sabato 24 dicembre 2016

CONCLUSIONI FINALI SU PLATONE


Si può dire che forse Platone è stato il più geniale filosofo di tutti i tempi, oltre che un grandissimo artista e un testimone eccezionale della cultura del suo tempo e dell’epoca a lui precedente. Filosofo geniale non perché abbia sempre elaborato dottrine convincenti, ma perché ha formulato quasi tutti i problemi che poi sono rimasti alla base dell’intera filosofia occidentale e soprattutto perché ha fissato per primo ed in modo pressoché definitivo la struttura stessa del discorso filosofico, il suo modo di procedere, la sua peculiarità principale, cioè la «dialettica». 

Egli, infatti, riprendendo da Socrate la disposizione fondamentale al «domandare», e quindi al dialogo, come condizione imprescindibile del discorso filosofico, e riprendendo con essa il momento altrettanto fondamentale dell’«élenchos», cioè dell’esame, del vaglio, della confutazione, come espressione suprema di criticità, ha saputo trasformare tutto questo, da semplice, e pur necessaria preliminarmente, dichiarazione di ignoranza, in vera e propria produzione di scienza (epistéme), cioè di sapere, di discorso incontrovertibile, che non dice semplicemente come stanno le cose, ma riesce ad escludere che possano stare diversamente. Da allora in poi, in tutti i momenti in cui la filosofia è riuscita ad essere se stessa, vale a dire un discorso diverso da altre forme di attività umana, razionali, soprarazionali o a-razionali, essa si è strutturata in modo dialettico, secondo le indicazioni e il modello forniti da Platone

Quanto alle sue dottrine, esse sono caratterizzate quasi tutte da una profonda ambivalenza, cioè per un verso sono espressione di un’esigenza incontestabile, e per altro sono discutibili, non convincenti, a volte addirittura assurde. Ciò vale in primo luogo per la più importante e fondamentale di esse, la “Dottrina delle Idee”, la quale esprime l’esigenza insopprimibile di mediare l’«esperienza» alla ricerca di un «principio trascendente», cioè di una realtà "sovrasensibile", causa e ragione di quella sensibile; ma finisce poi per concepire tale realtà come un doppione di quella sensibile, che per la sua natura di modello relega quest’ultima al rango di semi-realtà. 

Di tutto questo, come abbiamo visto, si è reso conto per primo lo stesso Platone, che infatti nei suoi ultimi dialoghi ha introdotto nuovi principi, sia di tipo efficiente, cioè attivo, da ricercarsi nella direzione di una mente, o intelligenza, divina, sia di tipo strutturale, implicanti un processo di «matematizzazione» della realtà. (Considerazione, interpretazione e valutazione secondo principi, schemi e procedimenti che sono propri della matematica; applicazione di leggi, o schemi e procedimenti matematici a un dominio della scienza, o a un oggetto della conoscenza, o anche a un aspetto della realtà che non appartiene alla matematica esempio lo studio della natura, le scienze sociali, la spiegazione dei comportamenti umani. Oppure ragionare su basi e secondo metodi razionali, propri della matematica). 

Entrambe queste indicazioni sono state riprese dalla filosofia successiva, sia pure in direzioni tra loro divergenti: la prima da Aristotele, e in generale dalle metafisiche trascendentistiche, la seconda dalle metafisiche immanentistiche. Di grande fecondità si è rivelato il processo di «matematizzazione» del mondo sensibile, che è stato ripreso e praticamente assolutizzato dalla scienza moderna, mentre in Platone esso coesisteva con altri modelli di spiegazione, quali quello «biomorfico» (attività pittorica astratta fra irrazionale e razionale), che hanno avuto fortuna soprattutto nell’antichità e nel medioevo e di cui solo oggi si torna a riscoprire il valore. 

Lo stesso carattere ambivalente presenta la concezione platonica dell’«uomo», che da un lato può essere considerata la prima vera scoperta della dimensione spirituale, e dall’altro conduce a forme di dualismo e di contrapposizione tra «anima» e «corpo» del tutto inaccettabili. Anche l’«etica», insieme ad un indicazione verso il superamento delle miserie, delle debolezze e dei limiti umani, contiene aspetti rigoristici e antiumanistici che suscitano notevoli perplessità. Degna della massima attenzione è invece l’analisi dei conflitti psichici, in cui alcuni vedono addirittura un’anticipazione dell’odierna psicanalisi. 

Un capolavoro perenne di Platone è indubbiamente la sua concezione «politica», anche se essa contiene gli aspetti più aberranti del suo pensiero, quali l’abolizione della famiglia, un rigido classismo, un esasperato dirigismo e soprattutto l’illusione della scientificità della politica. Essa è tuttavia un capolavoro, perché coglie per la prima volta l’essenzialità della dimensione politica alla vita umana ed il principio razionale di organizzazione della società politica, che è la collaborazione di molti verso il «bene comune», per cui la «politica» è indissolubilmente legata all’«etica». 

Geniale, anche se incompleta, è infine l’«estetica» di Platone, ma molti altri sono i suoi contributi che si potrebbero citare e che sono stati trascurati in questa esposizione: dalla filosofia del linguaggio alla storia della cultura, all’interpretazione dei miti, ecc. Praticamente tutto ciò che Platone ha detto è rimasto come oggetto di ammirazione, fonte di ispirazione e riflessione, materia di discussione per le filosofie successive.





sabato 10 dicembre 2016

LA FILOSOFIA PLATONICA DELL’ARTE


Alla filosofia platonica della politica è strettamente connessa la filosofia platonica dell’«arte», cioè quella che, con termine moderno, potrebbe essere chiamata l’«estetica» di Platone e che fa di questo filosofo il fondatore dell’«estetica». Nel celebre libro X della “Repubblica”, Platone dichiara infatti di voler bandire dal suo Stato ideale i poeti e gli artisti in genere, e spiega le ragioni di quest’ultima stranezza del suo pensiero politico. La poesia, il cui massimo rappresentante è Omero, padre dei grandi tragici, così come l’arte in generale, per esempio la pittura, sono, secondo Platone, essenzialmente imitazione (mímesis). 

Questa è la prima definizione dell’«arte» che sia mai stata data ed è la causa del giudizio negativo, come vedremo subito, che Platone pronuncia su di essa. Un pittore, spiega il filosofo, quando dipinge, ad esempio, un letto, imita con il disegno e con i colori il letto che esiste nella realtà, cioè il letto costruito dal falegname. Ma questo, in base alla “Dottrina delle idee”, è a sua volta imitazione, cioè copia, dell’idea del letto, vale a dire di quel letto ideale, unico e immutabile, che è stato costruito, per così dire, dal Dio (X, 597 a-d). Ora, poiché per Platone il vero letto, cioè la vera realtà, è quest’ultimo, e quello sensibile è soltanto una realtà apparente, il pittore, imitando il letto sensibile, cioè la realtà apparente, si occupa di una realtà non di secondo ordine, ma addirittura di terzo ordine, che è ancora meno vera della realtà sensibile (X, 598 a – 599 a). 

Dal punto di vista della verità dunque, cioè della conoscenza, l’«arte» non ha nessun valore, non ci fa conoscere nulla. Ad esempio, dalla poesia di Omero non si impara né come devono essere fatte le leggi né come si fa la guerra, benché Omero parli di Stati e di guerre. Gli artisti, insomma, non si intendono veramente di nulla, non hanno nulla da insegnare. La facoltà che essi adoperano per produrre le loro opere non è l’intelligenza, cioè la parte razionale dell’anima, ma un’altra, ad essa inferiore (probabilmente l’anima impulsiva o appetitiva) (X, 604 b – 605 b). Si vede in tal modo come questo primo giudizio negativo, che Platone dà dell’«arte», sia formulato da un punto di vista non specificatamente estetico, bensì conoscitivo: l’«arte» non ha valore se presume di essere conoscenza della realtà, cioè scienza.

Da ciò consegue anche il secondo giudizio negativo che Platone pronuncia sull’«arte», quello che viene formulato dal punto di vista etico e politico. In quanto non ci fa conoscere la verità e si rivolge alle parti non razionali dell’anima, l’«arte» – afferma Platone – è immorale, cioè alimenta tendenze irrazionali, passioni, desideri impuri. Per esempio, la tragedia fa provare compassione, piangere e lagnarsi per le sventure altrui, inducendo in tal modo l’anima a fare altrettanto per le proprie, mentre sarebbe meglio imparare a controllarsi ed a frenare tali tendenze. 

Analogamente la commedia fa divertire e ridere per le buffonate altrui, inducendo l’anima a comportamenti ridicoli, che invece bisognerebbe evitare. «Simili effetti produce in noi – scrive Platone – l’imitazione poetica anche rispetto ai piaceri amorosi, alla collera e a tutti gli “appetiti” dolorosi e piacevoli dell’anima nostra, quelli che, come diciamo, accompagnano ogni nostra azione. Li fomenta e li nutre, mentre bisognerebbe disseccarli. Affida loro il governo delle nostre persone, mentre dovrebbero essi venire governati, affinché potessimo divenire migliori e più felici anziché peggiori e più disgraziati» (X, 605 a-e). Si tratta, come si vede, di una condanna esplicitamente morale. Per tutti questi motivi Platone propone di bandire dal suo Stato ideale artisti e poeti, trasformando in tal modo la condanna conoscitiva ed etica in condanna anche politica. 

Tuttavia, proprio il vigore di queste condanne rivela che il filosofo ha compreso la potenza suggestiva dell’«arte», cioè la sua capacità di influire sull’anima, facendo leva sulla parte non razionale di essa. Si può dire pertanto che Platone si è avviato a riconoscere lo specifico dell’«arte», ciò che la fa essere un’attività distinta sia da quelle di tipo conoscitivo che da quelle di tipo pratico. Di tale consapevolezza è prova anzitutto il fatto che, nella stessa “Repubblica”, dove illustra l’educazione dei guardiani, Platone raccomanda che si faccia ricorso, per la formazione dell’anima, alla musica, mostrando in tal modo di riconoscere all’«arte» un potere di suggestione non soltanto negativo, ma anche positivo. 

Non altrettanto, però, Platone dice della musica, cioè del canto e della melodia, che non è propriamente una forma di imitazione. In essa possono essere negative certe parole, o certe forme di armonia, come quelle lamentose e quelle molli (cioè le armonie “ionica” e “lidia”), ma ne andranno conservate altre, che suscitano fermezza o serenità (cioè quelle “dorica” e “frigia”). Anche tra i ritmi ve ne sono alcuni di ineleganti, perché irregolari, ed altri di eleganti, perché regolari. Dunque è possibile orientare la musica e l’educazione che su di essa si fonda verso un ideale di bellezza, euritmia, armonia ed eleganza (III, 398 c – 403 c). 

Ma il documento più chiaro della percezione che Platone ha avuto dello specifico estetico è un breve dialogo, lo “Ione”, concernente l’arte dei “rapsodi”, cioè di quanti andavano cantando la poesia di Omero e di altri poeti. Colui che canta i versi di Omero, afferma Platone in questo dialogo, non lo fa in virtù di un’arte, ma di un «potere divino», simile a quello proprio del “magnete”, che trasmette la forza di attrazione ai successivi anelli di una catena. La fonte di questo potere è la “Musa”, cioè la divinità stessa, la quale lo trasmette ai poeti ispirandoli, cioè penetrando in essi, rendendoli invasati dalla divinità (questo è il significato del termine «entusiasmo»). 

Il carattere positivo dell’ispirazione divina in genere, e quindi anche di quella artistica, è ribadito da Platone nel “Fedro”. Qui egli fa l’elogio dell’amore, considerato come una specie di delirio (manía), che è dono degli dei. Altre forme di delirio sono la capacità di profetizzare, che è ugualmente un’ispirazione divina, e la capacità di poetare. Infine, nel “Simposio”, Platone sembra quasi intuire il carattere creativo dell’«arte», quale sarà scoperto e messo in evidenza dalla moderna estetica romantica. Qui, infatti, egli afferma che, come l’amore per i bei corpi si esprime nella tendenza a generare “sessualmente”, così l’amore per le belle anime si esprime nella tendenza a generare “spiritualmente”, cioè l’amore per il bello è «generazione nel bello» (Simposio, 206). 

Nota finale: L’«arte», non più divina manía (Ione e Fedro) e neppure creazione «nel» bello (Simposio), si è trasformata nella “Repubblica” platonica in «imitazione del modo sensibile», copia di una copia. Da ciò la condanna conoscitiva e morale di ogni espressione artistica in quanto allontana l’uomo dalla vera realtà, impedendogli l’ascesa alla bellezza intelligibile.


sabato 3 dicembre 2016

PLATONE E LO STATO


Normalmente la filosofia politica viene considerata una dottrina dello Stato, perciò anche a  proposito di Platone, che alla politica dedicò la massima attenzione (al punto che tutta la sua vita, nella “Lettera VII”, è presentata come un impegno politico), si vuole parlare di Stato. Non bisogna dimenticare però che lo Stato propriamente detto, cioè lo Stato sovrano, è una creazione moderna, mentre nell’antica Grecia in luogo dello Stato esisteva la “pólis”, da cui deriva lo stesso termine «politica». La “pólis” era la società autosufficiente ed autogovernantesi, coincidente in genere con la popolazione di una città e del territorio necessario al suo sostentamento, ma suscettibile di assumere le estensioni più diverse. 

La traduzione migliore del termine “pólis” sarebbe «società politica», ma con questa precisazione possiamo, per comodità, continuare a parlare di Stato. L’opera classica dedicata da Platone allo Stato è la “Repubblica” (in greco “Politéia”, che significa «costituzione», cioè ordinamento della “pólis”), opera che è anche il primo grande trattato di filosofia politica. Qui l’autore spiega anzitutto l’origine dello Stato, osservando che il singolo individuo umano non è autosufficiente, cioè non è in grado di soddisfare da solo tutti i suoi bisogni, sia «materiali» che – è certamente sottinteso – «spirituali», perciò è indotto dalla sua stessa natura ad associarsi con altri.

Il fondamento dello Stato è dunque la natura socievole, anzi – dirà Aristotele – politica dell’uomo. Indi Platone mostra come il criterio più razionale per la soddisfazione dei bisogni sia la distribuzione dei compiti, cioè quella che con espressione moderna sarà chiamata la divisione del lavoro. «Le singole cose – egli afferma – riescono più e meglio e con maggiore facilità quando uno faccia una cosa sola, secondo la propria naturale disposizione e a tempo opportuno, senza darsi pensiero delle altre» (II, 370 c). 

Poiché ciascun individuo ha bisogno sia di cibo, sia di abitazione, sia di vestiario, è bene che alcuni si specializzino nella produzione del cibo per tutti, altri delle abitazioni, altri del vestiario. Nascono così le diverse categorie di cittadini, gli agricoltori, gli artigiani, i commercianti, dal cui insieme e dalla cui collaborazione è costituita appunto la “pólis” (Repubblica, II, 367 e – 371 b). 

Poiché però i bisogni crescono, accanto a quelli più elementari ne nascono altri, che richiedono risorse sempre maggiori e quindi implicano la necessità della difesa di esse dai tentativi che altri Stati possano compiere per impadronirsene: di qui il sorgere di una particolare categoria di cittadini, chiamati guardiani, o custodi, specializzati in questo compito. Questi ultimi, in quanto detentori della forza, devono essere però in grado di distinguere, come dei buoni cani da guardia, gli amici dai nemici, e in genere che cosa è bene da che cosa è male, perciò devono essere in qualche misura sapienti, cioè filosofi (II, 372 c – 376 e). 

Ecco delinearsi così le «tre» categorie fondamentali di cittadini: i «produttori», dediti alle attività che oggi diremmo economiche (agricoltori, artigiani, commercianti), i «guerrieri», o guardiani dediti alla difesa, ed i «filosofi», o guardiani dediti al governo. Non si tratta, però, di categorie chiuse: chiunque, per natura o per educazione, lo meriti, può accedere alle categorie superiori, e chi invece demeriti, scenderà in quelle inferiori. Tutti i guardiani, sia guerrieri che filosofi, devono condurre, secondo Platone, vita in comune, cioè alloggiare insieme, prendere i pasti insieme e non possedere beni personali: questo al fine di evitare che facciano prevalere interessi particolari sul bene generale della città (III, 415 d – 417 b). 

È questo il cosiddetto «comunismo» platonico, limitato peraltro ai soli guardiani e dettato non da una concezione materialistica dell’uomo, bensì dalla rigida subordinazione dell’economia alla politica ed all’etica. Affinché la città viva nel modo migliore possibile, è necessario che ciascuna categoria di cittadini realizzi la virtù che le è propria, cioè la perfezione della sua funzione: i filosofi dovranno realizzare soprattutto la «sapienza», i guerrieri il «coraggio» ed i produttori la «temperanza». Quando ciascuna categoria avrà realizzato la propria virtù, dall’insieme risulterà quell’armonia in cui consiste la giustizia, costituita dunque dall’adempimento, da parte di ciascuno, del proprio compito (IV, 427 d – 434 c). 

La realizzazione di questo Stato «giusto», o perfetto, richiede tuttavia alcune condizioni che per i Greci erano abbastanza insolite: anzitutto un’identità di compiti e di educazione tra uomini e donne, la quale comporta persino dei comuni esercizi ginnici e comuni funzioni militari; in secondo luogo una comunanza, per i guardiani, di donne e di figli, cioè praticamente l’abolizione della famiglia particolare e la trasformazione dello Stato in un’unica grande famiglia; in terzo luogo l’affidamento del potere ai filosofi, espresso dalla celebre tesi che i filosofi governino o che i governanti facciano buona filosofia. 

Esso corrisponde all’ideale sognato da Platone per tutta la sua vita, da lui esperito come reale nelle comunità pitagoriche (filosofi al potere) e perseguito mediante l’educazione di Dionisio e la fondazione dell’Accademia (formazione dei governanti alla filosofia). Per comprenderne il significato, tuttavia, bisogna tenere presente che i filosofi in questione non sono i filosofi di professione, quali erano ad esempio i sofisti, ma coloro che conoscono la «verità» ed il «bene», ossia gli uomini più esperti e saggi. Questi non possono che essere pochi e l’affidamento del potere ad essi non può che avvenire in situazioni ottimali, come quelle emblematicamente espresse dalla città sinora descritta, che Platone stesso considera ben difficili, anche se non impossibili, da realizzare (VI, 502 a-c). 

Grande importanza acquista, in questa prospettiva, l’educazione, che dovrà essere affidata allo Stato e dovrà rivolgersi non tanto ai semplici “produttori”, per i quali è sufficiente l’apprendimento del proprio mestiere, quanto ai “guardiani”, cioè ai guerrieri, di cui si dovrà coltivare il «corpo» mediante la ginnastica e l’«anima» mediante la musica (cioè le attività spirituali, moralmente orientate), e soprattutto ai “filosofi”, che mediante la matematica, dovranno essere addestrati all’esercizio di quella dialettica che ha per oggetto le “idee” e, conclusivamente, l’idea del «bene». Solo chi conosce il «bene», infatti, può governare gli altri, guidandoli appunto verso il «bene» (VI, 502 c 511 e). 

Naturalmente, come spiega Platone, i filosofi, proprio perché amano la contemplazione delle “idee”, non aspirano al «potere», anzi fanno di tutto per sottrarvisi: perciò lo Stato dovrà costringerli a governare, cioè a ritornare in quella specie di «caverna» che è il “mondo sensibile”, dalla quale essi sono usciti per andare a contemplare le “idee” (VII, 519 e – 521 b). Infatti, afferma Platone, «lo Stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato in modo opposto» (VII, 520 d). 

Oltre alla descrizione dello Stato perfetto, che potremmo chiamare «ideale» (non solo perché non esiste in questo mondo, ma anche perché deve servire da modello agli Stati di questo mondo), la “Repubblica” contiene anche una celebre analisi degli Stati reali, interpretati alla luce del modello or ora descritto: questi sono infatti, secondo Platone, altrettante degenerazioni dello Stato ideale, che si allontanano da esso sempre più, in una specie di degradazione continua. 

La prima degenerazione dello Stato perfetto, il quale è una vera e propria "aristocrazia" (cioè governo dei migliori), è lo Stato «timocratico», cioè il governo di coloro che aspirano soprattutto agli onori (timé), vale a dire dei guerrieri, uomini ambiziosi, in cui domina l’anima impulsiva: ad essa si giunge quando il meccanismo di riproduzione dei filosofi per qualche errore si inceppa e i figli dei filosofi assumono una natura, appunto, di guerrieri. 

La degenerazione successiva è lo Stato «oligarchico», cioè il governo dei pochi (olígoi), vale a dire dei ricchi, dominati soprattutto dall’avidità di denaro: ad essa si giunge quando i guerrieri lasciano prevalere sul desiderio dell’onore il desiderio, appunto, del denaro. Questo Stato è caratterizzato, osserva acutamente Platone, dalla lotta fra i pochi ricchi e i molti poveri, cioè da quella che in età moderna sarà chiamata “Lotta di Classe”. «Un simile Stato è per forza non uno – afferma il testo –, ma duplice: quello dei poveri e quello dei ricchi. Essi abitano lo stesso luogo e si tendono continuamente reciproche insidie» (VIII, 551 d). 

la terza e ulteriore degenerazione è lo Stato «democratico», cioè il governo del “démos”, della massa, composta da uomini dediti a tutte le passioni, in cui domina l’anima appetitiva: esso è caratterizzato dalla licenza e dall’anarchia, e si instaura quando i poveri si rivoltano contro i ricchi (rivoluzione) e si impadroniscono del potere. 

Infine l’ultima e peggiore degenerazione è la «tirannide», cui si perviene quando i capi della massa, che l’hanno guidata alla conquista del potere, si servono di questo per soddisfare le loro passioni individuali, riducendo l’intera città in uno stato di schiavitù (libro VIII). Il «tiranno», per Platone, è il peggiore di tutti gli uomini, ed è schiavo lui stesso delle sue passioni, quindi è infelice, perché condannato ad avere sempre nuovi desideri ed a vivere nel terrore di essere ucciso da coloro sui quali esercita la sua tirannide. Il «tiranno» è l’opposto estremo del filosofo, che è invece il governante perfetto, l’uomo «regale», cioè degno di essere re, che comunque realizza lo Stato ideale nella sua vita interiore (libro IX). 

Il grande affresco, filosofico e sociologico, offerto dalla “Repubblica”, non è tuttavia l’unico contributo di Platone alla politica: successivamente egli dedicò all’argomento altri due dialoghi, il “Politico” e le “Leggi”, in cui il suo pensiero al riguardo fa registrare qualche evoluzione. Nel “Politico”, dedicato appunto a delineare la figura dell’uomo politico, cioè del buon governante, Platone sostiene anzitutto che, per governare, bisogna possedere la scienza del governo, cioè la scienza regale, la quale è la stessa sia che si debba governare uno Stato (scienza politica), sia che si debba governare una casa (scienza economica, da “óikos” = casa) (Pol., 258 b – 259 a). Questa scienza è insieme teoretica, cioè conoscitiva, e pratica, cioè capace di agire, in particolare di comandare. 

Colui che possiede la scienza di governare, cioè il vero politico, non ha bisogno di leggi: anzi, il governo dell’uomo che sa e non ha leggi è migliore del governo fondato sulle leggi, perché queste formulano comandi o divieti di carattere generale, senza poter tener conto dei casi singoli, cosa che invece il buon politico può fare (294 c – 296 a). 

Il governo basato sulle leggi, tuttavia, può essere di vari tipi, ciascuno dei quali corrisponde ad una diversa costituzione, a seconda che governi uno solo, governino i pochi, o governino i molti. Il governo di uno solo è la «monarchia»: se essa si svolge nel rispetto delle leggi, dà luogo alla costituzione migliore, che è il «regno»; se invece si svolge nella violazione delle leggi, dà luogo alla costituzione peggiore, che è la «tirannide». Il governo di pochi nel rispetto delle leggi è l’«aristocrazia», nella loro violazione è l’«oligarchia»; quello dei molti, sia che si svolga nel rispetto sia in violazione delle leggi, ha sempre uno stesso nome, «democrazia». Le costituzioni vigenti sono sempre quelle peggiori, e fra esse quella più sopportabile è la «democrazia», poiché in questa, anche se le leggi non vengono rispettate, la maggiore distribuzione del potere è un rimedio a mali peggiori (302 b  – 303 e). Rispetto alla “Repubblica”, dunque, il “Politico” lascia cadere tutta la complessa divisione dello Stato in classi e le condizioni ad essa connesse (comunismo di proprietà e famiglie), per far dipendere il buon governo unicamente dalla scienza dei governanti. 

Un ulteriore allontanamento dalla “Repubblica”, ed una evoluzione rispetto allo stesso “Politico”, è rappresentato dalle “Leggi, che costituiscono l’ultima opera di Platone. Qui l’autore mostra di considerare ormai irrealizzabile lo Stato perfetto e si concentra invece nell’analisi del migliore degli stati possibili, il quale, rispetto al primo, è soltanto uno «Stato secondo», cioè un’immagine il più possibile somigliante di quello (Leggi, V, 739 b – 741 a). Lo «Stato secondo», a differenza di quello ideale, è retto da leggi, perciò l’intero dialogo è dedicato alla minuziosa illustrazione di come queste debbano essere. Inoltre lo «Stato secondo», cioè il migliore possibile, deve avere una costituzione che sia la sintesi di quanto di più valido v’è nelle costituzioni classificate nel “Politico”: l’aspetto valido della «democrazia», cioè la "libertà", quello dell’«aristocrazia», cioè la "saggezza", e quello del «regno», cioè la "concordia"(l’unità) (III, 693 d – 696 b). 

Si ha così una specie di «costituzione mista», sintesi delle tre «costituzioni semplici», migliore e più duratura di tutte, la quale è stata in qualche misura realizzata, secondo Platone, sia a Sparta che a Creta, ossia in quegli Stati in cui c’è un potere monarchico (il re), un potere aristocratico (il consiglio) e un potere democratico (l’assemblea) (IV, 712 b – 713 a). È questa una dottrina destinata ad avere grande fortuna nel pensiero e nelle istituzioni politiche romane e moderne. 

La propensione di Platone per l’«aristocrazia» resta tuttavia immutata anche nelle “Leggi”, là dove egli pone al vertice dello Stato un «consiglio supremo», detto anche «consiglio notturno» perché deve riunirsi di notte, al quale è delegato il compito di coordinare l’intera vita della società, spingendosi sin nelle più particolari attività dei cittadini. 

Nota finale: Per non cadere nella tirannide della «democrazia», che è il peggiore dei domini perché soffoca ogni verità e libertà, dice Platone nelle “Leggi”, bisogna che il governo sia della “ragione” e che le leggi ne siano quindi espressione.