sabato 29 ottobre 2016

SOCRATE


L’indomabile oscillare delle parole tradisce gli uomini più di quanto gli uomini non giochino con le parole. I sofisti tennero testa a quest’emergenza. Tuttavia, per dominarla sino in fondo era necessario che le parole fossero disciplinate, che fossero sottoposte a controlli reiterati e precisi. Solo così, si poteva sfuggire al reciproco scambiarsi delle parti tra “verosimiglianza” e “verità”. Socrate, che appartiene indubbiamente alla cultura dei sofisti, si è fatto carico di questo destino della “parola” e, almeno secondo quanto ci raccontano Platone ed Aristotele, egli fu lo scopritore del “concetto”. 

Socrate, fedele alla sua istanza di principio che è quella di «sapere di non sapere», approda al “concetto” per via negativa, vale a dire prendendo avvio dalla distruzione delle «opinioni correnti». Per far questo egli non espone una dottrina, ma demolisce quelle comunemente invalse (affermate), così come esse si presentano nei discorsi dei più e nelle più svariate occasioni. In una parola, Socrate dialoga. Il “dialogo” è la via regia per acquisire il “concetto” e si articola in «Due» momenti fondamentali, l’«ironia» e la «maieutica», distruttiva la prima, costruttiva la seconda. 

Il metodo socratico è un metodo dialettico d'indagine filosofica basato, dunque, sul “dialogo”. Viene descritto per la prima volta da Platone nei “Dialoghi”. Data la sua natura è chiamato anche "maieutico". Il termine “maieutica” viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne) e significa "arte della levatrice" (o "dell'ostetricia"). L'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel “Teeteto”. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, a differenza di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della persuasione (Socrate, e attraverso di lui Platone, si riferiscono in questo senso ai Sofisti). Parte integrante del metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti - ovvero la brachilogia - in opposizione ai lunghi discorsi degli altri e la rinomata “ironia” socratica

Nel racconto dello stesso Socrate, l'ispirazione per questo tipo di dialettica derivava dall'esempio che il filosofo aveva tratto da sua madre, la levatrice Fenarete. La “maieutica” comincia dopo le fasi del rapporto maestro-discepolo e dell' “ironia”. In Socrate, l’«ironia» fu strumento per liberare il suo interlocutore dalle credenze acquisite e per avviarlo ad una considerazione critica del mondo. L’«ironia» è la tecnica attraverso cui Socrate mette alle corde gli avversari. Egli conduce un’interrogazione serrata, mostrando, patentemente, di «non sapere» e simulando nel contempo una fiducia nella sapienza dell’interlocutore. A costui la domanda è, per lo più, rivolta nella forma di una richiesta d’informazione. Così facendo, egli conduce l’avversario alla paralisi, all’antilogia (doppio discorso) come situazione inestricabile, e da cui non ci si può in alcun modo districare. 

L’antilogia si profila come una situazione in cui nulla può più essere affermato o negato, poiché tutto può essere ugualmente detto. Ma ciò equivale a dir niente. Si profila già qui, nel dialogo socratico, la genesi retorica del “principio di non contraddizione”. Socrate getta l’avversario in un vicolo cieco e, di fatto, lo intorpidisce, confondendolo, annebbiandolo. La “verità”, se in qualche modo è attingibile, passa dunque per il dubbio e la ricerca. Ma la ricerca è possibile, ed è possibile attingere un risultato solo perché l’uomo possiede in stesso la “capacità” di conoscere. Tutte le esperienze si disperderebbero se non fossero tratte in unità nel “concetto”, se non si fosse capaci di riconoscere il comune nel differente, vale a dire quell’«entità propria» per cui ogni cosa che è, «è quello che è». 

L’uomo è capace del “concetto” poiché sa cogliere l’uno nel molteplice, sa afferrare e trattenere la qualità propria in forza della quale si può dire, ad esempio, che le cose sante sono sante, quelle giuste, giuste, quelle vere, vere, e così per ogni atto e fatto. L’identificazione delle qualità proprie si muterà in Platone nell’identificazione delle proprietà essenziali, e su questa base sarà poi sviluppata l’organizzazione  generale del reale diviso per “generi” e “specie”. Il “concetto”, come il significato stesso della parola rivela, equivale a “prendere insieme”, “raccogliere”. In ciò, è sottolineato il doppio valore del conoscere, che “raccoglie” le diverse esperienze, ma nel contempo le “organizza”, tenendole insieme in base ad unità proprie. Il termine “concetto” deriva, infatti, dal latino “concipio” che, a sua volta, è un composto di “cum e capio” dove la preposizione allude al «tenere insieme» ed il verbo all’«afferrare». Il “concetto”, in effetti, afferra l’unità del molteplice. 

Socrate scopre per primo che l’uomo è detentore di una facoltà capace di astrazione e di sintesi, e perciò è nelle condizioni di attingere l’unità nel diverso, e di distinguere le diverse unità in relazione a differenziate proprietà. Tutto questo s’intende dire quando si sostiene che Socrate è lo scopritore del “concetto”. L’uomo è capace di concettualizzare. Proprio per questo il “conoscere” non si può identificare con un “apprendere” passivo o con una mera recezione dall’esterno, bensì con un esercizio attivo del soggetto conoscente. La ricerca socratica si concentra, dunque, sull’analisi di quest’esercizio, e si assume come compito quello di liberare questo lato attivo del soggetto conoscente. Socrate vuole far giungere a realizzazione piena la capacità di “verità” che è insita negli uomini per natura, anche se è sollecitata dall’esperienza esterna. A partire da quest’acquisizione, si sviluppa il «secondo» momento del dialogo socratico: quello “maieutico”. Il rapporto tra adulto e ragazzo (Socrate-discepolo) in Grecia era una cosa lecita anche dal punto di vista erotico (in una persona si ammiravano non l'aspetto fisico, ma l'intelligenza e la raffinatezza spirituale). Socrate «non» arrivava al sesso. Il discepolo a quel punto era “libero” di scegliere se continuare il rapporto da un punto di vista ideologico oppure andarsene. 

Continuando questo rapporto subentrava la fase dell' “ironia” (finzione). Socrate fingeva di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e mediante il dialogo Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo. La “maieutica” quindi non è l'arte di insegnare ma l'arte di aiutare. La “verità” non è insegnabile perché è un sapere dell'anima; per questo Socrate non inculcava nei suoi "discepoli" le proprie idee, ma li aiutava a "partorire la loro verità". 

Il metodo socratico, basato su domande e risposte tra Socrate e l'interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l'infondatezza delle convinzioni che siamo abituati a considerare come scontate e che invece ad un attento esame rivelano la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” (ostetrico) perché conduce per mano l'interlocutore con brevi domande e risposte per indurlo ad accorgersi della propria ignoranza e a riconoscere il criterio della “verità” rispetto alla falsità delle sue presunzioni. 

Quindi non si basa sul tentativo di vincere l'interlocutore con la propria abilità retorica, così come facevano i sofisti. Socrate non contestava il fatto in sé che si potessero avere verità definitive, ma che venissero spacciate per tali delle convinzioni che non lo erano. Aristotele, a dir la verità in maniera poco chiara, avrebbe attribuito a Socrate la scoperta del “concetto” e del “metodo induttivo”, sostenendo però al contempo la loro inadeguatezza al trattamento dei problemi dell'etica. In realtà il dialogo socratico ha un valore morale basato sul rispetto dell'interlocutore

Dunque, Socrate «paragona» la sua arte alla “maieutica” che è l’arte delle “levatrici”, che, appunto, hanno il compito di aiutare la donna nel parto. Ora Socrate che era figlio «di una molto brava e vigorosa levatrice, Fenarete», come egli stesso dice nel “Teeteto” platonico, si «paragona» appunto alle detentrici di quest’arte: «La mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera sugli uomini e non sulle donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile… di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo si gli altri, ma non manifesto io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare» (Teeteto, 150 c-d). 

Socrate aiuta quindi coloro che lo frequentano ad attingere il “concetto”, ossia il “che è” delle cose, l’idea che le unifica e perciò l’«unità» di cui “esse” partecipano. Questo significa attingere la “verità”. Ma che significa propriamente “verità”? Questa resta una questione aperta. Si può dare credito alla tradizione secondo cui Socrate ha scoperto il “concetto”, ossia la capacità di ridurre il diverso all’uno, e quindi la possibilità di distinguere e di giudicare: in una parola, di porre l’identico e il diverso. Ma questa capacità di concettualizzazione coincide con l’elaborazione di una nuova tecnica definitoria, e perciò con l’invenzione di un più scaltrito artificio retorico, oppure quel che il “concetto” attinge è la “verità” dell’«essere?» 

Detto altrimenti, Socrate mette in opera regole di discussione nuove, ben ordinate, capaci di organizzare in modo meno aleatorio il reale, pur nella convinzione di non poterlo dominare, oppure l’uomo è capace di dire il vero perché è capace di riconoscere l’assolutezza della “verità” in sé, e di cui le cose, in modi e gradi diversi, partecipano? In questi interrogativi si cela un grande passaggio della filosofia occidentale e, più precisamente, quello che va dal dominio della “retorica” (da intendere nel suo spessore filosofico) a quello “logico-ontologico”. 

Questo passaggio sarà definitivamente compiuto da Platone. A questo punto, l’esegesi storica del socratismo diventa difficile, poiché non risulta del tutto chiaro quanto è da attribuire a Socrate e quanto a Platone. È noto, infatti, che Platone pone sulle labbra di Socrate discorsi che sono suoi pensieri. D’altra parte, i dialoghi di Platone sono la fonte più ricca e robusta per la ricostruzione dell’immagine di Socrate. Di più: il platonismo rappresenta la linea vincente della filosofia occidentale. Quel che comunque è certo è il fatto che Socrate si pone come punto discriminante tra la crisi sofistica, e la soluzione pragmatico-retorica che ad essa compete, e l’ontologia platonica. Tutto ciò assegna a Socrate la funzione storica di ponte verso la filosofia come scienza, vale a dire come “teoria della verità”. 

Nota finale: 

Impegnato entro i termini dell’orizzonte umano, definito da Platone «nobile sofista», Socrate appare nella storia del pensiero come una delle più inquietanti ed enigmatiche figure di filosofo e di uomo. Come per i sofisti, anche per Socrate l’«individuo» è il centro logico del mondo e la «misura di tutte le cose» ma solo in quanto riconosce in sé la presenza illuminante di un «logos» universale, con cui giudica e la cui scoperta è il suo compito supremo. Radicalizzando la critica dei sofisti nei confronti della società del suo tempo, Socrate si pose come soggetto eversivo da cui la nuova democrazia ateniese di Trasibulo (Uomo politico e generale ateniese) fu costretta a difendersi. Di qui la condanna a morte consumatasi nel periodo di crisi istituzionale e politica di Atene, alla fine della lunga guerra del Peloponneso. 

sabato 22 ottobre 2016

GORGIA


Accanto ed in sinergia al filone “empirico-pragmatico”, detto così per ragioni di comodo, se ne sviluppa un altro che, per le stesse ragioni, verrà chiamato “dialettico-retorico”. Rappresentante eminente di questa tendenza è Gorgia. La sua opera maggiore è “intorno al non ente o intorno alla natura”. 

Quel che ci pare di poter condividere è la circostanza che vede in Gorgia il definitivo venir meno della “coalescenza arcaica” (specie di fusione di linguaggio) tra “parola-realtà-verità”. Questo venir meno comporta una radicale ristrutturazione del linguaggio. Tutto ciò equivale ad una diversa determinazione del senso delle parole in relazione agli oggetti, e ad un diverso modo di configurarsi del rapporto tra proposizioni, asserzioni, enunciati e i contenuti da essi espressi. 

In quest’opera, “Intorno al non ente”, Gorgia sostiene che : 1) nulla esiste; 2) se anche vi è esistenza non può venir rappresentata; 3) se anche può venir rappresentata non può essere comunicata e spiegata agli altri. Nella sua argomentazione Gorgia prende avvio dall’ontologia di Parmenide e, soprattutto, dalle difficoltà e dalle contraddizioni che si erano sviluppate all’interno della tradizione eleatica. 

Detto altrimenti, la filosofia di Gorgia si sviluppa all’interno del lessico pamenideo e porta alle estreme conseguenze le difficoltà insite nell’impostazione “logico-verbale” del grande eleate. Così, infatti, si legge nel poema di Parmenide: «Del “non-essere” non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può dire né pensare ciò che non è» (frammenti 7). In forza di quest’asserzione, Parmenide negava l’esistenza del «molteplice» poiché il «molteplice» è “non-essere”. La cosa risulta chiara se si pone mente al fatto che ogni singola determinazione è se stessa” perché “non è le altre”. 

Parmenide dice appunto che il “non-essere” non può essere né detto, né pensato. Ne segue allora che il «molteplice» non può esistere, e se c’è non è altro che apparenza o appartiene al mondo dell’opinione entro cui si muovono i mortali. 

Per capire la filosofia di Gorgia bisogna prendere le mosse dalla formula di Parmenide: «Non si può dire né pensare ciò che non è». Il sofista siciliano radicalizza questa proposizione e la svolge in questa forma. Dire che il “non-essere” non si può dire né pensare equivale a dire che solo l’essere si può dire e pensare. Se ciò è vero ne segue che nominare il “non-essere” vuol dire appunto dirlo; d’altra parte si può dire solo ciò che è. Da tutto ciò consegue che basta “nominare” il “non-essere” per affermarne l’esistenza. Dire il “non-essere”, sia pure per vietare di dirlo, equivale ad affermarlo, ponendo così una equivalenza tra “essere” e “non-essere”. 

In tale circostanza, l’ “essere” non è poiché il “non-essere” è, e il “non-essere” è l’affermazione della negazione, ossia il “non” dell’essere. Questo modo di trattare il linguaggio fa si che l’ “essere” ed il “non-essere” divengano convertibili l’un l’altro e quindi interamente scambiabili. Il testo di Gorgia è chiaro: «Se infatti il “non-essere” è (ésti) non esistere il non ente non sarà per nulla meno dell’ente…cosicché in nessun modo le esperienze sono più di quel che non siano» (Intorno al non ente). Data la convertibilità di “essere” e “non-essere”, vale la conseguenza che di tutte le cose non si può dire che siano più di quanto non siano. 

Se l’uso del linguaggio dà luogo a tale convertibilità, ne segue che di ogni esperienza non si può dire che è più di quanto non sia o, altrimenti espresso, tutto essendo e insieme non essendo, di nulla si può dire propriamente che è. Lo spazio problematico di Gorgia coincide quindi con la crisi dell’ontologia parmenidea, ossia con la convertibilità di “essere” e “non-essere” e quindi con la loro reciproca elisione (annullare, eliminare). Quest’esito non consente un’univoca applicazione dei termini. Untersteiner sintetizza bene l’argomentazione di Gorgia quando nota come, in base ad essa, di tutte le cose «è pensabile tanto l’attributo del “non-essere”, quanto quello dell’ “essere”, quanto, infine, quello dell’essere del loro non-essere». Quanto accade a livello ontologico si riproduce a livello gnoseologico e comunicativo. 

Sul piano della conoscenza Gorgia presenta questo tipo di problema: «Se anche qualcosa tuttavia esistesse non potrebbe essere conosciuto». La tesi viene, a sua volta, così argomentata: se ha ragione Parmenide quando dice che il “non-ente” non può essere né detto, né pensato, «allora tutto ciò che si pensa non può che essere». Tutto ciò che viene pensato quindi è, ed allora non può più esistere distinzione tra il vero e il falso. Venendo meno l’opposizione di “essere” e “non-essere”, tutto il «molteplice» contenuto d’esperienza si sottrae a tale distinzione. Di ogni rappresentazione ed immagine mentale si può, a pari titolo, sostenere che esiste. Secondo questa supposizione gli oggetti del vedere e del sentire esistono in quanto vengono pensati. 

Una volta sviluppata la tematica gnoseologica Gorgia affronta quella comunicativa in questa forma: «ammesso che l’essere esista e sia conoscibile non è significabile direttamente ad altri». Questa circostanza è illustrata da Gorgia in questi termini: ammesso che le cose si conoscano, come è possibile che ciò che uno “vede” lo possa comunicare con le “parole”? D’altra parte, come un qualsiasi contenuto può divenire manifesto a chi ascolta senza che questi l’abbia veduto? Detto ciò Gorgia conclude: «Quello, dunque, che uno non concepisce, come potrà mai concepirlo in seguito all’intervento di un altro per mezzo della parola di costui o per mezzo di un segno generale diverso dall’esperienza?» E poi chi garantisce che colui che ascolta abbia presente lo stesso oggetto di colui che enunci? 

Sono questi i termini con cui Gorgia conduce alle estreme conseguenze l’ontologia eleatica dissaldando definitivamente le “parole” dalle “cose” e quindi il “linguaggio” dalla “realtà”. Le “parole” non sono più “cose”, ma neanche le “cose” sono più “parole”. In tale circostanza, il discorso non morde più il reale e dei fatti può essere detto tutto ed il contrario di tutto. Con la sofistica entra definitivamente in crisi lo statuto arcaico della parola in forza del quale “nominare” significava “essere”, senza che, così, si discernesse tra designante e designato. L’indistinzione (mancanza di distinzione e di differenziazione, disordine, confusione)  faceva valere le “parole” come “cose” e le “cose” come “parole”. 

Ma quando Parmenide identifica con la parola “essere” ciò che è, permane tuttavia impregiudicata l’indistinzione tra “parola” e “cosa”. Ne segue che l’ “essere” è proprio quella “cosa” (parola) che esclude il “non” di tutte le “cose”, ossia la molteplicità di ciò che è. In tal modo l’indistinzione genera contraddizione, fino al punto che i discorsi non hanno più la possibilità di stringere le “cose”. Tutto ciò esplode nella sofistica, e Gorgia è l’espressione più alta di questa crisi del linguaggio. 

Nota finale

Il senso complessivo della sofistica è perfettamente definito da E. Severino quando scrive: «L’importanza della sofistica risiede innanzitutto in questa “autocritica” esplicita e radicale del sapere filosofico; dove, da un lato, l’idea della “verità” esige la più inesorabile intransigenza verso ogni conoscenza che intenda proporsi come “verità”; ma dove, dall’altro lato, diviene manifesto che la filosofia è il luogo all’interno del quale, solamente, può essere esercitata ogni critica al filosofare stesso. Inoltre, nella sofistica si annuncia per la prima volta il tema che nella storia della cultura occidentale riceverà i più profondi sviluppi: l’abbandono della “verità” per ottenere la “potenza” sulle “cose”». 

La sofistica è “tragica” nel suo fondo, ma efficace nel suo esercizio. “Retorica ed Eloquenza” ne sono in un certo senso l’emblema, poiché sono arti del persuadere e perciò del “sortire effetti”. La realtà è dominata perché, tramite la persuasione, è prodotta. Solo così resta in qualche modo catturabile il fondo sempre sfuggente delle “cose”. I sofisti furono signori della “parola”, ma padroneggiarono anche le tecniche in forza del loro atteggiarsi “empirico” nei confronti del reale e dello sfondo pragmatico della loro visione del mondo. 

La sofistica, quindi, non è un vano gioco di parole, non è un banale e spudorato mentire come l’opinione comune da lungo tempo invalsa riteneva; al contrario, essa sorge dalla distanza tra “parola” e “verità”, che l’esercizio stesso della “parola” non abbrevia, ma accentua. Ma la “parola-verità” era una entità mitica che l’illuminismo dei sofisti distrugge: da questo punto di vista, la sofistica si costruisce interamente nella produzione della “verità-realtà” attraverso le “parole”.        


domenica 16 ottobre 2016

PROTAGORA


Protagora può essere ritenuto il rappresentante eminente del filone «empirico-pragmatico» della sofistica. Due sono le sue opere fondamentali: le “Antilogie”, e la “Verità”. La prima di tali opere conteneva probabilmente «quattro» tipi di problemi: intorno agli dei; intorno all’essere; intorno alle leggi e a tutti i problemi che riguardano la vita della città; intorno alle arti. Il secondo scritto, “Verità”, ha preso tale titolo probabilmente da Platone, ma in esso si vuole comunque proclamare il vero stato delle cose contro le «opinioni». Le «opinioni» sono qui da intendere come le incerte ed approssimative convinzioni dei «mortali» circa la realtà. Il titolo dell’opera, “Verità”, è già in se stesso un programma di battaglia ed una provocazione. 

La dottrina di Protagora può essere distinta in «due» fasi: una fase critico-negativa in cui, come dice Untersteiner, vengono dissolte le esperienze nella loro immediatezza, e una fase costruttiva in cui il filosofo si «avvia alla conquista conoscitiva e pratica delle cose». Le “Antilogie” prende in considerazione i “discorsi doppi”, o, più propriamente, lo sdoppiarsi dei discorsi, vale a dire il fatto che del medesimo può esser detto il diverso. 

Tutto ciò comporta che intorno ad una qualsiasi realtà, sia che riguardi il mondo fisico che quello estetico o morale, può esser fatta valere ora una tesi ora l’altra, a seconda delle prospettive e delle circostanze. Il “punto di vista” che si assume ed il “tempo” decidono della “Verità”. Se queste premesse risultano plausibili, se ne può riassumere il senso in una formula sola: di tutto ciò che è, si può dire che è “al modo” in cui se ne fa “esperienza”. In tal modo, al centro della problematica filosofica sta l’esperienza come capacità del “rendersi esperti” e perciò del farsi pratici. 

Esperienza e praticità si stringono così in un nodo solo e in questa luce comincia a guadagnar senso la celebre formula di Pitagora: «Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono». In sostanza, poiché intorno ad una stessa realtà si danno diversi discorsi, la Veritàdi essa dipenderà unicamente dal modo secondo cui se ne fa esperienza. Solo in questo senso l’uomo è misura di tutte le cose. 

La posizione di Protagora è certamente relativistica, ma è tutt’altro che scettica: l’intento del sofista non è quello di mostrare l’impossibilità del vero o, peggio, l’universalità del falso, ma la forma entro cui si dispiega la “Verità”. Vero è dunque ciò che cade nell’orizzonte dell’esperienza, ossia si fa “manifesto” all’uomo ed è “disponibile” al suo dominio. Per questa ragione la formula di Protagora, «Di tutte le cose misura è l’uomo» è meglio tradotta secondo quest’altra formula: «L’uomo è dominatore di tutte le esperienze». Infatti, la parola greca impiegata per dire «cosa» è “chrématon”, ma essa significa pure “affare”, “sostanza”, “denaro”. 

La “Verità” delle cose coincide quindi con il modo secondo cui se ne fa esperienza e quindi con la capacità stessa di manipolarle. La “Verità”, allora, non è separabile dalla pratica e le cose sono dunque vere in relazione al modo secondo cui si manifestano. Se così è, la seconda parte della formula di Protagora può essere tradotta dicendo che l’uomo è dominatore delle esperienze «in relazione alla “fenomenalità” di quanto è reale e alla “non fenomenalità”di quanto è privo di realtà». 

Il modo di sperimentare le cose si sviluppa a partire da come esse appaiono, ed esse consistono unicamente nel loro apparire, che è poi la loro “Verità”. Il rapporto tra “Realtà-Verità-Parola” si svolge per Protagora all’interno della circolarità di esperienza e prassi dove il conoscere è un fare ed il dare un conoscere

Untersteiner riassume bene il pensiero di Protagora quando scrive: «Vera è, dunque, la coincidenza tra sensazione e l’oggetto della sensazione. Ciò si ottiene quando l’uomo riesce a “dominare” le cose, quando cioè egli, a seconda degli stati in cui il suo stesso essere “scorrevole” viene a trovarsi, trova nella materia tra i vari “lógoi” (discorsi) che sono immanenti in essa, quello che corrisponde al suo modo di essere». In questo quadro, risulta evidente come la doppiezza delle opinioni è poco rilevante per la definizione della realtà: la “Verità” del reale, infatti, non è data dalla corrispondenza fra l’anima e le cose, come si crederà a partire da Platone, bensì dall’istantanea inerenza di “sensazione” ed “oggetto”, che è, in assoluto, “esperienza”. 

Su questa base, si producono decisioni pratiche: da un lato, esse dominano ciò che si manifesta; dall’altro, è attraverso tale dominio che si ottengono controprove di verità. L’uomo è dunque misura di tutte le cose non tanto perché dispone di un astratto criterio di verità, sussistente fuori dallo spazio o dal tempo, ma perché sperimenta e realizza. L’etimologia stessa della parola “métron” conferma questa interpretazione, poiché deriva dal verbo “médo” che significa “mi prendo cura, proteggo, regno su”. 

In Protagora, il nesso “Verità-Esperienza” si sviluppa secondo una direzione prevalentemente pragmatica e proprio per questo il reale non può essere inteso come qualcosa di inerte, stabile o, come diremmo noi moderni, oggettivo, bensì come qualcosa di prodotto. Tale produzione produce anche l’«esser vero» di ciò che è reale. Nell’ordine di questo produrre è da includere anche la capacità di produrre idee o opinioni produttive. 

Nota finale: 

Sotto questo aspetto, i sofisti furono i primi grandi inventori di ciò che, in termini moderni, possiamo definire cultura e dei modi della sua produzione. Non è un caso, infatti, ch’essi furono precettori e maestri.  

sabato 15 ottobre 2016

DEMOCRITO E L’ATOMISMO



La scuola di Mileto non finì con Anassimene. Da Mileto proviene anche Leucippo, fondatore dell’«atomismo»che, dopo aver recepito l’eredità dei maggiori filosofi della Ionia, ebbe modo di conoscere a Elea il pensiero di Parmenide attraverso l’insegnamento di Zenone. Ben presto la figura del suo discepolo Democrito di Abdera lo soverchiò a tal punto che i posteri giunsero a mettere in dubbio persino la sua esistenza. 


Come Empedocle e Anassagora, anche Democrito pensa come trasformare l’«essere» di Parmenide, affinché il mondo dell’esperienza, il nascere, il perire e la molteplicità possano trovare una spiegazione soddisfacente. 


Diversamente da Empedocle e Anassagora che avevano pensato a forme qualitativamente differenti dell’«essere», gli atomisti concedono agli eleati il carattere qualitativamente omogeneo dell’«essere», ma non la sua compatta unità. Anzi, proprio dalla frantumazione dell’«essere-Uno» eleatico in infiniti «esseri-uni» nasce l’«atomismo» che afferma l’esistenza di una pluralità infinita di parti indivisibili dell’estensione. Queste parti Democrito le chiama «atomi», termine che in greco significa «non-divisibile». Gli «atomi» sono l’«essere» e quindi hanno le caratteristiche dell’«essere»: sono cioè unità indivisibili, ingenerabili, incorruttibili, eterne, non percepibili dai «sensi», ma dalla «ragione». 

La loro esistenza è nel vuoto che consente loro di distinguersi uno dall’altro e di muoversi. Limitato dal vuoto, ogni «atomo» ha una certa “grandezza”, una certa “figura”, una certa “posizione” e un certo “rapporto d’ordine” con gli altri «atomi». Per queste caratteristiche ogni «atomo» è quello che è, e differisce dagli altri. I fenomeni sono aggregati di «atomi» e le infinite differenze tra i fenomeni sono determinate dalla possibilità di infinite combinazioni di «atomi». Quindi anche gli aspetti qualitativi delle cose debbono essere intesi come determinati da aggregazioni atomiche. Ma se l’insieme degli «atomi» è l’«essere», il vuoto che consente loro di aggregarsi e dispiegarsi è il «non-essere», per cui l’«atomismo», per giustificare “molteplicità e divenire”, è costretto ad affermare che il «non-essere è». 

Il tentativo di conciliare «ragione ed esperienza», iniziato da Empedocle e Anassagora, dopo che Parmenide ne aveva messo in evidenza in modo radicale l’antitesi, trova nell’«atomismo» la soluzione più coerente, non tanto perché gli «atomi» di Democrito, a differenza delle «quattro radici» di Empedocle e delle «omeomerie» di Anassagora non presentano differenze qualitative, quanto per aver mostrato che «ragione ed esperienza» non sono conciliabili se non abbandonando un tratto essenziale della ragione che dice: «l’essere è e il non-essere non è». 

Nota finale 

Con Democrito la ricerca filosofica afferma di voler provare a praticare quella via che Parmenide aveva dichiarato «impraticabile e preclusa a ogni ricerca». 


venerdì 7 ottobre 2016

ANASSAGORA


Anassagora di Clazomene tiene fermo il principio di Parmenide secondo cui l’«essere» non può generarsi dal niente e risolversi nel niente, pertanto non solo i «quattro» elementi, ma «tutte le cose» persistono nell’unità originaria dell’«essere». Di nessuna di esse si può propriamente dire che nasca o muoia, ma solo che si compone e si separa. 

«Ma il nascere e il morire non considerano correttamente i Greci: nessuna cosa, infatti nasce e muore, ma a partire dalle cose che sono si produce un processo di composizione e divisione; così dunque dovrebbero correttamente chiamare il nascere “comporsi” e il morire “dividersi”» (frammenti 17). 

Non solo, ma poiché un ente può diventare qualsiasi altro ente, ad esempio il cibo diventa carne, e la carne, con la morte, diventa acqua e terra, è allora necessario affermare, proprio in forza del principio della permanenza dell’«essere», che in ogni ente vi è già tutto ciò che esso può diventare, e quindi che in ogni ente vi è il «Tutto». 

Come Empedocle, anche Anassagora ammette che gli elementi sono “qualitativamente” distinti l’uno dall’altro, ma, a differenza di Empedocle, ritiene che gli elementi non siano solo le «quattro radici», ma tutte le cose presenti in ogni cosa sotto forma di particelle invisibili che Anassagora chiama «semi» (spérmata). La differenza tra le cose è determinata dal prevalere dei semi di un certo tipo rispetto ad altri tipi, per questo un pezzo di ferro è diverso da un pezzo di legno. Questi semi Aristotele li chiama “omeomerie” in quanto sono simili (ómoios) al tutto che costituiscono. 

Spiegata la “molteplicità” con la “prevalenza” di “omeomerie” dello stesso tipo, Anassagora spiega il “divenire” come “dispersione e ricomposizione” delle unioni di “omeomerie”. Così, nutrendosi di pane, questo diventa carne, sangue e ossa solo perché nel pane ci sono le “omeomerie” di carne, sangue e ossa che si separano dal pane per congiungersi a ciò a cui sono congeneri. Il «divenire» delle cose non è dunque la nascita o la morte dell’«essere», ma il raccogliersi e il disperdersi delle eterne “omeomerie” dell’«essere». Quando le “omeomerie” si raccolgono sono visibili ai nostri sensi, quando invece si disperdono si sottraggono alla visione. In gioco non è l’«essere», ma l’apparire e lo sparire di ciò che sempre permane. 

A presiedere il gioco della composizione e della scomposizione delle “omeomerie”, da cui dipende l’apparire e lo sparire delle cose, Anassagora pone una «Mente» (Noús) che è l’unico ente in cui non vi è mescolanza e, per questa sua purezza, può conoscere e dominare tutto. 

«Tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza è illimitata, indipendente e non mescolata ad alcuna cosa, ma sta sola in sé. Se infatti non stesse in sé, ma fosse mescolata a qualche cosa d’altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolata a qualcuna. In tutto si trova infatti parte di ogni cosa, come ho detto prima, e le cose mescolate le sarebbero di ostacolo, si che non avrebbe potere su alcuna cosa, come lo ha stando sola in sé» (frammenti 12). 

Platone loda Anassagora per aver affermato un «principio» intelligente come causa dell’ordine del mondo, e Aristotele, per lo stesso motivo, afferma: «Chi disse che c’è un “intelletto” anche nella natura, così come negli esseri viventi, causa della bellezza e dell’ordine dell’universo fece la figura di un uomo assennato e i predecessori, al confronto, parvero gente che parla a caso» (Metafisica, I 3, 984b). 

Ma Platone confessa la sua delusione nel constatare che Anassagora non si serve dell’«intelletto» per spiegare l’ordine delle cose e ricorre agli «elementi naturali», e, analogamente, Aristotele dice che Anassagora fa uso dell’«intelletto» come di un “Deus ex machina” tutte le volte che si trova nell’imbarazzo a spiegare qualcosa per mezzo delle cause naturali, mentre negli altri casi a tutto ricorre fuorché all’«intelletto». 

Nota finale: In questo modo sia Platone sia Aristotele hanno indicato l’importanza e i limiti della concezione di Anassagora.  

   

sabato 1 ottobre 2016

EMPEDOCLE E LA DOTTRINA DEI QUATTRO ELEMENTI


Empedocle di Agrigento è il primo pensatore che cerca di risolvere l’antitesi aperta da Parmenide tra «ragione ed esperienza», tentando di salvare, da un lato, il principio che nulla nasce e nulla perisce e quindi che l’«essere» sempre permane, e, dall’altro, i fenomeni che l’esperienza ci attesta. Dunque il nascere e il perire, intesi come un venire dal nulla e un andare nel nulla, sono impossibili, perché l’«essere è»; tuttavia nascere e perire hanno una loro plausibile realtà se vengono intesi come un venire da cose che sono e un trasformarsi in cose che pure sono. 

Nascita e Morte sono dunque mescolanza e dissoluzione di determinate sostanze che sono ingenerate e indistruttibili, e quindi che permangono eternamente uguali. Queste sostanze sono quattro: “Acqua, Terra, Aria e Fuoco” che Empedocle nomina «radici di tutte le cose». Empedocle, inoltre, chiama “Amicizia” la forza che tiene unite le «quattro» radici in cui è contenuto tutto l’«essere» dell’universo diveniente, e chiama “Contesa” (opposta) la forza che separa le une dalle altre radici dell’«essere» producendo il «divenire» cosmico. 

Con Empedocle diventa esplicito il tema che nel «divenire» cosmico, non solo gli enti non si generano dal niente e non si dissolvono nel niente, ma che il loro stesso «divenire» non può essere determinato dal niente, ma da una forza o da un sistema di forze (“Amicizia” e “Contesa”) che producono e distruggono le diverse configurazioni delle cose. Tale forza viene intesa poi da Anassagora come «Mente» (Noús) che unifica in sé le due opposte attività dell’ “Amicizia” e della “Contesa” e che anticipa il concetto platonico di «Demiurgo» e il concetto aristotelico di «Motore Immobile» dell’universo e più in generale di causa efficiente. 

Con Empedocle diventa inoltre esplicita la nozione di elemento (Stoichéion) inteso come qualcosa di originario e «qualitativamente immutabile» che produce la molteplicità, non con una sua trasformazione qualitativa, ma con il suo diverso modo di combinarsi e separarsi dagli altri elementi altrettanto immutabili nelle loro qualità. 

Nota finale: 

Il tentativo di Empedocle di conciliare l’esperienza del «divenire» col principio parmenideo dell’«immutabilità» dell’«essere» indica il senso fondamentale in cui verrà operata tale conciliazione, ma non raggiunge l’intento. Infatti se ogni cosa possiede una propria qualità, per cui è quella che è e si distingue dalle altre, non è possibile affermare che soltanto le «quattro radici» siano l’«essere», perché l’«essere» è tutte le qualità e determinazioni che formano l’universo. Con questa obiezione Anassagora oltrepasserà la concezione empedoclea dell’«essere» per giungere a quella conciliazione di esperienza e ragione che ancora sfugge a Empedocle.