venerdì 22 aprile 2016

LA RISURREZIONE DI GESU’


Con l’accenno alle guardie del sepolcro, fatto dal solo Matteo (cap. 28 vrs.4), l’evangelista vuole sottolineare la validità indiscutibile della "risurrezione". Essa, però, non è descritta da nessun vangelo canonico, a differenza di quelli apocrifi, non riconosciuti dalla Chiesa, pronti invece a rappresentare tale evento con quella coreografia che ha condizionato la successiva tradizione cristiana. Matteo, come gli altri evangelisti, descrive solo l’incontro che avviene dopo il sabato, «all’alba del primo giorno della settimana», tra le donne e un angelo (vrs.1). 

Le donne presentate da Matteo sono solo Maria di Magdala e «l’altra Maria», prima chiamata anche «madre di Giacomo e Giuseppe» (27,56). Siamo in presenza di una “teofania”, cioè di una solenne apparizione divina in cui il terremoto, la folgore, il bianco dell’angelo, la pietra sepolcrale rotolata via segnalano che si sta compiendo una rivelazione divina. Essa ha al centro la fede pasquale proclamata dal Credo cristiano: «È risorto…È risorto dai morti» (28,6-7). Le donne devono essere testimoni e missionarie di questo annunzio. Un annunzio fondato perché subito dopo esse incontrano Cristo risorto che conferma a loro la missione. L’esperienza delle donne ha i connotati di un evento storico perché mai si sarebbe attribuito a una donna la funzione di testimone, essendo per l’antico diritto, le donne, inabilitate a testimoniare. 

















Il vangelo di Matteo si conclude, dopo la conferma della "risurrezione" da parte della stessa guardia alla tomba, con una solenne apparizione di Cristo risorto ai discepoli su un monte della Galilea. Ormai egli è il Figlio dell’uomo cantato da Daniele, dotato di un potere universale (7,14). 

Egli dà il mandato missionario alla sua Chiesa perché faccia nuovi discepoli tra i popoli, battezzi e insegni la legge di Cristo, legge d’amore, di verità e libertà. Le ultime parole del risorto lo presentano come l’Emmanuele (1,23), il Dio-con-noi «tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (vrs.20).

































Nota Finale

I discepoli di Gesù non avrebbero mai avuto l'impressione che Gesù fosse veramente «risorto e vivo» se non avessero insieme direttamente constatato che proprio il «corpo» era apparso, e che questo esercitava ancora le sue funzioni corporee. Lo “spirito” di Gesù senza il “corpo” di Gesù sarebbe stato – per la mentalità giudaica degli apostoli – qualcosa di affatto «anormale», sarebbe stato un «fantasma», come avevano sospettato alla prima apparizione di Gesù: credevano di vedere un «fantasma», persino quando mangiò e bevve con loro (cfr. Lc 24,37). Ne segue che gli apostoli, da veri figli del popolo ebreo, non potevano credere e aderire fermamente alla realtà delle apparizioni del Risorto «se non a condizione» che il suo corpo più non giacesse nel sepolcro, che insomma il sepolcro di Gerusalemme fosse davvero «vuoto». 

Se i discepoli, come pretende la teoria delle visioni, avessero percepito delle apparizioni di Gesù in Galilea senza poter insieme rendersi conto del «sepolcro vuoto» in Gerusalemme, tali apparizioni non avrebbero prodotto effetti durevoli in loro; tutt'al più avrebbero pensato ad un «fantasma» singolare, ad uno spettro, come già altra volta, tra l'infuriare della burrasca avevano creduto di vedere sulle onde sconvolte del lago di Genezareth. 

Ciò che i discepoli hanno constatato riguardo alla «risurrezione» contiene quindi, in ogni caso, un elemento «oggettivo» , visibile all'esterno, osservabile, perfettamente dimostrabile e controllabile: il fatto del «sepolcro vuoto». Senza questo fatto, la fede ferma e vivente degli apostoli nella «risurrezione», data la loro mentalità, non avrebbe alcuna motivazione sufficiente. Ogni teoria che crede di poter prescindere da questo fatto, parlando di esperienze puramente soggettive provate in Galilea, senza nominare insieme il «sepolcro vuoto», si tradisce , appunto per questo.

La tradizione cristiana considera l'evento della risurrezione di Gesù come storico e fondamento della fede cristiana. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che alla luce delle testimonianze contenute nei Vangeli «È impossibile interpretare la risurrezione di Gesù al di fuori dell'ordine fisico e non riconoscerla come avvenimento storico». Joseph Ratzinger ha affermato che la «risurrezione» di Gesù è un «mistero» che va oltre la scienza: Gesù non ritorna alla normale vita biologica (come Lazzaro e le altre persone risuscitate di cui si parla nei Vangeli), ma il suo corpo viene trasformato, per cui non è più soggetto alle leggi dello «spazio» e del «tempo» (così saranno anche i nostri corpi alla fine dei tempi). Per Ratzinger, la «risurrezione» di Gesù inaugura una nuova dimensione definita «escatologica»: l'evento avviene nella storia e vi lascia un'impronta, ma va al di là della storia. Secondo il teologo Hans Kessler, la «risurrezione» è comunque "una realtà accettabile e comprensibile solo nella fede", piuttosto che un fatto indagabile e verificabile con i mezzi dello storico.





sabato 16 aprile 2016

GESU’ CONDOTTO DAVANTI A PILATO

Gesù è davanti al governatore romano Ponzio Pilato che lo interroga su un argomento squisitamente politico: l’essersi proposto come re dei Giudei (Mt 27,11). Il profilo del procuratore è dipinto da Matteo con una certa benevolenza. Innanzitutto si fa riferimento al tentativo di salvare Gesù attraverso il ricorso a una prassi – la quale non è però attestata da altri documenti – che è definita dagli studiosi come il «privilegio pasquale», cioè la possibilità dell’amnistia per un carcerato in occasione della Pasqua. La scelta viene proposta da Pilato alla folla: Gesù o Barabba? (vrs.17) (Quest’ultimo forse era un rivoluzionario antiromano). 


Prima che il popolo si pronunci, si inserisce un altro episodio destinato a dimostrare la buona disponibilità del mondo pagano nei confronti di Cristo: è la moglie di Pilato a intercedere in favore di «quel giusto» (vrs.19). Frattanto la folla, sobillata dalla classe politica e religiosa, compie la sua scelta invocando a gran voce l’esecuzione per crocifissione di Gesù e la liberazione di Barabba. Matteo, a questo punto, introduce un altro elemento a favore di Pilato. Con un gesto biblico, quello della lavanda delle mani, e in un linguaggio più vicino all’ebraico (letteralmente: «Sono innocente di questo sangue», il procuratore dichiara di non essere responsabile della decisione di mandare a morte Cristo (vrs.24), lasciandola alla folla, che la suggella con l’assunzione piena di responsabilità: «il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli»  (vrs.25). 

L’espressione non giustifica, certo, l’accusa di “deicidio” rivolta al popolo ebraico nei secoli, non solo perché essi non riconoscevano la divinità di Cristo, ma anche perché una scelta di alcuni non può essere imputata ai discendenti nei secoli. D’altro canto, l’operato stesso di Pilato è tutt’altro che privo di colpe, perché il potere di comminare la pena di morte era “specifico” dell’autorità romana. Gesù è in custodia presso il pretorio – che gli archeologi hanno cercato di individuare in due sedi diverse a Gerusalemme in modo incerto – ,ove viene sottoposto a tortura. 


Inizia, così, il cammino di Gesù verso il Golgota, in aramaico: «luogo del cranio», ove viene crocifisso. La bevanda inebriante che gli viene offerta, come il sorteggio per il possesso degli abiti di Cristo, sono spiegati da Matteo alla luce della Bibbia (Salmi 69,22 e 22,19). Così, è usando parole salmiche che gli astanti scherniscono il condannato (Salmo 22,9), ed è pronunziando in aramaico l’inizio del Salmo 22, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», che Gesù chiude la sua vita terrena. Le ultime sue parole, fraintese dagli spettatori come un’invocazione a Elia, patrono dei moribondi, sono espressione di profonda desolazione, ma, secondo l’uso religioso ebraico, citando l’inizio di un testo, se ne vuole assumere la totalità e il Salmo 22 finisce con un canto gioioso di fiducia in Dio, re dell’universo. 



















I segni che accompagnano la morte di Cristo hanno, agli occhi dell’evangelista, un valore simbolico. Il velo steso davanti al Santo dei Santi nel tempio di Sion viene squarciato quasi a indicare lo svelamento del mistero di Dio in Gesù; il terremoto accompagna le manifestazioni divine; la risurrezione dei morti, dopo quella di Cristo, mostra il destino futuro dei «giusti»; i pagani, rappresentati dal centurione, attestano la loro fede in Gesù, «Figlio di Dio», anticipando l’apertura universalistica della Chiesa (versetti da 51-54). Frattanto il corpo di Cristo viene deposto nella tomba di un discepolo benestante, Giuseppe di Arimatea. Egli riesce a ottenere in consegna il cadavere di Gesù dal procuratore romano Pilato. Testimoni della sepoltura sono non solo Giuseppe e le donne, ma anche un presidio di soldati, posti a custodia della tomba su richiesta giudaica. La «Parasceve» (dal greco, “paraskeué”, “preparazione”) è il giorno che precede o “prepara” il sabato. 






IL RACCONTO DELLA PASSIONE

Il racconto matteano (cap. 26) presenta un Cristo solenne, che va incontro in modo consapevole alle vicende terribili che lo attendono, vicende che l’evangelista spesso illustra attraverso citazioni dell’Antico Testamento, così da mostrare che tutti gli eventi fanno parte di un progetto divino "trascendente" e già "configurato". Come abbiamo visto, Matteo ama ricorrere a queste citazioni bibliche, che gli studiosi chiamano “profezie di compimento”. Queste sono presenti soprattutto nei capitoli 1-2 del suo vangelo. 

Nella casa di un certo Simone il lebbroso (Giovanni, invece, parlerà della casa di Lazzaro), a Betania, sobborgo di Gerusalemme, si consuma invece un atto d’amore e di venerazione: una donna innominata (per Giovanni è Maria, sorella di Lazzaro) versa un profumo prezioso su Gesù, sollevando la reazione gretta dei discepoli (Giovanni farà reagire solo Giuda, il traditore). Questo gesto d’amore è letto e interpretato da Cristo come un segno profetico della sua "sepoltura" e “imbalsamazione” e come una prefigurazione dell’annunzio universale del vangelo. 


Frattanto si consuma il tradimento: Giuda riceve «trenta monete d’argento» per la consegna di Gesù. La cifra vuole rimandare ai trenta sicli d’argento versati al pastore nel racconto del profeta Zaccaria (11,12), ma anche al prezzo della vita di uno schiavo, secondo Esodo 21,32. Si avvicina, così, il momento del tradimento che Gesù – con quella consapevolezza già indicata – delinea ai Dodici durante la cena pasquale che egli sta celebrando. Non entriamo nel merito della complessa questione cronologica riguardante la Pasqua di quell’anno, anche perché i dati offerti da Matteo, Marco e Luca non coincidono con quelli di Giovanni. Certo è che l’evangelista vuole sottolineare un nesso tra la Pasqua e la cena e la morte di Cristo. 

Per quattro volte Gesù parla del tradimento che si sta per consumare. Ma il centro della scena è rappresentato dalle parole che Cristo pronunzia sul pane azzimo e sulla coppa di vino che facevano parte del rituale della cena pasquale ebraica. Sul pane egli dichiara  che esso «è il mio corpo», mentre sul calice di vino afferma che esso «è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati». Si rimanda, dunque, al rito dell’alleanza tra Dio e Israele celebrato sul Sinai proprio nel sangue sacrificale (Esodo 24,6-8). Si ha poi un preciso riferimento alla morte di Cristo «per molti», cioè per tutta l’umanità secondo il linguaggio semitico, con un rimando al Servo sofferente cantato da Isaia (53,11). E questa morte è destinata a rimettere il peccato del mondo.


Conclusa la celebrazione della cena pasquale, che è l’inizio dell’eucarestia cristiana, cantato l’Hallel pasquale (i Salmi 113-118), Gesù s’avvia con i suoi discepoli verso il monte degli Ulivi, a est della città santa. Egli annunzia lo “scandalo”, cioè l’inciampo nella fede che avranno i suoi discepoli, compreso Pietro, che – nonostante le sue proteste di assoluta fedeltà – rinnegherà il suo Signore. Come sempre in Matteo, la figura di Cristo si erge solenne ed è capace di attraversare gli eventi, dominandoli e giudicandoli. Frattanto il piccolo corteo raggiunge il Getsemani, cioè “frantoio per l’olio”, un podere coltivato a ulivi. Qui Gesù, colpito dall’angoscia per ciò che l’attende, inizia una preghiera drammatica, isolandosi dagli altri, tranne Pietro, Giacomo e Giovanni, i testimoni dei momenti più alti della sua esistenza terrena. 


La preghiera rivolta al padre implora che «il calice passi»: si tratta di un’espressione biblica per indicare la sorte terribile che Dio riservava in particolare ai suoi avversari. Gesù, quindi, sente il peso terribile della morte a cui è destinato «in remissione dei peccati» (26,28). Egli appare anche come il modello del perfetto orante che si affida alla volontà divina nel momento della prova (la «tentazione»). Un modello che non è compreso e imitato dagli apostoli, ormai immersi nel sonno. È per questo che alla fine li scuote dalla loro inerzia, persino con un tocco d’ironia: «Dormite ormai e riposate!... Alzatevi, andiamo!» (26.45-46). 

Si sta, infatti, per compiere il tradimento, segnalato dall’avanzare di Giuda con una folla armata. Il “bacio”, che indicava il rapporto di amicizia tra discepolo e maestro, si trasforma in un segnale di inganno. Gesù, consapevole del suo destino, risponde con una frase che in greco è così essenziale da essere simile a un soffio e che può essere così sciolta: «Amico, fa’ ora quello per cui tu sei qui e per cui sei venuto!». Ora si deve passare dall’annunzio alla sua attuazione. Cristo aveva a più riprese affermato che questi eventi finali “dovevano” compiersi perché si realizzasse il piano divino di salvezza. 


La reazione di difesa di uno dei discepoli (Giovanni nel suo vangelo lo identificherà con Pietro) è condannata da Cristo sulla base di due motivazioni fondamentali. Da un lato, c’è l’esaltazione della non violenza e del perdono, espressa con la frase proverbiale su coloro che impugnano la spada, votati a morire di spada (vedi anche Genesi 9,6 e Matteo 5,38-41). D’altro canto, c’è la certezza che gli eventi che si stanno consumando fanno parte di un disegno che Dio ha tracciato e che sfocerà nella “salvezza” e nella “gloria”. Per due volte, infatti, si ripete la frase sull’«adempimento delle scritture» (vrs.54 e 56). Gesù rivolge anche un monito amaro alla folla, sopraggiunta per l’atto infamante del suo arresto (vrs.55). Poi, abbandonato dai suoi discepoli, si avvia per il processo che verrà celebrato dinanzi al tribunale ufficiale giudaico. 

Gesù è, dunque, trasferito nel palazzo del sommo sacerdote Caifa, ove è convocata un’assemblea informale del sinedrio (vocabolo greco che significa “consesso”, “consiglio”), il massimo organo giuridico-religioso del giudaismo di quel periodo. Che si tratti di un’udienza informale è da supporre sulla base di quanto è noto riguardo alle sedute di quel consiglio: esse dovevano essere celebrate di giorno (e non di notte, come accade per Gesù) e nell’«aula della pietra squadrata», una sala ufficiale, diversa dalla sede del sommo sacerdote ove ora Gesù è giudicato. Inoltre, in 27,1, si menziona appunto una seduta formale del sinedrio per pronunziare la sentenza contro Gesù ed essa si celebra al mattino del giorno dopo. 

L’istruttoria cerca di trovare un capo d’imputazione religioso così da permettere al tribunale giudaico di emettere una sentenza compatibile con la sua giurisdizione. Alcuni testimoni vengono spinti ad attestare che Gesù ha affermato di poter distruggere e riedificare in tre giorni il tempio, il luogo sacro e inviolabile. È noto che questa dichiarazione, riferita da Giovanni (2,19), aveva per Cristo un altro significato spirituale, rimandando al suo corpo, presenza suprema di Dio. Ma è sulla risposta di Gesù alla domanda di Caifa che si trova materia per un capo d’imputazione. Infatti, di fronte all’interrogazione sulla sua messianicità, Cristo ricorre a due passi biblici: il primo è il Salmo 110,1, un testo regale-messianico; il secondo, desunto dal profeta Daniele (7,13), è più forte perché presenta un aspetto divino che, applicato a un uomo, risulta blasfemo.


È per questo che Caifa incrimina Gesù per bestemmia e lo sottopone alla pubblica detestazione. Frattanto, mentre Cristo appare come il Messia deriso e umiliato, Pietro consuma il suo tradimento, precipitando sempre più nell’abisso del "rifiuto" e del "rinnegamento": «cominciò a imprecare e a giurare: non conosco quell’uomo!» (26,74). Il canto del gallo è per l’apostolo una memoria viva del monito di Gesù e l’inizio del «suo pentimento». 


L’indomani, dopo la seduta formale del sinedrio, Cristo è deferito al tribunale romano, l’unico che poteva emettere sentenze capitali. Ma, a questo punto, il solo Matteo introduce un episodio riguardante Giuda. Colpito dal suo gesto, decide di restituire le monete d’argento del tradimento ai sacerdoti, i quali destinano la cifra all’acquisizione di un terreno da usare come area di sepoltura per gli stranieri. Il nome di quel luogo diventa in aramaico “Akeldamà” (vedi Atti 1,19), cioè «campo di sangue», e – come è suo uso – Matteo vede in questo evento l’attuazione di una profezia attribuita a Geremia: in verità si tratta di Zaccaria 11,12-13. Inoltre egli sottolinea il distacco, che perdura «fino al giorno d’oggi», tra Cristo e il suo popolo, segno della tensione che si sperimentava al tempo di Matteo tra la Chiesa e il giudaismo.   


    

sabato 9 aprile 2016

IL DISCORSO ESCATOLOGICO (SU GLI ULTIMI TEMPI)


Eccoci al quinto discorso di Gesù nel vangelo di Matteo: nei capitoli 5-7 avevamo incontrato quello della “montagna”, nel capitolo 10 il discorso “missionario”, nel capitolo 13 le “parabole”, nel capitolo 18 la “comunità ecclesiale”. Ora viene considerato il fine ultimo della storia (Mt Cap. 24 e 25); per questo si è soliti definire il discorso come “escatologico”, termine di origine greca che significa «riguardante le cose ultime». Bisogna subito notare, però, che nelle parole di Gesù si intrecciano piani diversi: alla fine del tempo si associa l’evento clamoroso della fine di Gerusalemme e del suo tempio – avvenuta nel 70 ad opera dei romani – e vissuta in modo traumatico dagli stessi evangelisti, che l’hanno fatta emergere nel discorso di Cristo (vedi Marco 13,1-37 e Luca 21,5-38). Inoltre, com’era costume in quel tempo, il linguaggio di Gesù, è costellato di immagini e simboli caratteristici della letteratura “apocalittica”, (vedi Il libro di Daniele). 

Nel versetto 3 si vede bene l’intreccio dei piani: da un lato, c’è il crollo del tempio a cui Gesù ha fatto riferimento, cioè agli eventi del 70; dall’altro, si parla della «venuta» piena e definitiva (in greco, parousía) di Cristo alla «fine del mondo». Ciò che, subito dopo, Gesù raffigura – rifacendosi sempre alle immagini del linguaggio apocalittico – è lo svolgersi della storia della Chiesa, con le persecuzioni esterne e con le crisi interne («l’amore di molti si raffredderà»). 

E’, dunque, la vicenda che sta davanti a Gesù e che sarà caratterizzata, allo stesso tempo, dalla diffusione del vangelo in tutto il mondo. Poi si rappresenta, sempre con immagini apocalittiche e con uno stato di forte tensione, la «tribolazione grande», cioè la fase quasi di gestazione degli ultimi tempi. Qui pure appare in filigrana la devastazione di Gerusalemme, dipinta con i colori di un altro atto simile: quello che nel 167 a.C. il re siro-ellenistico Antioco IV Epifane compì introducendo nel tempio «l’idolo abominevole della devastazione» (vedi Daniele 9,27), cioè la statua di Zeus. 

Su questa base storica il discorso si allarga alla fine dei tempi, tratteggiata con catastrofi cosmiche, ma sempre tenendo fissa l’attenzione alla Chiesa, con le crisi create dai falsi profeti e dagli pseudo-messia  (i «falsi cristi»). Il vertice rimane la parousía, cioè «la venuta del Figlio dell’uomo», l’ultima grande manifestazione che sigillerà la storia. Essa sarà inattesa e destinata a tutti i popoli, che saranno sottoposti a giudizio. Tutto il brano è, perciò, pervaso da uno stato di tensione, di speranza e di timore ed è un invito a impegnarsi seriamente per il «regno di Dio», lasciando a margine le cose secondarie. L’accenno alla «grande tromba» (versetto 31) fa parte della scenografia apocalittica. Ad essa si ispira anche Paolo in 1Corinzi 15,52 («al suono dell’ultima tromba») e in Tessalonicesi 4,16 («al suono della tromba di Dio). 

Continua il cosiddetto “Discorso Escatologico” con una mini-parabola suggestiva, quella del fico che con il suo fogliame segnala la vicinanza dell’estate. Allo stesso modo nella Storia ci sono segni che ne indicano la direzione e la meta. Data la complessità dei temi – e tenendo conto del già citato intreccio dei piani – non sempre è facile distinguere se Gesù si stia riferendo alla storia nel suo svolgimento o alla fine dei tempi. E’ il caso di 24,34: «Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada». Sorge una domanda : si tratta della distruzione di Gerusalemme o della speranza della venuta finale come imminente, secondo quanto desiderava la Chiesa delle origini, o della continua attesa di tutte le generazioni? 

Altrettanto sorprendente e complesso è il detto – sicuramente autentico perché la Chiesa non avrebbe mai messo in bocca a Gesù una simile frase – secondo il quale anche il Figlio, cioè il Cristo, ignora il giorno e l’ora della fine. E’ probabile che Cristo voglia spostare l’accento dalla curiosità morbosa sulla fine del mondo alla preparazione costante all’interno della storia. Infatti, si evoca il tempo di Noè, in cui gli uomini erano superficiali e distratti e non seppero intuire la minaccia del diluvio e del giudizio divino che sovrastava su di loro. L’irruzione della fine sarà a sorpresa, quando forse si sarà occupati nel lavoro dei campi o attorno alla macina del grano; sarà simile all’improvviso intervento di un ladro, «nell’ora che non immaginate». (24,44). 

La vigilanza attenta e costante è, perciò, decisiva ed è illustrata da «tre» parabole. Ecco innanzitutto (la prima) la storia dei due servi (versetti 45-51): c’è il domestico vigilante, fidato e prudente e c’è il servo malvagio, dissipato e superficiale che sarà vittima dell’arrivo improvviso del suo padrone. La seconda parabola, quella delle ragazze sagge e delle stolte che partecipano a un corteo nuziale e alla relativa festa (Cap. 25,1-13), è un piccolo capolavoro. 

Secondo gli usi nuziali dell’antico Vicino Oriente si costituivano due cortei, dalle case dello sposo e della sposa verso il luogo della celebrazione delle nozze con il grande banchetto. Le lunghe attese potevano anche distrarre, come accade alle vergini del corteo, che si dividono in due gruppi: c’è chi veglia con le lampade curate e alimentate di olio e c’è chi si addormenta e alla fine si trova con la lampada spenta e, quindi, con un forte ritardo rispetto al corteo che raggiunge il luogo del banchetto. Il rischio è quello di venire esclusi dal banchetto di nozze, cioè dal regno. Infatti la porta chiusa e la risposta gelida dello sposo: «Non vi conosco», esprimono in modo netto il destino di coloro che non sanno essere pronti e vigili davanti all’improvvisa venuta del Signore per il banchetto messianico finale, cioè per la pienezza del «regno di Dio». 

La terza parabola è quella “dei talenti”; Il talento inizialmente era un’unità di misura di peso dei metalli preziosi e poteva equivalere a 35 chilogrammi. Divenne, così, un’importante unità monetaria in epoca successiva: le rendite annuali di Erode il Grande pare fossero di 900 talenti. Perciò, l’aver affidato da parte di un padrone cinque, due o un talento costituiva un incarico significativo. Il padrone, partito «per un viaggio» (25,14), si presenta «dopo molto tempo» (25,19): è l’indicazione del tempo della storia in cui bisogna sapere far fruttare il dono divino. L’accento, infatti, cade sia sull’iniziativa del padrone sia sull’impegno dei servi che affidano alle banche il loro deposito perché si accresca: si parla appunto del tokos, cioè degli interessi da riscuotere (25,27). 

All’interno della parabola acquista rilievo un personaggio, il servo achreios, (versetto 30), cioè “inutile”, “non necessario”, il fannullone, l’inerte, che si accontenta di seppellire nella terra il suo talento. La lezione è facile: mentre si è in attesa della venuta del Signore alla fine della storia, è indispensabile essere operosi, bisogna far rendere in opere giuste il dono della grazia divina, si deve essere attenti e impegnati in modo tale che, al suo arrivo, il Signore possa vedere che la sua generosità ha avuto come risposta la generosità dell’uomo. 

A questo punto, uscendo dal velo delle parabole e usando una rappresentazione più diretta, il discorso “sulle cose ultime” o “escatologico” dipinge in una pagina di grande potenza e intensità il giudizio divino affidato al Figlio dell’uomo, al termine della storia (Cap. 25,31-46). Attraverso due quadri paralleli ma antitetici si descrivono il peccato e il bene dell’umanità, e il relativo giudizio che comporta la condanna e il premio. Le immagini sono così chiare e immediate da impedire qualsiasi esitazione nell’interpretazione. Accontentiamoci solo di segnalare alcuni particolari significativi. 

Innanzitutto Cristo è raffigurato come il re-Messia, il cui compito è rendere giustizia ai suoi fedeli e condannare gli empi (Salmo 72). Egli è presentato anche come il pastore che separa le pecore e i capri nei vari stazzi per la notte. E’, quindi, la guida del suo gregge. Ma, al di là delle immagini del re, del giudice e del pastore, appare in modo evidente l’oggetto del giudizio ultimo: è l’amore per i «fratelli più piccoli». Quest’ultima espressione ricorre due volte ed è precisata con l’elenco dettagliato dei poveri della terra: gli affamati, gli assetati, gli stranieri, i miseri, gli ammalati, i carcerati. E’ solo con la fede operosa che si può entrare nel «regno di Dio». Una fede che può essere anche implicita, come è attestato da quei giusti che ignoravano di servire Cristo negli ultimi e nei «fratelli più piccoli». L’amore rimane, dunque, la grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo ed è anche l’impegno fondamentale per il tempo della storia, in attesa della venuta piena e definitiva del Signore. 

A proposito, infine, del discorso “escatologico” è facile osservare che la prima parte (24, 4-35) riprende parole e temi presenti nella tradizione di Marco. Nella seconda parte invece, la più originale, Matteo si distanzia sia da Marco che da Luca, aggiungendo diverse parabole sulla vigilanza e concludendo con la maestosa descrizione del “giudizio finale”. Sembra che l’evangelista abbia voluto insistere sulle esigenze pratiche dell’attesa del Signore. Non basta esortare alla vigilanza: quali atteggiamenti concreti si devono assumere? Da queste annotazioni si può intravedere come Matteo ha costruito i suoi discorsi. Non si è limitato a raccogliere insieme le parole del Signore di argomento affine, ma ha costruito delle vere composizioni letterarie con una loro chiara finalità dottrinale. Tuttavia Matteo resta uomo di tradizione: ordina e approfondisce i materiali delle fonti, non li inventa. E sebbene il suo vangelo voglia essere catechetico e dottrinale, resta a pieno titolo un “vangelo”, cioè una narrazione della storia di Gesù, non un catechismo o un trattato teologico.                




«GUAI A VOI, SCRIBI E FARISEI»


Che Cristo conosca lo sdegno risulta chiaro proprio leggendo questo capitolo (23,1-39) di Matteo. Esso contiene una veemente requisitoria profetica contro l’ipocrisia religiosa che si annidava nelle guide spirituali del giudaismo di allora. L’apostrofe polemica inizia con un insegnamento rivolto al popolo e ai discepoli sul pericolo della discrepanza tra il dire e il fare, cioè la scissione tra l’insegnamento e il comportamento. L’osservanza di norme rituali, come quello delle «frange» dei manti di preghiera o delle teche e dei legacci di cuoio contenenti scritte bibliche da indossare durante il culto («filattèri»), i titoli di prestigio, l’adempimento esteriore solenne possono nascondere un vuoto interiore. E’, invece, l’umiltà del cuore e l’amore generoso ad essere la vera anima della religione

Si ha, quindi, un attacco all’ipocrisia, nello spirito della tradizione profetica. Ma il discorso di Gesù si fa ancora più teso e, imitando Isaia (5,8-25), egli scaglia “sette” «Guai!», cioè “sette” invettive sdegnate contro “scribi e farisei”. Il primo attacco riguarda l’ostacolo che essi creano per un’autentica religiosità del popolo (versetto 13). Il secondo ironizza sull’attività missionaria (i “proseliti”) che non converte, ma riduce in schiavitù chi si avvicina a questa religiosità solo rituale (versetto 15). La terza condanna tocca la questione del giuramento, come già in 5,33-37, così da rivelare la minuzia di certe norme, capaci solo di nascondere ed evadere il vero comandamento divino e il relativo genuino impegno morale (versetto 16). 

Il quarto e il quinto «Guai!» si muovono nella stessa direzione e segnalano la vanità di osservanze legalistiche e rubricistiche, come pagare la decima anche sugli erbaggi rari e secondari (menta, anèto e cumino) o rispettare norme di purità esteriore sulle stoviglie in forma quasi maniacale. Sono norme pur legittime, ma prive di valore quando sono disgiunte dalla giustizia, dalla misericordia e dalla fedeltà, i veri e fondamentali precetti (versetti 23 e 25). Il sesto attacco tocca ancora l’ipocrisia, che rende i fedeli simili a sepolcri imbiancati, di apparenza nobile ma all’interno covi di impurità e marciume (versetto 27). L’ultimo «Guai» (versetti 29,30,31,32,33,34,35), prendendo spunto dalle tombe, denuncia la falsa venerazione di quei profeti che, in realtà, erano stati uccisi proprio dagli stessi Ebrei, come attesta la storia di Israele e di tutta l’umanità, a partire da Abele per giungere sino a Zaccaria, un sacerdote giusto ucciso dal re Ioas, come è narrato nel secondo libro delle Cronache (24,20-22). 

Il grido di Gesù raggiunge in quest’ultima invettiva il tono più alto, ma nel paragrafo finale di questo discorso fremente di sdegno c’è un passaggio di tonalità. In forma quasi di lamento affettuoso Cristo piange sull’ostinazione di Gerusalemme, che egli avrebbe voluto proteggere dalla rovina incombente come fa una chioccia che raccoglie sotto le ali i suoi pulcini. Ma essa non ha ascoltato e, in finale, Gesù fa balenare il giorno del suo ritorno conclusivo nella storia umana alla fine dei tempi (versetti 36,37,38,39).     






sabato 2 aprile 2016

LE QUATTRO CONTROVERSIE CON I GRUPPI POLITICO-RELIGIOSI


La tensione tra Gesù e i suoi interlocutori gerosolimitani, che aveva avuto un’espressione velata nelle parabole, si fa ora diretta. Infatti, il capitolo 22,15-46 di Matteo – nella parte che ora meditiamo – è dominato da «quattro» controversie che oppongono Gesù e i rappresentanti dei vari gruppi politico-religiosi del giudaismo ufficiale. Il primo contrasto è con i “farisei” e riguarda il tributo da versare all’imperatore romano. E’ uno dei rari pronunciamenti politici di Cristo, che riesce a evitare la trappola tesa dai suoi interlocutori. Egli, infatti, rimandando all’«immagine», fa un’allusione al passo della Genesi (1,26-27), in cui si presenta l’uomo come «immagine e somiglianza di Dio». Perciò, la moneta che reca l’immagine di Cesare indica l’orizzonte economico-politico che ha una sua «autonomia». Tuttavia questa «autonomia» deve sempre confrontarsi ed essere condizionata dall’orizzonte dell’uomo che dipende direttamente da Dio come sua immagine e che, quindi, è tutelato dal Signore stesso nella sua dignità superiore alle leggi economiche. Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (versetto 21). 

Questo significa che a Cesare (lo Stato) non solo non si deve dare quel che è di Dio, ma nemmeno quel che è contro Dio; e che dunque Cesare (lo Stato) non deve essere in contrapposizione a Dio, al Dio di Gesù (vedi post pubbl. Marzo 2013 “Fede e Ragione”). E perché ciò avvenga, la gente deve aprire la porta delle sue camere, uscir fuori, radunarsi e agire affinché lo Stato non sia contrario a Dio.

La vocazione «Politica» della Chiesa risale a Gesù. Come risale a lui il contrasto tra «Interiorità della vita religiosa» e «Politicità» della Chiesa (vedi anche post pubbl. Maggio 2014 “Il carattere politico della Chiesa”)

La seconda controversia vede come protagonisti i “sadducei”, un gruppo sacerdotale conservatore aristocratico, che negava la risurrezione perché non presente esplicitamente nelle Scritture. Essi pongono a Gesù un caso ipotetico, legato alla legge biblica del levirato, per cui il fratello era costretto a sposare la cognata vedova per dare un figlio al fratello defunto, così da perpetuarne il nome e l’eredità. Il caso limite della donna che sposa sette fratelli vuole dunque banalizzare la «vita eterna», rappresentandola in modo materialistico come quella terrena. Gesù spazza via questa visione superficiale ed esalta la vita purissima di Dio a cui noi saremo chiamati oltre la nostra morte (versetti 30,31,32). 

La terza polemica è con un esperto della legge biblica che pone la questione del primato nei vari precetti religiosi, che il giudaismo aveva catalogato in 613 comandamenti: 365 negativi e 248 positivi (secondo computi simbolici, condotti sulla base dei testi legislativi dell’Antico Testamento). Gesù ricorre a due passi biblici – Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18 – non tanto per mettere in ordine quel catalogo, ma per indicare l’atteggiamento generale con cui osservare i precetti, cioè «la via dell’amore totale per Dio e per i fratelli». In questo impegno è riassunta tutta la legge biblica (versetti 37,38,39,40). 

L’ultimo contrasto è di taglio esegetico e riflette lo stile delle discussioni rabbiniche. Si tratta di definire il messianismo davidico: è Gesù stesso a interpellare i “farisei” sulla base del Salmo messianico 110. Il Messia è figlio di Davide, secondo l’interpretazione comune; e, allora, osserva Gesù, come mai in quel Salmo Davide lo chiama «Signore?» Si vuole, così, far balenare l’origine trascendente di Cristo, il quale attua in pienezza il dettato di quel Salmo perché, pur essendo discendente di Davide secondo la carne, lo supera nella sua dignità di Figlio di Dio, divenendo così suo Signore (versetti 41,42,43,44,45,46).   




venerdì 1 aprile 2016

LE TRE PARABOLE DEL GIUDIZIO



Vengono ora proposte «tre» parabole che hanno per tema il "giudizio" e riflettono la tensione con il giudaismo, specchio anche della situazione in cui vive la chiesa di Matteo (Cap. 21,28-46-22,1-14). La prima parabola introduce due figli difficili, che incarnano altrettanti atteggiamenti nei confronti del regno di Dio: da una lato, c’è l’ipocrisia che è in fondo disobbedienza e, dall’altro, l’apparente ribellione che è in fondo accoglienza. Il primo modello colpisce gli osservanti “farisei”; il secondo esalta i peccatori che si convertono ascoltando il monito della parola di Dio. 

La seconda parabola ricorre a un simbolo biblico ben noto per raffigurare Israele, la vigna (Isaia 5,1-7; Salmo 80). Il racconto ha molti tratti applicati direttamente all’imminente vicenda della passione e morte di Cristo. Ai vignaioli ribelli vengono inviati da parte del padrone della vigna, cioè di Dio, alcuni servi per ammonirli: sono i profeti che vengono rigettati da Israele. Alla fine, ecco entrare in scena lo stesso figlio, cioè Cristo, che viene cacciato fuori della vigna (forse una menzione non solo del rifiuto ma anche dell’esecuzione capitale di Gesù fuori delle mura di Gerusalemme) e ucciso. A questo punto entra in scena il padrone stesso, che introduce una svolta nella storia.

Infatti, egli non solo giudica quei vignaioli assassini, ma «darà la vigna ad altri vignaioli»: è un’evidente allusione all’apertura del regno di Dio ai pagani e agli altri popoli. Questa comunità rinnovata si fonderà proprio su quella pietra che era stata rigettata – cioè su Cristo –, e questa dichiarazione si basa su una libera rilettura del Salmo 118,22-23, ed è evocata in modo esplicito dall’accusa che Gesù rivolge ai suoi interlocutori ostili, sommi sacerdoti e “farisei”: «Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare» (21,43). 

Anche la terza parabola si muove nella stessa direzione. Due sono le scene che la reggono quasi a dittico. Nella prima si rappresenta un banchetto nuziale per il figlio del re, trasparente rimando alla venuta di Cristo. Ricordiamo che già nell’Antico Testamento l’alleanza con Dio era raffigurata sotto immagini nuziali, e Isaia (25,6) presentava sotto il simbolo di un banchetto l’era messianica perfetta. La risposta all’invito divino a partecipare al banchetto è dura e si accanisce persino sui servi che comunicano quell’appello, cioè sui profeti (come già era accaduto nella parabola precedente dei vignaioli). Il re, in risposta, dà alle fiamme la loro città, un accenno introdotto da Matteo sulla distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C. Ma c’è una seconda scena. Il re procede a nuovi inviti: tutti, buoni e cattivi, sono convocati alle nozze. E’ ormai l’apertura a tutti i popoli. Tuttavia, anche per costoro vale la necessità di un adesione autentica e totale, rappresentata dal simbolo del mutamento di veste, cioè della propria realtà interiore, secondo il valore biblico di questa immagine (22,9-14).