerato: ossia numero che sussiste sempre e solo come predicato di cose. 

Numerare è l’atto di determinazione del movimento introdotto dalla “coscienza”, che, a partire dal prima e dal poi del movimento, determina anche il “tempo”. Il “tempo” è determinato dai due istanti, prima e poi. Né l’istante è parte del tempo, elemento discreto che costituisce per sommatoria il “tempo”, bensì esso è il limite del continuo. In quanto limite, l’istante è senza grandezza, solo «sosta» virtuale introdotta nel continuo dalla “coscienza” che determina. Come si vede, la “coscienza” gioca un ruolo essenziale nella dottrina aristotelica del “tempo”. Dal momento che il “tempo” è numero, e il numero è in rapporto con l’atto del numerare proprio della “coscienza”, Aristotele si chiede se il “tempo” potrebbe esistere qualora non esistesse la coscienza”.

Nel VI libro viene affrontato il problema del “continuo”: questo non è costituito da elementi indivisibili, come sembrava credere Zenone nei suoi paradossi, bensì è quantità sempre divisibile. Il “continuo” è quantità nella quale un limite congiunge sempre due punti dati, partecipando di entrambi. Il movimento è inconciliabile con una considerazione della grandezza come costituita di elementi indivisibili. Nel libro VIII, infine, Aristotele si propone di giungere alla determinazione della “causa ultima del divenire”. Dio, pertanto, costituisce il principio ultimo di giustificazione della “phýsis”.