sabato 24 settembre 2016

PARMENIDE E IL SENTIERO DEL GIORNO


Tra i primi pensatori Greci, Parmenide occupa una posizione centrale che divide quanti lo precedono da quanti lo seguono, non solo nella storia della Filosofia antica, ma lungo l’ intera storia del pensiero filosofico. Egli porta alla luce un «Problema» che impegnerà tutta la Filosofia antica, per cui con ragione Platone lo nomina «Venerando e Terribile». 
Vissuto ad Elea, Parmenide scrisse un poema “Sulla natura” (perì phýseos) di cui possediamo 154 versi, dove sono descritte «tre» possibili «vie» della ricerca di cui una sola è la vera, l’altra è fallace, mentre la terza, che tenta di congiungere l’una con l’altra, non approda a verità. Vediamo di percorrere queste «vie» insieme a Parmenide, o meglio insieme alla dea di cui Parmenide si considera portavoce. 
La «Via della Verità» è tracciata dal principio che dice: l’«Essere è ed è Impossibile che non Sia». Il contrario di questo principio è l’ impercorribile assurdo che la «Verità» proibisce di affermare. Se l’ «Essere è», prosegue Parmenide, non può venir generato né andar distrutto, perché altrimenti prima di esser generato e dopo esser distrutto, «Non sarebbe», e affermare che l’«Essere Non è» è proibito dalla «Verità». Quindi l’«Essere è Immutabile ed Eterno», e la Giustizia proibisce che in qualsiasi modo divenga. 
Fin dall’ inizio la Filosofia pensa che l’ambito di ciò che nasce e che muore non nasce e non muore, è cioè «Eterno». A questo ambito la Filosofia ha dato il nome di «Phýsis» che i latini hanno tradotto con «natura». E perì phýseos (intorno alla natura) si intitolano le opere dei primi filosofi fra cui Parmenide. «Phýsis» è costruita sulla radice indoeuropea «bhu» che significa «essere», una radice strettamente legata alla radice «bha» che significa «luce». 
La parola «Phýsis» appartiene al linguaggio prefilosofico, ma con l’ avvento della Filosofia acquista quel nuovo significato che è l’«Essere» nel suo illuminarsi. Forse anche per questo Parmenide chiama La «Via della Verità», ove si dice che l’«Essere» è, «Sentiero del Giorno». Lungo questo «Sentiero» ciò che si fa luminoso è che l’«Essere» si oppone al «Niente» e che questa opposizione è «Eterna». 
Già Anassimandro aveva inteso la «Phýsis» come «áperiron», ossia come quell’illimitato al cui interno ogni cosa limitata nasce e muore, per cui dell’«áperiron», dell’illimitato, si deve dire che è «Eterno». Anassimene aveva cercato di dire che cosa fosse l’«áperiron» che, come Anassimandro aveva visto, non poteva essere una «determinazione» particolare, ma quell’«identico» da cui le determinazioni scaturiscono. Eraclito individuò tale identità nello stesso «opporsi» delle cose, mentre Pitagora l’aveva individuata nell’«uno»; infatti ogni cosa, solo in quanto si oppone alle altre, è una. 
Ma sia l’«Opposizione» sia l’«Unità» sono solo delle proprietà, sia pure essenziali, dell’elemento unificatore del molteplice che Parmenide nomina «Essere». L’«Essere», infatti, è ciò che è «identico» in ogni cosa che è, è ciò che, opponendosi al «Nulla», esprime il significato supremo dell’ «Opposizione» e, per effetto dell’ «Opposizione», si costituisce come «Unità». Si tratta di un’ «Unità» che non ospita né il «Divenire» delle cose, né la loro «molteplicità». 
Dire, infatti, che una «cosa diviene» significa dire che passa dall’«Essere» al «Non-Essere», e quindi significa affermare che il «Non-Essere è»; dire infine che ci sono molte «cose diverse»: albero, stella, animale, terra, acqua, aria, fuoco significa dire che ciascuna di esse «Non è Essere», e quindi di nuovo che il «Non-Essere è». La convinzione che il «Divenire» e il molteplice esistono è l’opinione illusoria (Dóxa) dei mortali da cui la dea, che invita a percorrere il sentiero del giorno, tiene lontani. 
Recita infatti il frammento 2 di Parmenide: 
«Orbene, io ti dirò – e tu ascolta la mia parola – quali vie di ricerche soltanto si possono pensare: una che l’essere è e che non è possibile che non sia – è il sentiero della persuasione, perché tien dietro a verità – l’altra che l’essere non è e che è necessario che non sia; e io ti dico che questa è una via preclusa ad ogni ricerca: infatti non potresti conoscere ciò che non è, giacché non è cosa possibile, né potresti esprimerlo». 
E il frammento 6: 
«È necessario dire e pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è; queste cose ti esorto a considerare. Perciò da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, gente a due teste; infatti è l’incertezza che nei loro petti dirige la mente errante. Costoro sono trascinati, sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi: gente senza giudizio, secondo la quale essere e non-essere sono identici e non identici, e di ogni cosa vi è un cammino che è reversibile». 
Infine il frammento 8: 
«Una sola via resta al discorso: che l’essere è». 
Dal testo emerge chiaramente che Parmenide, portando alla luce la «Phýsis» come «Essere», e riflettendo sul «Senso» dell’«Essere» (che non può Non-Essere) è costretto a negare che la «Phýsis» sia l’elemento unificatore (Stoichéion) del molteplice e il principio (Arché) del «Divenire Cosmico». L’«Essere» è assolutamente indifferenziato, indeterminato, l’assolutamente semplice e puro, mentre il mondo che ci sta dinnanzi nella sua incessante mutazione e varietà è «Dóxa», ossia apparenza illusoria in cui i mortali pongono fiducia. 
Nota finale: 
Con Parmenide la Filosofia si presenta come sfida al comune modo di pensare degli uomini e, contrapponendo «La Via della Verità» (Alétheia) alla «Via dell’ Opinione» (Dóxa), apre quell’antitesi tra «Ragione ed Esperienza» che Empedocle, Anassagora e Democrito tenteranno, in modi diversi, di risolvere (vedi anche post pubbicato Genn. 2015 “Il Firmamento, Oltre Parmenide”)



sabato 17 settembre 2016

PITAGORA E L’ORDINE DEI NUMERI


Circondato da un alone leggendario, Pitagora fu complessa e singolare figura di filosofo e scienziato. A lui vengono attribuite la «Dottrina della Metempsicosi» e la «Dottrina del Numero» concepito come essenza stessa delle cose e principio formatore dell’universo. 

Da Platone e, soprattutto, da Aristotele abbiamo notizie circa la «Dottrina della Metempsicosi» (la trasmigrazione delle anime di corpo in corpo) attribuibile con una certa sicurezza a Pitagora, e le teorie matematiche e musicali della scuola. 

A proposito della filosofia del «Numero» dei pitagorici, Aristotele dice che «per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire, e, nutriti delle medesime, credettero che i principi di queste fossero principi di tutti gli esseri. E, poiché nelle matematiche i numeri sono per loro natura i principi primi, appunto nei numeri essi ritenevano di vedere, più che nel “Fuoco”, nella “Terra” e nell’ “Acqua”, molte somiglianze con le cose che sono e che si generano; e inoltre, poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consistevano nei numeri, e, infine, poiché tutte le altre cose, in tutta la realtà, parevano a loro che fossero fatte a immagine dei numeri e che i numeri fossero ciò che è primo in tutta quanta la realtà, pensarono che gli elementi del “Numero” fossero elementi di tutte le cose, e che tutto quanto l’universo fosse “Armonia” e “Numero”» (Metafisica, A. 5, 985-6). E poco dopo: «Pare che anche costoro, che pensavano che il principio fosse il “Numero”, pensassero il principio e come “qualità accidentale” e come “condizione delle cose che sono”. Elementi del numero ponevano il “pari” e il “dispari”, l’uno pensato come “infinito” e l’altro come “limitato”; l’unità la consideravano derivante da entrambi (dicevano quindi che essa è “pari e dispari”); e dall’unità pensavano che nascesse il “Numero”, e che nel “Numero” consistesse tutto il mondo» (Metafisica A. 986 a 15-20). 

Il numero pitagorico non è solo un’espressione quantitativa, ma, per l’identificazione operata tra significato aritmetico e significato geometrico, i numeri assumevano un aspetto qualitativo che i pitagorici esprimevano in figure, come ad esempio la «Tetraktys», su cui erano soliti giurare, dove il numero 10 risulta dalla composizione del 4 (i punti di ogni lato) col 3 (i numeri dei lati). Se il “Numero” è la sostanza di tutte le cose, tutte le opposizioni delle cose vanno ricondotte a opposizione tra numeri. Fondamentale è l’opposizione del “pari e dispari” in cui tutti i numeri si lasciano raggruppare, tranne l’«uno», capace di generare sia il “pari” che il “dispari”, perché aggiunto al numero “pari” genera il “dispari” e viceversa. Il “pari” e il “dispari” sono a loro volta espressione dell’illimitato e del limite perché, come dice un’antica testimonianza riportata da Plutarco: «Quando il numero “dispari” è diviso in due parti rimane una unità in mezzo; ma quando viene diviso in due parti il “pari”, resta un campo vuoto senza determinazione e senza numero, dimostrando che è difettoso e incompleto» ( Plutarco - La E di Delfi - De E apud Delphos, 388 a-b). 



Come già Eraclito, anche i pitagorici ritenevano che la lotta tra gli «opposti» fosse conciliata da un principio di «armonia» che il pitagorico Filolao definisce: «unità del molteplice e concordia del discordante» (frammenti 10). L’«armonia» trova la espressione più alta nella musica i cui rapporti matematici sono assunti dai pitagorici come modello di tutte le armonie del «cosmo», una parola, quest’ultima, che con i pitagorici acquista quel significato di «ordine» con cui verrà tramandata in Occidente. 

Ci riferisce infatti Platone che i pitagorici «ritengono che cielo e terra, dei e uomini sono tenuti insieme dall’ordine, dalla saggezza e dalla rettitudine: ed è proprio per tale ragione… che essi chiamano questo tutto “cosmo” (ossia “ordine”)» (Gorgia, 507 e 508 a). 

Nota finale: 

Con l’introduzione di questo concetto, l’universo cessa di essere dominio di oscure forze, campo di misteriose e indecifrabili potenze, per diventare quell’«ordine» che, reso trasparente dal “Numero”, diventa accessibile al pensiero e alla conoscenza. Afferma infatti il pitagorico Filolao, che la tradizione vuole contemporaneo di Socrate: «Tutte le cose che si conoscono hanno “Numero”: senza questo, nulla sarebbe possibile pensare, né conoscere» (frammenti, 44 B 4).   


domenica 11 settembre 2016

ERACLITO E LA RIFLESSIONE SUGLI OPPOSTI


La speculazione degli ionici culmina nella dottrina di Eraclito di Efeso che, invece di limitarsi al «principio» di tutte le cose e al problema della loro genesi, tematizza i problemi connessi al loro «divenire» e alla loro identità raggiunta per reciproca «Opposizione». Il perenne «divenire» di tutte le cose trova la sua esposizione in immagini divenute celebri: «A chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre diverse» (frammenti B 12). «Non si può discendere due volte nello stesso fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma, a causa dell’impetuosità e della velocità del movimento si disperde e si raccoglie, viene e va» (frammenti B 91). «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo» (frammenti B 49). 

Il senso è chiaro: il fiume è sempre lo stesso, ma non sempre le stesse sono le acque che lo percorrono, così come chi si immerge in momenti diversi non è più lo stesso, perciò «siamo e non siamo» e a nessuno è concesso discendere due volte nella stessa acqua. 

Ma la filosofia di Eraclito, ben lungi dal ridursi alla semplice proclamazione del flusso universale delle cose, del «tutto scorre» (pánta rei), individua nel «divenire» gli «opposti» entro cui il «divenire» stesso accade. «Le cose fredde si riscaldano, le cose calde si raffreddano, le cose umide si disseccano, le cose secche si inumidiscono» (frammenti B 126). 

L’identità delle cose, che Talete aveva individuato nell’«Acqua», Anassimandro nell’«Ápeiron», Anassimene nell’«Aria», viene colta da Eraclito nell’«Opposizione» come tale, che consente alle cose di diversificarsi dalle altre, trovando in questa diversificazione la loro identità. In questo senso la guerra (pólemos), in cui ogni cosa consiste e da cui è generata, può ben dirsi: «Madre di tutte le cose e di tutte regina» (frammenti B 53). 

Ciò che le cose hanno di identico è la contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre, ciò che hanno in comune è questa contesa che consente ad ogni cosa di essere ciò che è. Infatti, se la vita non si opponesse alla morte, il caldo al freddo, il giorno alla notte, la sazietà alla fame, non esisterebbero vita, caldo, giorno, sazietà. Ed è per questo che Eraclito può dire che l’«Opposizione» è il «principio» stesso dell’armonia di tutte le cose: «Ciò che è opposizione si concilia, e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto» (frammenti B 8). E ancora: «Essi, gli ignoranti, non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira» (frammenti B 53). 

Se dunque le cose hanno realtà in quanto divengono, e se il «divenire» è dato dagli opposti che, contrastandosi, si pacificano in superiore armonia, nella sintesi degli opposti sta quel «principio» che spiega tutta la realtà e che Eraclito chiama DIO: «il DIO è giorno-notte, è inverno-estate, è guerra-pace, è sazietà-fame» (frammenti B 67). 

Con la parola «DIO» non si deve intendere il creatore del mondo, come il pensiero occidentale ha sempre pensato sotto l’influsso della cultura ebraica, perché per Eraclito: «Questo mondo, che è lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini l’ha creato, ma sempre fu, è e sarà “Fuoco” eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne» (frammenti B 30). Il «Fuoco» di cui parla Eraclito, a differenza dell’«Acqua» di Talete e dell’«Aria» di Anassimene, ha perso ogni carattere corporeo per diventare un’espressione che, in modo paradigmatico, dice le caratteristiche del perenne «divenire», dell’«Opposizione» e dell’«Armonia». «Col Fuoco si cambiano tutte le cose e il Fuoco si scambia con tutte, come l’oro si scambia con le merci e le merci con l’oro» (frammenti B 90). 

Il «Fuoco» allora diventa la metafora dell’«Uno» inteso come quella dinamica unità per cui «Da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose» (frammenti B 10). Questa è la legge che il «Logos», la parola che ha in vista la «Verità» (Alétheia) e non le «opinioni» (Dóxa) degli uomini, enuncia: «Non ascoltando me, ma ascoltando il Logos è saggio ammettere che tutte le cose sono uno». Il «Logos» è la parola che si offre all’ascolto di tutti, ma i più non la sentono, perché, invece di rivolgere il loro sguardo, da desti, a ciò che è comune, come dormienti si concedono alle loro «opinioni» private che, come «Trastulli di Bimbi», lasciano fuori dalla «verità» delle cose. Nel loro sogno i più non comprendono che il «contrasto» tra le cose è la stessa condizione della loro «armonia». 

In questo modo Eraclito dà lo statuto del filosofo che dice cose vere perché sta in ascolto del «Logos», a differenza di coloro che conoscono un gran numero di cose, ma non la legge che le governa. Con ciò Eraclito non riduce i confini dell’anima che, in presenza del «Logos», non può più abbandonarsi a quei sogni e a quelle fantasie di cui i poeti sono espressione, perché lo sfondo sconfinato dell’anima è restituito al filosofo dalla profondità del «Logos»: «I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo Logos» (frammenti B 45). 

Nota finale: Con Eraclito diventa esplicito per la prima volta che la cura per l’unità che tutto connette è legge fondamentale che deve guidare la vita filosofica, perché cogliere la «connessione» è origine della «conoscenza».     




sabato 10 settembre 2016

ANASSIMENE


Anassimene, che la tradizione vuole discepolo di Anassimandro, corregge la teoria del maestro nel tentativo di conferire  una qualche positività al «principio» che Anassimandro aveva connotato in termini esclusivamente negativi. L’«Ápeiron», che in Anassimandro era il «principio» da cui tutte le cose traggono la loro esistenza, diventa l’«Attributo» di quel «principio» che Anassimene indica nell’«Aria». L’«Aria» di Anassimene non equivale all’«Acqua» di Talete, perché quest’ultima è qualcosa di determinato, mentre l’«Aria» di Anassimene non trascura il guadagno speculativo di Anassimandro che non concede a una cosa determinata di essere «principio» delle determinazioni. 

L’«Aria» è dunque l’«Ápeiron», ossia quell’indeterminato che, rarefacendosi e condensandosi, genera tutte le cose. «L’ “Aria” si differenzia nelle varie sostanze a secondo del grado di rarefazione e condensazione – riferisce Teofrasto in un frammento riportato da Simplicio – e così dilatandosi dà origine al fuoco, mentre condensandosi dà origine al vento e poi alla nube; ad un grado maggiore di densità forma l’acqua, poi la terra e quindi le pietre; le altre cose derivano poi da queste» (In Arist. Phys. 24, 26). 

Anassimene porta così alla luce un concetto decisivo nello sviluppo del pensiero: si tratta del concetto di «causa» che determina la trasformazione del «principio» in tutte le cose. Il mondo greco non ignorava il concetto di «causa», ma ancora non lo aveva fatto uscire da quel contesto morale che regolava la connessione tra colpa e pena. Non a caso per la parola «causa» in greco si usa la stessa parola che si impiega per «colpa» (aitía). Così la morte del colpevole (aitíos) non arresta l’effetto della «colpa» che è «causa» (aitía) delle pene delle generazioni future. 

La successione triadica della tragedia greca rappresenta il primo tentativo di seguire in un tempo più lungo quel rapporto di “causa-effetto”, nella forma di colpa e pena, che lo spazio ristretto del presente non consente di verificare. Nell’ignoranza della “causa-colpa” (aitía) l’apparire dell’effetto-pena è incomprensibile, la sua comparsa è senza ragione, è mistero imperscrutabile del fato, è destino inconoscibile. 

Con Anassimene la nozione di «causa» esce dal contesto morale per affacciarsi all’orizzonte che noi oggi diremmo scientifico, dove le categorie della “colpa” e della “pena” cedono al rapporto “causa-effetto” così decisivo nel modo occidentale di pensare. Ma con l’intervento del concetto di «causa» anche il «principio» (Arché) di tutte le cose muta il suo volto, nel senso che l’«Arché» non è più soltanto la «sostanza» o la «materia» di cui le cose sono costituite, ma anche il «principio» dell’«azione», o «causa efficiente» come più tardi la chiamerà Aristotele, che determina la trasformazione delle cose. 

Nota finale: Con la rarefazione e la condensazione Anassimene è in grado di spiegare la differenza «qualitativa» delle cose a partire dalla differenza «quantitativa» dell’originario «principio». Ma introducendo la differenza «qualitativa» Anassimene inaugura quella «riflessione sugli opposti» che Eraclito in seguito renderà esplicita.



domenica 4 settembre 2016

ANASSIMANDRO


La filosofia procede per superamento di aporie. “Póros” in greco significa “via”, “a-poría” è una via senza uscita, che più non consente di proseguire nella direzione dischiusa. Anassimandro, che la tradizione vuole discepolo di Talete, riflettendo sulla risposta che il suo maestro dà al problema del «principio» di tutte le cose, avverte che una cosa fra le tante, come appunto è l’«Acqua», non può essere ciò che tutte le cose hanno di identico. Su questa strada non c’è seguito, per cui, di fronte al dispiegarsi dell’aporia, non resta che cambiar cammino. In ciò consiste il progresso di Anassimandro per il quale, siccome tutte le cose sono limitate, il «principio» di tutte le cose dovrà essere non-limitato. 

Questo «principio» Anassimandro lo nomina «Ápeiron» che, alla lettera, significa appunto non-limitato, non-finito, non-particolare. «Ápeiron» è ciò che sfugge al numero, alla misura, al limite, e perciò, meglio dell’«Acqua» di Talete, può svolgere la funzione di «principio» (Arché) e, come dice Anassimandro, di governo (Kúbernos) di tutte le cose. Il governo che l’«Ápeiron» esercita su tutte le cose è esplicato da un frammento di Anassimandro trasmessoci da Simplicio: «Donde le cose traggono la loro nascita, ivi si compie la loro dissoluzione secondo necessità; infatti reciprocamente pagano il fio e la colpa dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo» (In Arist. Phis. 150, 22 sgg.). 

Qui Anassimandro dispiega «due» ordini: «L’ordine dell’Ápeiron» che contiene, “Periéchei” dice Anassimandro, ogni opposizione e, così contenendo, si pone come originaria unità degli opposti, e «L’ordine del Tempo» dove ogni cosa si presenta come una «prevaricazione» sulle altre, che si incaricano di farle pagare il fio della sua «ingiustizia», dissolvendola e facendola ritornare nell’unità originaria dell’«Ápeiron». Così, ad esempio, il giorno sopraggiunge prevaricando sulla notte che dissolve e da cui sarà dissolto. l’«Ápeiron» è dunque quell’unità che mantiene sotto il suo governo tutte le cose che, nella generazione dell’universo, si vanno separando da essa per farvi poi ritorno. «Essere e Divenire», i grandi temi del pensiero occidentale, sono già presenti nelle poche parole di Anassimandro giunte sino a noi. 

Nota finale: Talete e il suo discepolo Anassimandro abbandonando le cosmologie mitiche in favore di una spiegazione naturalistica dell’universo vengono riconosciuti come iniziatori del pensiero scientifico e filosofico greco.   

sabato 3 settembre 2016

TALETE E IL PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE


Di Talete, che risulta non aver scritto nulla, è Aristotele che ci informa, dicendoci che fu l’iniziatore della filosofia della “Phýsis”, in quanto per primo affermò l’esistenza di un «principio» unico, causa di tutte le cose che sono, e disse che questo «principio» è l’«Acqua». La parola «principio» non è di Talete, ma del suo discepolo Anassimandro. 

Il senso greco di questa parola ce lo dà Aristotele là dove, riferendo di Talete, dice: «Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, afferma che quel principio è l’acqua (per questo dice che la terra galleggia sull’acqua) desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora,ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che tutti i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide» (Metafisica, Aristotele 3, 983 b 20-27). 

In filosofia le domande sono più importanti delle risposte perché aprono il problema la cui soluzione spesso dipende dal modo con cui lo si è aperto. Ebbene l’apertura taletiana del problema è la ricerca del «principio di tutte le cose», dove per principio si deve intendere sia «ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono tutti gli esseri», sia «ciò che permane identico nel tramutarsi delle sue affezioni», e sia «ciò che continua ad essere immutato» (Metafisica, Aristotele 3, 983 b 9sgg). 

Questa complessità di significati il greco la raccolse nella parola «Arché» che designa tanto l’«identità o unità del molteplice» (ossia ciò che vi è di identico in ognuna delle cose diverse), quanto l’«unità da cui tutto viene e in cui tutto ritorna», come l’acqua del mare che è tanto ciò che tutte le onde hanno di identico, quanto ciò da cui le onde provengono e in cui ritornano. Ciò da cui le cose si generano e in cui, ritornando, si corrompono non è a sua volta generabile e corruttibile, per cui Aristotele lo definisce come «ciò che continua a esistere immutato». 

A questo punto l’«Acqua» di Talete è abissalmente diversa dall’«Oceano» che Omero indica come Padre di tutte le cose, perché, a differenza dell’«Oceano», l’«Acqua» di Talete è identità del diverso; principio da cui provengono e in cui tornano tutte le cose; dimensione eterna che governa tutte le cose che divengono. 

Nota finale: La superiorità di Talete sta nell’«orizzonte» che la sua domanda dischiude, non nella «risposta» che dà alla domanda, perché essendo l’«Acqua» «una tra le molte cose», non può essere «ciò che tutte le cose hanno di identico». L’«Acqua» è una risposta inadeguata all’orizzonte dischiuso dalla domanda, perché non è in grado di sostenere ciò che Talete con la sua domanda pensa.