sabato 11 giugno 2016

DOXA ED EPISTÉME


Epistéme è una parola che viene resa in latino come “scientia” e in italiano con «scienza». Ma così tradotta la parola perde il suo significato originario che è poi lo stesso di quello indicato dalla parola “Cosmo”. “Epi-stéme”, infatti, è composta dal verbo “istemi” che vuol dire «sto» e da “epi” che vuol dire «sopra». “Epistéme” vuol dire allora «ciò che sta sopra», ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla, come accade nel linguaggio mitico-religioso, né alla forza persuasiva del dire retorico che, con la seduzione, riscuote consensi. 

Emancipandosi dal discorso mitico, religioso e retorico, la “Filosofia”, inaugurandosi come “Epistéme”, si offre come quel dire che poggia esclusivamente su di sé. “Cosmo, Lógos, Epistéme” appaiono a questo punto come sinonimi che dicono l’imporsi di ciò che si mostra così come si mostra, e la “Filosofia” come cura di ciò che nella luce si mostra, è cura della «Verità». La parola «Verità» in greco è resa da “Alétheia”, una parola composta da un “a” privativo e dal verbo “lantháno” che significa «restar nascosto», da cui anche in italiano «latente», «latitante». Alétheia” vuol dire allora il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone. 

Ma a mostrarsi non è solo la «Verità», ma anche l’«apparenza» (Dóxa). La parola deriva dal verbo “dokéo” che significa «sembrare», e anche la «sembianza» è qualcosa che appare, che si espone, che si offre alla vista, che si dà. La “Filosofia” greca nasce separando la «Verità» dalla «sembianza»; nell’apertura dischiusa dalla luce, la prima operazione filosofica è in questa «separazione» tra le varie forme dell’«apparire»; ma qual è il criterio? In che modo è possibile discernere? 

OriginariamenteDóxa significava «gloria», «fama», «splendore» e si riferiva all’ammirazione che l’eroe o il sapiente acquistavano mettendosi in luce. Siccome la fama dipende dall’«opinione» che altri si fanno di qualcuno per come «appare», “Dóxa” finì per significare tanto l’«apparenza» quanto l’«opinione» che quell’«apparenza» generava. Ma l’«opinione», pur fondandosi sull’«apparire», è mutevole; trattandosi di una congettura può essere tanto vera quanto falsa. Al pari della «Verità» si impone, ma il suo imporsi può essere tolto. 

L’«apparenza» inganna non perché è qualcosa che «appare», ma perché pretende col suo «apparire» di precludere ogni altro «apparire» e, con questa preclusione, di imporre se stessa come unica «Verità». E come il “Mito” differisce dal “Logos” non per il contenuto, ma per la manipolazione poetica con cui espone ciò che si manifesta, così la “Dóxa” differisce dalla «Verità» non perché manifesta qualcosa, ma perché alla base di questa manifestazione c’è solo l’«opinione» che uno s’è fatto sulle cose, in nulla dissimile dall’«opinione» che, nel contesto mitico, il poeta si fa del mondo. 

La “Dóxa, allora, non è quel sapere che sta in sé (Epistéme), che ha in sé il proprio fondamento, perché si fonda sull’«opinione» (Dóxa) che uno privatamente s’è fatto delle cose. In questo senso Eraclito potrà dire: «Le opinioni umane sono giochi da ragazzi» (frammenti, 70) e può paragonare coloro che si fondano su «opinioni» private ai “sordi” «Che non sanno né parlare, né ascoltare» (frammenti, 19) o ai “dormienti”, perché mentre «I desti hanno un unico mondo comune, nel sonno ognuno si apparta in un mondo privato» (frammenti, 89). La stessa metafora la ritroviamo in Platone là dove distingue i “filosofi”, «amanti del farsi spettacolo della verità», dai “filodóxoi, «amanti degli spettacoli». Dei primi afferma con convinzione che «sono in condizioni di veglia», dei secondi che «vivono in un sogno». Di qui Platone trae la conclusione che  «Se qualcosa essi conoscono, non ne avremo certo invidia» (Repubblica, 476 a-d).    


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