sabato 25 giugno 2016

LA SOCIETÀ GRECA ALL’EPOCA DELLA NASCITA DELLA FILOSOFIA


Due sono i fatti politici da segnalare come decisivi per la nascita della filosofia: il costituirsi di ordinamenti repubblicani nella “Pólis” e la formazione delle colonie greche in Oriente e in Occidente. Per quanto concerne il primo punto è bene ricordare che le prime “Póleis” poggiavano su un’economia agraria e possedevano un’estensione variabile di retroterra. Anche la situazione geografica della Grecia, la forte articolazione del territorio dovuta alle catene montuose e alle innumerevoli isole e insenature, favorì la nascita di piccole comunità economiche-politiche nelle quali, dopo il dissolvimento dell’ordinamento aristocratico, che già aveva a suo tempo spodestato i re, si affermò la prima forma di democrazia, dove ciascuno era consapevole di essere proprietario delle condizioni e dei risultati del proprio lavoro. 

Ne nacque un clima di competizione e concorrenza che, come si può leggere in Esiodo, «spingeva il contadino a competere con il contadino e l’artigiano con l’artigiano». La competizione tra i ceti, oltre ad attrarre i talenti artistici degli artigiani, produsse quella ricchezza che consentì alla classe eminente quella vita d’ozio (intesa come libertà dalla condizione di dover provvedere ai propri bisogni di vita col lavoro fisico) che lo stesso Aristotele individua come base per la creazione dell’arte, della letteratura, della scienza e della filosofia. 

Il secondo elemento da sottolineare, e che in un certo senso riconferma il primo, è il fatto che la filosofia nasce prima nelle colonie che nella madre-patria e precisamente nelle colonie orientali dell’Asia minore e in quelle occidentali dell’Italia meridionale. Le colonie greche, a differenza delle colonie dell’età moderna, poste sempre in una condizione di schiavitù verso la madre-patria, erano fondate per diventare subito città indipendenti. 

Lo scopo della loro occupazione non era infatti lo sfruttamento del territorio, ma la fondazione di nuovi insediamenti che servivano per contenere il fenomeno di sovrappopolazione nella madre-patria. Indipendenti dalla madre-patria, le colonie, con la loro operosità e i loro commerci, raggiunsero rapidamente il benessere e quindi la cultura, mentre la mobilità, che la lontananza dalla madre-paria lasciava loro, consentì la creazione di libere costituzioni prima di quest’ultima. Le più favorevoli condizioni di libertà e di economia nelle colonie permisero la nascita e il fiorire della filosofia, che solo in seguito passò nella madre-patria, ma non a Sparta, che non eccelleva per ricchezza e rispetto delle libertà individuali, bensì ad Atene dove, ce lo ricorda Platone, esistette la libertà più grande di cui i greci abbiano mai goduto. 

Prima che in madre-patria la filosofia nasce nelle colonie greche dove, essendoci un minor controllo politico-religioso, c’era probabilmente maggior libertà di pensiero. Ed è in Asia Minore, a Mileto e ad Efeso, che prende l’avvio la scuola ionica con Talete, Anassimandro, Anassimene da un lato e con Eraclito dall’altro l’indagine intorno alla «natura», indagine di tipo non più semplicemente descrittivo, ma esplicativo, rivolta alla molteplicità delle cose con l’intento di trovarvi un «principio unitario». 

Con i pitagorici passiamo dalla Ionia all’Italia meridionale seguendo l’itinerario di Pitagora che, nato a Samo all’incirca nel 575 a.C., si trasferì quarantenne a Crotone, dove fondò una scuola che fu anche un’associazione religiosa e politica, la cui dottrina era considerata un segreto a cui potevano accedere solo gli adepti che però non potevano divulgarla. Questo spiega perché lo stesso Aristotele non sappia nulla di Pitagora e quasi nulla dei singoli esponenti della scuola che nomina globalmente con la celebre espressione: «I cosiddetti pitagorici». 

Sempre nell’Italia meridionale, ad Elea (Velia), città della Magna Grecia, nasce e si sviluppa alla fine del VI secolo a.C. una importante scuola di pensiero che, stando alle testimonianze di Platone e di Aristotele, conta come suoi più significativi rappresentanti Senofane, Parmenide, Zenone e Melisso. Ed anche se la tradizione riconosce in Senofane il fondatore della scuola (la storiografia più recente ha sollevato dubbi in proposito), è in realtà Parmenide con la sua dottrina dell’«essere» che svolge il ruolo di protagonista, e da Parmenide prenderanno le mosse i suoi due discepoli, Zenone e Melisso

Seguono i filosofi pluralisti: sotto questa denominazione la storiografia filosofica rubrica le figure di Empedocle, Anassagora, Leucippo e Democrito che, nel tentativo di accordare «ragione ed esperienza» non conciliate da Parmenide e da Eraclito, rinunciano a porre un unico «principio» per la spiegazione di tutte le cose a favore di una «pluralità» di principi che consentisse loro di accordare le due istanze legittime ma contrapposte che i filosofi di Elea e di Efeso avevano inaugurato. 

Il carattere contraddittorio del reale, messo in evidenza dalla sofistica (Atene del V secolo), è già rappresentato simbolicamente dalla «tragedia» che, mostrando allo spettatore il volto ambiguo e doloroso dell’esistenza, si pone come tramite tra “mito” e “filosofia”. Maestri non più di scienza e di grandiose ipotesi cosmologiche , i sofisti (Protagora, Gorgia, Prodico di Ceo, Antifonte di Atene, Ippia d’Elide, Trasimaco e Crizia) si presentano come i signori della parola, inventori della retorica produttrice di persuasione. Il linguaggio svincolato dal legame con le cose, diventa potente strumento di dominio in mano all’uomo, soggetto privilegiato della loro ricerca. 

Tra questi emerse, distaccandosene, la figura di Socrate di cui il «platonismo» è uno degli sviluppi della sua filosofia e certamente quello storicamente vincente: tuttavia non è l’unico. In Grecia fiorirono infatti altre scuole socratiche. Vale la pena segnalare la scuola di “Eretria” e quella di “Megara”. Quest’ultima è caratterizzata dal fatto che identifica il «Bene» di Socrate con l’«Uno» della scuola eleatica e, perciò stesso, riprende il “monismo” di questa scuola. Su questa base i megarici negano l’esistenza del diverso e così pure ogni generazione e corruzione. In particolare la polemica dei megarici da un lato sembrò diretta contro l’Accademia per rivolgersi poi contro Aristotele nella critica del «movimento» e del «divenire». Fondatore della scuola fu Euclide di Megara

Scuola di notevole interesse fu quella “Cinica”, fondata da Antistene e continuata da Diogene di Sinope, noto, quest’ultimo, per i suoi comportamenti singolari e provocatori. Il carattere proprio di questa scuola fu la critica dell’universale. Negando l’universale, i cinici negarono la possibilità del giudizio, ossia la legittimità di includere un soggetto in un predicato. Ciò avrebbe reso identico il diverso, e avrebbe mescolato l’uno e i molti. 

Infine è da ricordare la scuola “Cirenaica”, che fu fondata da Aristippo di Cirene (V-VI sec. A.C.). Gli interessi di questa scuola furono soprattutto «etici». I cirenaici ritennero che la «conoscenza» fosse riducibile alle «sensazioni». Le «sensazioni», inoltre, sono da assumere come criterio della condotta pratica, e quindi come parametro nella scelta tra quanto è da seguire e quanto è da sfuggire. Per i cirenaici il vero «bene» fu il piacere nell’atto stesso del suo realizzarsi. La felicità non s’identifica con la somma dei piaceri passati, che, in quanto trascorsi, producono rimpianto; né, d’altra parte, s’identifica con l’attesa dei piaceri futuri che proprio perché attesi non è detto che possano essere attuati. Tutto ciò produce «angoscia». È bene dunque attenersi all’istante. La dottrina “Cirenaica” può essere considerata precorritrice dell’ “Epicureismo”, mentre il “Cinismo” confluirà, più tardi, nell’indirizzo “Stoico”. La cultura filosofica ne sarà comunque significativamente condizionata. 

Ad Atene, il movimento filosofico incominciò con Anassagora verso il 450 a.C., e per circa un secolo e mezzo il suo centro principale fu in questa città. I massimi nomi sono quelli Socrate, Platone, Aristotele. Al temine di questo periodo, Epicuro e Zenone fondarono ad Atene le due grandi scuole filosofiche, l’ “Epicureismo” e lo “Stoicismo”, che si divisero il dominio intellettuale del mondo classico nei secoli successivi. Epicuro, che era nato da genitori ateniesi a Samo, aveva stabilito la sua scuola a Lampsaco, prima di trasferirsi ad Atene. Il fondatore dello “Stoicismo”, Zenone, era invece un mercante fenicio proveniente da Cizio, nell’isola di Cipro.


sabato 18 giugno 2016

LA FILOSOFIA ANTICA TRA ORIENTE E OCCIDENTE


Una tradizione che risale alla scuola giudaica di Alessandria (I. sec. a.C.) sostiene che la filosofia greca sarebbe derivata dall’Oriente, anzi che i «cinque» principali indirizzi filosofici che per primi fecero la loro comparsa in Grecia sarebbero delle semplici variazioni delle culture dei «cinque» principali popoli orientali, e precisamente: il “Sistema Pitagorico” sarebbe derivato dalla sapienza cinese, il “Sistema Eleatico” dalla sapienza indiana, il “Sistema Eracliteo” dalla sapienza persiana, il “Sistema Empedocleo” dalla sapienza egiziana, la “Filosofia di Anassagora” dalla sapienza giudaica. 

Oggi questa tesi non ha più sostenitori e varie sono le ragioni adottate a favore dell’originalità greca della filosofia. Nell’epoca classica né gli storici, né i filosofi fanno il ben che minimo accenno ad una pretesa derivazione della filosofia dall’Oriente. 

Forse l’argomento più decisivo che toglie ogni dubbio circa una pretesa origine orientale della filosofia è quello che prende in considerazione i caratteri peculiari del pensiero greco. Scrive in proposito Nicola Abbagnano nella sua “Storia della filosofia” (Torino 1969): «L’osservazione decisiva che bisogna fare a proposito di questa tesi è che, se anche si presume (giacché prove in proposito non esistono) la derivazione orientale di alcune dottrine della Grecia antica, ciò non implica anche l’origine orientale della filosofia greca. 

La “Sapienza Orientale” è essenzialmente «religiosa»: essa è il patrimonio di una casta sacerdotale la cui sola preoccupazione è quella di difenderla e di tramandarla nella sua purezza. Il solo fondamento della “Sapienza Orientale” è la «tradizione». La filosofia greca, invece, è «ricerca». Essa nasce da un atto fondamentale di «libertà» di fronte alla «tradizione», al costume e ad ogni credenza accettata come tale. 

Il suo fondamento è che l’uomo non «possiede» la sapienza ma deve «cercarla»: essa non è «sofia», ma «filosofia», amore della sapienza, indagine diretta a rintracciare la «verità» al di là delle consuetudini, delle tradizioni e delle apparenze. Con ciò il problema stesso del rapporto tra filosofia greca e cultura orientale perde molta della sua importanza. 

Si può ammettere come possibile e anche verosimile che il popolo greco abbia desunto dai popoli orientali, coi quali intratteneva da secoli rapporti e scambi commerciali, nozioni e ritrovati che quei popoli conservavano nella loro tradizione religiosa o avevano scoperto per le necessità della vita. Ma ciò non toglie che la filosofia, e in generale la ricerca scientifica, presso i Greci  si manifesta con caratteri originali, che ne fanno un fenomeno unico nel mondo antico e l’antecedente storico della civiltà occidentale di cui essa costituisce ancora una delle componenti fondamentali. 

In primo luogo, difatti, la filosofia non è in Grecia, come in Oriente, il patrimonio o il privilegio di una casta privilegiata. Ogni uomo, secondo i Greci, può filosofare perché l’uomo è «animale ragionevole» e la sua ragionevolezza significa la possibilità di cercare in modo autonomo la «verità». 

Le parole con cui si inizia la «Metafisica» di Aristotele: «Tutti gli uomini "tendono" per natura al sapere, esprimono bene questo concetto giacché “tendono” vuol dire che non solo lo desiderano, ma possono conseguirlo. In secondo luogo, e come conseguenza di ciò, la filosofia greca è “indagine razionale” cioè autonoma, che non si appoggia a una “verità” già manifesta o rivelata, ma soltanto alla forza della “ragione” e in questa riconosce la sua unica guida. Il suo termine polemico è abitualmente l’opinione corrente, la tradizione, il mito, al di là dei quali essa cerca di procedere; e anche quando perviene ad una conferma della tradizione questa conferma deriva il suo valore unicamente dalla forza razionale del discorso filosofico».    

venerdì 17 giugno 2016

UNITÀ E TOTALITÀ


Dalla “Terra al Cielo”, dall’oscurità della “Grande Madre” alla luce delle divinità uraniche è il passaggio che l’umanità ha compiuto nel corso della sua evoluzione sia in Oriente, sia in Occidente. Ma è solo "GRECO" e non "ORIENTALE" quello sguardo che non si arresta al “Cielo”, ma al di là del “Cielo” (úper-ouranós), scorge quella dimensione che accoglie tutte le vicende umane e divine. Questa dimensione, il mito greco la chiama “Cháos” (apertura), e nell’apertura del “Cháos” la “Filosofia”, che dal mito si emancipa, testimonia l’imporsi di quell’ordine (Cosmo) che tutto raccoglie (Lógos) fondandosi su di sé (Epistéme) e manifestandosi (Alétheia). 

Questo sguardo onnicomprensivo, che non lascia nulla fuori di sé, si rivolge alla “Totalità” delle cose per scorgervi l’ “Unità” che le accomuna. Per questo si dice che Talete è il primo filosofo; la sua domanda sul principio di tutte le cose inaugura la filosofia al di là del mito, della religione, della poesia, delle opinioni dei mortali. 

La parolaTotalità”, nel dispiegare l’orizzonte della filosofia come massimo orizzonte, genera quelle parole «essere e niente» da cui ogni discorso propriamente filosofico non può prescindere. Rivolgersi alla “Totalità”, infatti, significa percorrere l’estremo confine al di là del quale non esiste «niente» e assistere al raccogliersi di tutte le cose, le più diverse e le più antitetiche in quella suprema "Unità" che è l’«essere», perché, per differenti che siano, tutte le cose «sono». 

A questo punto la filosofia può guardare al mito come a una «non-verità», non solo per la manipolazione che la violenza poetica opera su tutte le cose non lasciandole così come si danno, ma perché il mito non è stato in grado di elevare il suo sguardo sulla “Totalità” e quindi di escludere che, oltre l’immensità del “Cháos”, si estendano altri universi imprevisti e imprevedibili. Lo sguardo filosofico sulla “Totalità” delle cose è quindi ad un tempo uno sguardo «escludente», ed «escludente» sarà anche il discorso che si deve tenere all’interno di quello sguardo. Tutto questo significa che la «verità» filosofica non avrà la struttura della «descrizione» come nella narrazione mitica, ma quella della «negazione», cioè dovrà essere capace di escludere tutto ciò che non afferma. 

Una simile capacità di esclusione si chiamerà «fondamento», e fondati saranno i discorsi filosofici che non si limitano ad affermare qualcosa come fa il mito, ma sono in grado di mostrare la «necessità» di quell’affermazione, ossia l’«impossibilità» del contrario. Il sapere che ne scaturisce sarà detto «incontrovertibile», tale cioè che nessun dio e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza o il numero dei loro argomenti, potrà mai confutare. 

Il costituirsi di questo sapere separa nettamente la filosofia greca dalla sapienza orientale, dove in gioco non è la costituzione di un sapere «incontrovertibile», ma la liberazione dell’uomo dall’illusione del mondo. Per quante assonanze linguistiche e concettuali possano rintracciarsi tra le due forme di sapere, la distanza tra loro rimane comunque abissale, perché abissale è ciò che separa il problema della «salvezza», in cui si trattiene l’antica sapienza orientale, dal problema della «verità» che la filosofia greca con le sue prime scuole inaugura. 

sabato 11 giugno 2016

DOXA ED EPISTÉME


Epistéme è una parola che viene resa in latino come “scientia” e in italiano con «scienza». Ma così tradotta la parola perde il suo significato originario che è poi lo stesso di quello indicato dalla parola “Cosmo”. “Epi-stéme”, infatti, è composta dal verbo “istemi” che vuol dire «sto» e da “epi” che vuol dire «sopra». “Epistéme” vuol dire allora «ciò che sta sopra», ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla, come accade nel linguaggio mitico-religioso, né alla forza persuasiva del dire retorico che, con la seduzione, riscuote consensi. 

Emancipandosi dal discorso mitico, religioso e retorico, la “Filosofia”, inaugurandosi come “Epistéme”, si offre come quel dire che poggia esclusivamente su di sé. “Cosmo, Lógos, Epistéme” appaiono a questo punto come sinonimi che dicono l’imporsi di ciò che si mostra così come si mostra, e la “Filosofia” come cura di ciò che nella luce si mostra, è cura della «Verità». La parola «Verità» in greco è resa da “Alétheia”, una parola composta da un “a” privativo e dal verbo “lantháno” che significa «restar nascosto», da cui anche in italiano «latente», «latitante». Alétheia” vuol dire allora il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone. 

Ma a mostrarsi non è solo la «Verità», ma anche l’«apparenza» (Dóxa). La parola deriva dal verbo “dokéo” che significa «sembrare», e anche la «sembianza» è qualcosa che appare, che si espone, che si offre alla vista, che si dà. La “Filosofia” greca nasce separando la «Verità» dalla «sembianza»; nell’apertura dischiusa dalla luce, la prima operazione filosofica è in questa «separazione» tra le varie forme dell’«apparire»; ma qual è il criterio? In che modo è possibile discernere? 

OriginariamenteDóxa significava «gloria», «fama», «splendore» e si riferiva all’ammirazione che l’eroe o il sapiente acquistavano mettendosi in luce. Siccome la fama dipende dall’«opinione» che altri si fanno di qualcuno per come «appare», “Dóxa” finì per significare tanto l’«apparenza» quanto l’«opinione» che quell’«apparenza» generava. Ma l’«opinione», pur fondandosi sull’«apparire», è mutevole; trattandosi di una congettura può essere tanto vera quanto falsa. Al pari della «Verità» si impone, ma il suo imporsi può essere tolto. 

L’«apparenza» inganna non perché è qualcosa che «appare», ma perché pretende col suo «apparire» di precludere ogni altro «apparire» e, con questa preclusione, di imporre se stessa come unica «Verità». E come il “Mito” differisce dal “Logos” non per il contenuto, ma per la manipolazione poetica con cui espone ciò che si manifesta, così la “Dóxa” differisce dalla «Verità» non perché manifesta qualcosa, ma perché alla base di questa manifestazione c’è solo l’«opinione» che uno s’è fatto sulle cose, in nulla dissimile dall’«opinione» che, nel contesto mitico, il poeta si fa del mondo. 

La “Dóxa, allora, non è quel sapere che sta in sé (Epistéme), che ha in sé il proprio fondamento, perché si fonda sull’«opinione» (Dóxa) che uno privatamente s’è fatto delle cose. In questo senso Eraclito potrà dire: «Le opinioni umane sono giochi da ragazzi» (frammenti, 70) e può paragonare coloro che si fondano su «opinioni» private ai “sordi” «Che non sanno né parlare, né ascoltare» (frammenti, 19) o ai “dormienti”, perché mentre «I desti hanno un unico mondo comune, nel sonno ognuno si apparta in un mondo privato» (frammenti, 89). La stessa metafora la ritroviamo in Platone là dove distingue i “filosofi”, «amanti del farsi spettacolo della verità», dai “filodóxoi, «amanti degli spettacoli». Dei primi afferma con convinzione che «sono in condizioni di veglia», dei secondi che «vivono in un sogno». Di qui Platone trae la conclusione che  «Se qualcosa essi conoscono, non ne avremo certo invidia» (Repubblica, 476 a-d).    


venerdì 10 giugno 2016

MITO E LOGOS


La parolaFilosofia” significa letteralmente aver cura (philo) del sapere (sophía). Se si accetta l’ipotesi che in “sophía" si riflette – come nell’aggettivo “saphés”, che significa «chiaro», «manifesto»,«evidente» - il senso di “pháos”, la «luce», allora “Filosofia” significa l’«aver cura per ciò che si manifesta nella luce». La correlazione tra «illuminazione» e «sapere» è anche il cardine della sapienza orientale, ma il greco, rispetto all’orientale, fa un passo in più, un passo che sarà decisivo per la storia della “Filosofia”. A differenza dell’orientale, infatti, che descrive quanto sta nella luce nelle modalità in cui l’illuminazione interiore glielo manifesta, il greco lo descrive nelle modalità in cui si dà. Questa differenza è la stessa che corre tra “Mito” e “Logos”, una coppia di termini la cui sorte è solidale a quella appena considerata tra “Cháos” e “Cosmo”. 

Il “Mito ha in comune col “Logos” l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento. Per il “Mito” non c’è realtà che non si risolva nel mondo interiore «soggettivo», ampliato e proiettato verso l’esterno, così come non c’è un mondo interiore come «realtà psichica del soggetto», che non sia proiettata e reificata in forme di potenze divine. La narrazione mitica vive quindi la «soggettivazione» della realtà esterna e l’«oggettivazione» del mondo interiore. Per effetto di questa saldatura, per il “Mito” non c’è mondo che non si risolva nella visione collettiva del mondo, per cui in ogni “Mito” è possibile leggere una determinata fase di sviluppo della coscienza sociale collettiva. 

Il passaggio dal “Mito”, rappresentazione fantastica e poetica della realtà, al “Logos”, discorso razionale sulle cose, segna l’inizio della speculazione filosofica greca, da cui prenderà l’avvio tutto il pensiero occidentale. Ulisse che vince le lusinghe delle «sirene» (Odissea) è immagine esemplare della umana sete di “sapere” e della coraggiosa “volontà”. 



Il senso della parolaLogos è illuminato dall’uso greco del verbo “léghein” che significa «stendere» e insieme «raccogliere». Tale senso si ripropone nelle parole tedesche “legen, lesen,“ spesso collegate con preposizioni, donde: “ahrenlesen, traubenlesen” che significano «mietere», «vendemmiare», dove l’azione di «raccogliere» il frumento, o l’uva, non ha altro senso che quello di «stendere» il raccolto in ordine e «tenerlo insieme». Il “Logos” è dunque quella raccolta originaria dove le cose giacciono nella loro esposizione e, così esposte, si offrono alla presenza. 

Mentre nel “Mito le cose sono usate per dire il vissuto dell’uomo, nel “Logos” le cose sono lasciate essere così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin). La parola “poiéin” in greco significa «produrre». Da “poiéin” deriva la parola “poíesis” da cui la nostra «poesia». La «poesia», di cui si alimenta il “Mito”, è una produzione di significati che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose, ma ciò che l’uomo impone alle cose, in altri termini è la violenza poetica sul contenuto quale si dà. La “Filosofia” rappresenta il tentativo riuscito di liberarsi da questa imposizione, affinché nel “Cháos” si imponga il “Cosmo”, qui inteso come ciò che ha la forza di imporsi. La parola greca che nomina l’imporsi di ciò che ha la forza di farlo senza ricorrere alla manipolazione poetica è «epistéme».  
    

sabato 4 giugno 2016

CHÁOS E COSMO


Prima di inoltrarci nella distinzione tra “dóxa” ed “epistéme”, due concetti base da cui prende avvio l’articolazione vera e propria della Filosofia, è opportuno esplorare quel terreno mitologico in cui sono gli antecedenti simbolici dei modelli concettuali greci. Quando si parla di mito greco, si parla soprattutto di Esiodo che, nella Teogonia, il cui titolo propriamente significa «generazione degli dei», ci narra l’origine degli dei e le successive generazioni divine. In apertura, leggiamo: «All’inizio, per primo, fu il “Cháos”; in seguito quindi la Terra dal largo petto, dimora sicura per sempre di tutti gli immortali, che abitano le cime del nevoso Olimpo, ed il Tartaro tenebroso nei recessi della Terra dalle larghe vie; quindi venne Eros (Amore), il più bel frutto degli dei immortali, colui che scioglie le membra, che di tutti gli dei e di tutti gli uomini doma nel petto l’animo ed i saggi consigli» (Teogonia, 116-122). 

Nella lingua greca matura, quella ad esempio di Platone e di Aristotele, “Cháos” significa «mescolanza», «magma», «disordine»; ad essa si contrappone la parola “Cosmo” con cui si intende ciò che ha «ordine», ciò che è uscito dal «disordine» del “Cháos”. Eppure queste due parole hanno alla radice un significato più originario, quello per cui è possibile leggere nel mito l’antica traccia di quello che sarà poi lo sguardo filosofico. 

A questo proposito è utile ricordare che la radice indoeuropea della parola “Cháos” è “Cha” che interviene in vari gruppi di parole quali “Chásco”, “Cháino” che significano «mi apro», «mi dischiudo». Questo riferimento alla radice ci consente di pensare che “Cháos” originariamente non significava tanto «disordine» e «mescolanza», quanto quell’«apertura» che Esiodo colloca «all’inizio» e «per prima», prima della stessa Terra, «nata in seguito», e prima di tutti gli dei, dal momento che ogni teogonia e ogni cosmogonia, ogni generazione di dei, di uomini e di mondi accadono dopo di essa e all’interno di essa. 

Annunciandola «all’inizio» e «per prima», Esiodo anticipa quella che poi sarà la prima categoria filosofica: la «totalità», ovvero la dimensione che non lascia fuori di sé nulla, e che perciò include ogni possibile situazione cosmica, umana e divina. Questa dimensione manca a tutta la sapienza orientale, sia indiana che cinese, così come manca alla sapienza ebraica che fa incominciare ogni cosa da Dio. 

Tradotto come solitamente lo si traduce, “Cosmo” significa «ordine», e precisamente quell’«ordine» che si realizza nel mondo fisico, per cui si parla di «ordine cosmico» contrapponendolo, ad esempio, a quello «spirituale» e «divino». Ed è proprio assumendo il termine in questa accezione che Aristotele dice che i primi filosofi, proprio perché si interessavano del “Cosmo”, erano dei fisici. 

In realtà la parolaCosmo” si rifà a quella radice indoeuropea “Kens”  che si ritrova anche nel latino “censeo” che, nel suo significato più pregnante, significa: annuncio con autorità, decreto. “Cosmo” è dunque quella parola che si impone e, imponendosi, non può essere smentita. Nel suo più antico significato “Cosmo” non è quindi l’«ordine» o il «mondo», da cui la parola moderna «cosmologia», ma è «ciò che si impone» sopra tutto, sopra anche le parole degli uomini, per cui Eraclito potrà dire: «non ascoltando me, ma il “Logos”, è saggio riconoscere che tutto è uno». 

Ma che cosa si impone nell’apertura dischiusa dal “Cháos”? Il mito ci ha portato dalle tenebre oscure della Terra-madre alla luce diffusa dalla volta celeste; poi, retrocedendo da queste due figure, comuni tanto al mondo greco quanto al mondo orientale, ha detto “Cháos”: apertura originaria e totale al cui interno si impone una parola. Questa retrocessione ad una figura più originaria del cielo e della terra, sconosciuta al mondo orientale, è esclusivamente «greca», e da essa prende avvio quell’episodio, ignoto all’Oriente, che da oltre due millenni andiamo chiamando «Filosofia».  




venerdì 3 giugno 2016

DALLA TERRA AL CIELO



Le rappresentazioni dell’età della pietra ci offrono un’immagine di divinità che archeologi, etnologi e storici della religione convergono nel chiamare «Grande Madre», la dea dei culti primordiali, simbolo della “terra” che come il grembo materno contiene e dà alla luce la vita. Le figure della «Grande Madre» pongono in evidenza il simbolismo del “vaso pieno”. Oltre al simbolismo del “vaso”, che come il grembo materno contiene l’oscurità primitiva, il cielo notturno generatore, la forza ctonia (Terra = Khthón), capace di dare alla luce, la «Grande Madre» viene rappresentata anche come “albero della vita” che, saldamente piantato con le sue radici nella terra che lo nutre, si innalza verso l’alto e, con i suoi rami e le sue foglie, genera quell’ombra protettiva dove la materia vivente trova il suo rifugio. Al carattere materno dell’albero appartiene non solo il “nutrire”, ma anche il “generare”. 




Dallo sfondo della Terra-Madre, di cui le simbologie del vaso e dell’albero sono solo due esempi dei molti che se ne potrebbero raccogliere, l’umanità si separò per volgere il proprio sguardo verso il «Cielo». Il «Cielo» è una regione superiore inaccessibile all’uomo; la dimensione dell’«altezza», per cui l’«Altissimo» sarà uno degli attributi divini, genera nell’immaginazione primitiva esseri sovrumani, esseri cioè al di là dell’umano, quindi «Trascendenti». 

Questo significa collocare altrove le radici dell’uomo, non più sulla terra «come le piante» ma, come ci ricorda Platone, nel “Cielo”: «nostra patria, dove fu l’origine prima dell’anima e dove Iddio tiene sospesa la nostra testa». Qui è la dimora delle «idee» che, prima ancora di essere pensieri, sono «visioni» rese possibili dalla luce diurna del “Cielo”. La radice «id» su cui è costruita la parola «idea» è infatti la stessa che rintracciamo nel verbo «vedere» e nel suo antecedente latino: «video», e greco: oráo, ópsomai, éidon. L’altezza del “Cielo” porta in alto lo sguardo, al di sopra delle cose che popolano la terra, al di là. 

La parola «trascendenza» dice appunto questo sguardo che va al di là, che oltrepassa l’impronta della terra, ossia lo spessore di materia che dà corpo alle cose, per coglierne l’essenza pura non costretta dai limiti della materia. «Tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, (Iddio) tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto». Così conclude Platone nel brano tratto dal “Timeo”. A differenza di tutti gli animali, infatti, l’uomo è eretto e, per effetto di questa sua posizione corporea, ha innanzi a sé un orizzonte, o se preferiamo, un “panorama”, dove nella parola è la traccia di quel «vedere», in greco oráo, senza di cui non c’è “visione” o “idea” alcuna. 

La posizione eretta fa dell’uomo un destinato a vedere, non solo le cose della terra che vedono anche gli animali, ma l’essenza delle cose, depurate completamente dalla materia terrena. Tale essenza, scevra di ogni contaminazione materiale, viene chiamata da Platone “idea” e pertanto viene collocata sopra il “Cielo”, nell’«iperuranio» (úper-ouranós), dov’è la nostra origine prima, la nostra radice. 

Dalla Terra al Cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo nel suo lento passare dalla «visione sensibile» delle cose cariche di materia, a quella «intellegibile» della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della «Grande Madre» ai culti degli «dei uranici»; la Filosofia coglie il «senso» di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione. In questa apertura originaria ci sono gli uomini che si fermano alle «apparenze sensibili» delle cose, alla loro sembianza (Doxa), e ci sono quelli che invece approdano alla «natura intelligibile» delle cose, alla loro verità (Alétheia). Platone chiama i primi “filodóxoi” e i secondi “filosofi”. Sia gli uni che gli altri hanno riconosciuto la loro radice nel “Cielo” e, abbandonata l’oscurità della terra, si sono lasciati ospitare nel mondo uranico della luce, ma mentre i “filodóxoi” si trattengono nell’«apparenza» che costituisce il primo dono della luce, i “filosofi” oltrepassano questa incerta sembianza (l’apparenza inganna) per giungere a quel «sapere» che niente può far oscillare (Epistéme).