sabato 28 maggio 2016

LA DOTTRINA DELL'AMORE IN SAN TOMMASO D'AQUINO


Per comprendere appieno la dottrina dell' "amore fisico"  di San Tommaso, che per primo utilizza i concetti scientifici di Aristotele, è necessario, innanzitutto, soffermarsi sul suo fondamento metafisico, che è bene espresso da tutta la quaestio 20, De amore Dei, della prima pars della "Summa Theologica". L'articolo 2 mette efficacemente in rilievo la bontà metafisica del reale: "tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è buono", proprio perché l'amore di Dio "infonde e crea "bonitatem in rebus" (2). Da questa premessa di natura ontologica deriva che tutte le creature sono, per natura, portate ad amare Dio "prima e più di se stesse". Se così non fosse si dovrebbe ammettere - osserva acutamente San Tommaso - che "la dilezione naturale sarebbe perversa" (3), ossia non sarebbe perfezionabile dalla carità. Ecco un'estrema sintesi della dottrina tommasiana dell'amor, basata soprattutto sulle questioni 24, 25 e 26 della "Summa Theologiae". (per una maggiore comprensione su San Tommaso d’Aquino vedere anche post pubblicati Marzo 2013 e aprile 2014 “San Tommaso d’Aquino" e "Le cinque vie, l’esistenza di Dio”). 

1. MOMENTI DELL'AMORE
1.1. Amor come passio
L'amore è inizialmente passio, passione: un ricevere, un subire, che implica potenzialità. Alla passione segue poi un atto. L'amore come passio avviene quando l'appetito della volontà, cioè il suo desiderio di bene, viene trasformato da un appetibile, da un bene che troviamo nel nostro orizzonte. Il bene che entra nell'orizzonte del nostro volere polarizza, attrae a sè l'appetizione. L'amore come passio è qualcosa che capita, non la si sceglie, non è voluto liberamente; succede. Così avviene nell'innamoramento: non si sceglie di innamorarsi di una persona (si sceglie poi liberamente di amarla, cioè di impegnarci, di lavorare su questo amore). L'aurora dell'amore è però un atto spontaneo, che avviene da sè, è l'apprezzamento di un bene. L'amor come passio è detto anche amore di compiacenza: è un momento gratuito in cui l'amante gioisce perchè l'amato c'è, perchè l'amato esiste. La compiacenza è un meravigliarsi che l'altro c'è, e a questo meravigliarsi si aggiunge rispetto, venerazione, gratitudine: si gioisce del valore dell'amato.
1.2. Amor come atto della volontà
All'amore come passio, come compiacenza, segue l'amore come atto della volontà: la volontà in questa fase non è più passiva, non subisce più qualcosa che capita, ma diventa attiva, in quanto è protagonista di un'azione, in quanto compie una azione. Amore è voler bene a qualcuno, il movimento dell'amore ha quindi due termini, due oggetti: il bene voluto e il qualcuno cui si vuole questo bene. Ad esempio: voglio ad un mio amico il suo bene. Un bene che una persona vuole per qualcuno è amato di amor concupiscientiae, il soggetto cui si vuole questo bene è amato di amor amicitiae. Ad esempio: voglio una cioccolata per un mio amico: l'amico è amato di amor amicitiae, è propriamente amato, la cioccolata è amata solo di amor concupiscientiae: non la amo davvero, è solo uno strumento, un mezzo.
1.3. Amor amicitiae, amor concupiscientiae
L'amor concupiscientiae si dirige ad un oggetto che non è amato davvero, viene desiderato in funzione dell'amore che si vuole ad un altro. L'amor amicitiae invece si muove verso un termine per promuovere il bene di questo termine, ad esempio di una persona, che ha valore in se stesso. L'amor concupiscientiae tende all'oggetto in quanto è bene per sè o per un altro; l'amor amicitiae invece tende all'altro in quanto bene in sè, e promuove il bene dell'altro. Quando amo una persona di amor concupiscientiae la desidero in funzione di me: dico che amo questa persona, ma in realtà amo davvero solo me stesso. L'amor amicitiae invece è vero amore dell'altra persona, perchè amo l'amato senza desiderare un vantaggio per me, senza volerci guadagnare nulla. L'amor amicitiae riprende attivamente la gratuità, la generosità , che si trova nel primo momento dell'amore, nell'amore come passio. L'amor concupiscientiae non è interssato veramente all'altra persona, non attinge all'altra persona in quanto tale, si ferma alle sue qualità superficiali, e non al suo nucleo, alla sua essenza; l'amor amicitiae è invece rivolto all'identità personale dell'altro, non a qualche sua bella qualità che ci procura vantaggio. L'amor concupiscientiae è instabile: è infatti fondato sull'utile o sul piacere che viene dall'altra persona, quando da questa persona non viene più utile o piacere (o quando abbiamo trovato di meglio altrove) questo amore finisce.
1.4. Il dono di se stessi
L'amor amicitiae è benevolenza e dono: la benevolenza consiste nel volere il bene, la perfezione dell'amato. Il dono è la dedizione e donazione all'amato. I singoli doni che facciamo all'amato sono immagini, simboli, dell'amore nostro che vogliamo donargli, in definitiva sono segni del dono più profondo, che è il done di noi stessi alla persona che amiamo.
1.5. L'unione affettiva
Al dono segue l'unione affettiva: nella reciprocità degli affetti l'amante considera l'amato una cosa sola con sè. L'amore è forza estatica e forza unitiva: è forza estatica perchè tira fuori da sè, è forza unitiva perchè porta ad unirsi all'altra persona. L'unione non è unione ontologica: due persone non diventano una, restano due, però, nella relazione di reciproco amore, gli amanti desiderano le stesse cose, per le stesse cose soffrono, per le stesse cose gioiscono. Il bene dell'altro diventa il bene proprio e il bene proprio diventa il bene dell'altro.
2. EFFETTI DELL’AMORE

2.1. L'estasi
L'estasi è un effetto dell'amore: consiste nell'uscire da se stessi per dirigersi verso l'amato e penetrare nella sua interiorità. Il baricentro vitale dell'amante si sposta verso l'amato, verso l'altro. L'amore si configura quindi come una liquefazione: il liquido non ha confini, ma si effonde, dilaga: così l'amante straripa verso l'amato. L'egoista ha un momento di estasi, cioè un momento in cui si rivolge all'altro, ma l'altra persona è solo un mezzo, quindi l'amore dell'egoista ha se stesso come oggetto proprio: l'egoista non esce veramente da sè, resta riservato in se stesso.
2.2. L'amore perfeziona
L'amore perfeziona. Mediante l'amore si opera infatti più perfettamente. Chi compie un'azione per amore la compie meglio di chi la compie senza amore. L'amore perfeziona in particolarela conoscenza: l'amante conosce l'amato nelle sue pieghe più nascoste. L'amore porta a rivolgersi totalmente verso l'amato, porta ad immedesimarsi con l'amato, l'intelligenza conosce così la persona che si ama dall'interno.
2.3. L'amore fa essere
L'amore fa essere: ogni uomo è ricchissimo di potenzialità, di capacità, ma perchè queste potenzialità siano attivate c'è bisogno delle altre persone, del loro apprezzamento, del loro amore. Ogni uomo viene alla luce solo in un altro uomo: ogni uomo si forma in un grembo fisico, ma non solo, anche in un grembo spirituale, non si diventa uomini senza l'amore, il riconoscimento, l'apprezzamento delle altre persone (soprattutto dei genitori, poi dei vari educatori...). La maturazione psicologica, affettiva, intellettiva dell'uomo che cresce non avviene da se stessa: ha bisogno di un amore, cioè di persone che hanno già queste perfezioni, questi beni, e che li trasmettono, per l'amore.
Dio crea il mondo per amore: l'atto di creazione del mondo è un atto libero, un atto di amore. Possiamo dire quindi che l'amore di Dio è amore creativo: l'amore umano è pro-creativo, partecipa della creazione divina, soprattutto nel caso dell'amore coniugale.
Possiamo generalizzare il discorso dicendo che ogni passione e ogni attività umana scaturiscono dall'amore: non si desidera se non ciò che si ama, non si gioisce se non per ciò che si ama. Tutto ciò che agisce agisce per amore.
2.4. L'amore come carità
La carità è una virtù infusa, non viene quindi dall'uomo, dal suo esercizio, dalla sua buona volontà, ma è solo un dono di Dio. L'uomo può disporsi alla carità, ma essa è donata da Dio. La carità è l'amor amicitiae verso Dio: amore Dio in quanto tale, non per i benefici che ne abbiamo, ma semplicemente perchè è.
2.5. L'amore è la felicità dell'uomo
La felicità è l'effetto sul soggetto di una attività della propria natura che raggiunge un bene consono alla propria natura.
Il bene consono, connaturale, alla natura umana è la persona, l'altra persona: l'uomo e soprattutto Dio. Il raggiungimento di questo bene consono è l'immedesimarsi, l'unirsi, senza però distruggerlo o danneggiarlo. L'attività propria dell'uomo è l'amore: la natura umana è una natura aperta all'infinito, per sua natura orientata oltre se stessa, e l'operazione propria di una natura aperta è l'amore. La felicità dell'uomo è quindi l'amore.
2.6. Paradosso della felicità
La felicità la consegue solo chi non desidera direttamente la propria felicità. Diventa felice solo chi non è impegnato direttamente ad ottenere la propria felicità. La felicità è come il sonno, quando lo si cerca direttamente, e ci si impegna a dormire, questo sfugge. E' come la spontaneità: la persona timida che si impegna direttamente ad essere spontanea non ci riuscirà mai. E' come l'oblio: cercare direttamente di dimenticare qualcosa non porterà certo a dimenticare, anzi: è il modo migliore per ricordare. La felicità non la consegue l'egoista; la consegue solo chi esercita l'amor amicitiae, solo chi ama l'altra persona e cerca la felicità dell'altro. Diventa felice solo chi cerca, al posto della propria, la felicità dell'altro.


sabato 21 maggio 2016

L’AMORE IN SAN BERNARDO DI CLAIRVAUX


Nel “De diligendo Deo, (composto fra il 1130 ed il 1141), San Bernardo continua la spiegazione di come si possa raggiungere l'amore di Dio, attraverso la via dell'«umiltà». La sua dottrina cristiana dell'amore è originale, indipendente dunque da ogni influenza platonica e neoplatonica. Secondo Bernardo esistono «quattro gradi» sostanziali dell'amore (Dil VIII,23-25; IX,26;X,27-29;XI,33), che presenta come un itinerario della vita cristiana, che dal sé (la carne) esce, cerca Dio, ed infine torna al sé (alla carne), ma solo per Dio. I gradi sono:

1) L'amore di se stessi per sé. Il primo di questi gradi è l’amore naturale. Il livello più comune e fondamentale, perché appartiene alla natura dell’uomo. La natura, poiché è troppo fragile e debole, è spinta a servire anzitutto se stessa, sotto l’impulso della necessità. È questo l’amore carnale, col quale l’uomo ama anzitutto se stesso per se stesso. Infatti non ha coscienza se non di se stesso, come è stato scritto: «Prima ciò che è animale, poi ciò che è spirituale» (1 Corinzi 15,46). Non è imposto da un precetto, ma è suscitato dalla natura. L’invito del vangelo all’amore del prossimo tempera la tendenza egoistica dell’amore naturale. Fa crescere la giustizia: secondo la «legge della vita» suscita l’attenzione a coloro che condividono la stessa natura. Ma perché questa esperienza «naturale» possa essere vissuta in pienezza è necessario almeno un primo riferimento a Dio. Riferimento favorito, con intelligente «pedagogia», da Dio stesso, il quale non solo crea l’uomo, ma fa nascere in lui il desiderio di amarlo.    
«bisogna che il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine, sotto l'ispirazione della Grazia, sarà infine perfezionato dallo spirito. Infatti non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. Perciò prima l'uomo ama sé stesso per sé. Vedendo poi che da solo non può sussistere, comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario e Lo ama». 

2) L'amore di Dio per sé. E si giunge, così, quasi con uno sviluppo naturale, al secondo grado dell’amore, quello nel quale l’uomo comincia ad amare Dio per i benefici che Egli, nel suo amore provvidente, gli dona. Riconoscere questo amore è, per l’uomo, segno della sua prudenza. In questo modo accade che l’uomo animale e carnale, che non sapeva amare nessuno all’infuori di se stesso, cominci ad amare anche Dio, sia pure in considerazione di sé, poiché si accorge che in lui, come spesso ha sperimentato, egli può tutto quello che giova potere, e senza di lui non può nulla. L’uomo, perciò, arriva ad amare Dio, ma ancora per sé, non ancora per Lui. «Nel secondo grado, quindi, ama Dio, ma per sé, non per Lui. Cominciando però a frequentare Dio e ad onorarlo in rapporto alle proprie necessità, viene a conoscerlo a poco a poco con la lettura, con la riflessione, con la preghiera, con l'obbedienza; così gli si avvicina quasi insensibilmente attraverso una certa familiarità e gusta pura quanto sia soave». 

3) L'amore di Dio per Dio. Siamo ormai al terzo grado dell’amore di Dio. Quasi per logica conseguenza, l’uomo comincia ad amare Dio per la Sua dolcezza, che egli ha più volte sperimentato nei momenti di bisogno. Ne consegue che ad amare puramente Dio ci attiri più la dolcezza gustata di quanto non ci solleciti la nostra necessità, secondo l’esempio dei samaritani, i quali alla donna che annunziava la presenza del Signore risposero: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; noi stessi lo abbiamo ascoltato e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42); così anche noi, seguendo il loro esempio, finiamo per rivolgerci alla nostra carne dicendo: «Non amiamo più Dio per le tue necessità, ma perché abbiamo gustato e sappiamo quanto è dolce il Signore». La necessità è infatti una specie di linguaggio della carne e proclama con il suo comportamento i benefici che ha conosciuto nell’esperienza. A colui che avrà vissuto questa esperienza, non sarà difficile osservare il comandamento dell’amore del prossimo. Infatti egli ama Dio secondo verità e per questo ama anche ciò che appartiene a Dio. Ama in maniera casta e perciò non gli pesa obbedire a un casto comandamento rendendo più casto il proprio cuore nell’obbedienza della carità. Ama secondo giustizia e perciò accoglie volentieri un comandamento giusto. Quest’amore è ben gradito perché è gratuito. È casto, perché non è profuso a parole o con la lingua, ma con le opere e nella verità. È giusto, poiché come lo si riceve, così lo si rende. Infatti, chi ama così, non ama diversamente da come è stato amato, ama cercando anche lui, a sua volta, non il proprio interesse, ma quello di Gesù Cristo, come Egli non ha ricercato il proprio interesse, ma il nostro, o meglio noi. Ama così colui che dice: «Lodate il Signore, perché è buono» (Sal 117,1). Chi loda il Signore non perché è buono con lui, ma perché è buono in sé, è colui che ama veramente Dio per Dio e non per se stesso. Non ama così colui del quale si dice: «Ti loderà quando gli avrai fatto del bene» (Sal 48,19). Questo è il terzo grado d’amore, con cui finalmente Dio è amato per se stesso. «Dopo aver assaporato questa soavità l'anima passa al terzo grado, amando Dio non per sé, ma per Lui. In questo grado ci si ferma a lungo, anzi, non so se in questa vita sia possibile raggiungere il quarto grado». 

4) L'amore di sé per Dio. Bernardo giunge, così, all’ultimo, il più elevato grado dell’amore, quello nel quale l’amore tra Dio e l’uomo realizza un’unione personale e totale, una comunione di volontà. Un’esperienza che Bernardo non si esita a definire «Deificazione». Esperienza che in questa vita si può raggiungere solo raramente e per pochi istanti. Per aiutare a comprendere questa esperienza, Bernardo utilizza alcune immagini note alla letteratura cristiana antica. Esprime, così, la comunione profonda e personale tra Dio e l’uomo, una comunione nella quale i due, lungi dall’essere «annullati», formano una realtà nuova. Quando ciò potrà accadere? Quando l’uomo troverà nella piena comunione con Dio il compimento della propria vita? Bernardo lo precisa: solo dopo la «risurrezione». L’anima potrà sperare di raggiungere il quarto grado dell’amore –  o meglio d’essere raggiunta in esso, poiché è la potenza di Dio che lo concede a chi vuole, non l’attività umana che riesce a raggiungerlo – solo quando sarà in un corpo spirituale e immortale, in un corpo integro, tranquillo e piacevole e sottoposto in tutto allo spirito. «Quello cioè in cui l'uomo ama sé stesso solo per Dio. Allora, sarà mirabilmente quasi dimentico di sé, quasi abbandonerà sé stesso per tendere tutto a Dio, tanto da essere uno spirito solo con Lui. Io credo che provasse questo il profeta, quando diceva: -Entrerò nella potenza del Signore e mi ricorderò solo della Tua giustizia». 

Il grado supremo dell’amore non è “amare Dio per Dio”, ma “amare l’uomo per Dio”. Perché se Dio è il Creatore e Salvatore, non basta amare Lui solo, ma è bello amare in Lui anche la creatura che Egli ha amorevolmente plasmato e redento: La perfezione si raggiunge nel «quarto grado», quando l’uomo giunge ad amare se stesso – ed i fratelli tutti – per Dio. Il credente, giunto all’amore di Dio, riesce a cogliere lo splendore di Dio in tutte le sue opere, a goderne e ad amare le persone per amore di Dio. 

Nella stessa opera Bernardo elabora una diversa e complementare scala, sempre in «quattro gradi», che non è sovrapponibile alla precedente (XII,34-XV,40). Si può amare Dio come «servi», come «mercenari», come «figli» e come «spose». 

Il «servo» ama Dio per timore, il «mercenario» ama Dio per la paga che ne ricava, il «figlio» ama Dio come padre che lo genera e lo guida, ma solo la «sposa» ama Dio come sposo, essendone “inebriata” – afferma Bernardo. 

Nel “De diligendo Deo, dunque, San Bernardo presenta l'«amore» come una forza finalizzata alla più alta e totale fusione in Dio col Suo Spirito, che, oltre a essere «sorgente» d'ogni amore, ne è anche «foce», in quanto il peccato non sta nell'«odiare», ma nel disperdere l'amore di Dio verso il sé (la carne), non offrendolo così a Dio stesso, Amore d'amore.

SAN BERNARDO DI CLAIRVAUX


Monaco cistercense, tenace avversario di ogni eresia e deviazione dottrinale, Bernardo di Clairvaux fu detto per la sua eloquenza “Doctor Mellifluus”. Grande tempra di mistico, combatté contro le «scienze profane» del suo tempo (la Grammatica e la Logica di Abelardo) nell’intento di ricondurle in posizione di assoluta «subordinazione» alla «pura fede».

Questo monaco cistercense, che fu una delle maggiori personalità del suo secolo, fu un tenace avversario di filosofi come Abelardo e Gilberto de la Porrée (Porretano) a cui rimproverava la nuova concezione delle funzioni della «grammatica» e della «logica» applicata alla tematica «teologica» ed «etica». Il grande mistico non condivideva il fatto che la «dialettica» fosse divenuta nei due filosofi lo strumento idoneo per illustrare i contenuti della rivelazione cristiana. 

Al metodo «dialettico» di Abelardo egli oppone il principio di fede in una verità che coincide con l’«amore» e la dedizione verso Cristo, dedizione che ha il suo punto supremo nel paradosso della «croce». La via attraverso cui si giunge alla verità è quella dell’«umiltà», considerata come l’unica virtù che permette all’uomo di avere una profonda coscienza del peccato e del male. Questa coscienza apre la strada alla radicale consapevolezza della nullità dell’essere umano. L’insegnamento di Bernardo procede attraverso dodici stadi dell’«umiltà», contrapposti ai dodici stadi dell’«orgoglio». Sono i «due» schemi della vita «spirituale» e della vita «carnale» che si fronteggiano. 

Dalla coscienza della vanità e dell’errore della vita umana l’anima viene spinta nel suo itinerario verso la seconda tappa della virtù, quella della «carità». A questa succede, mediante l’aspirazione alla giustizia e alla purezza dello spirito, quella della «contemplazione», che è il culmine e il punto di arrivo di ogni conoscenza. La contemplazione, a sua volta, ha il proprio compimento  nell’«estasi», dove l’anima si libera da ogni aspetto corporeo e si solleva sino ad identificarsi completamente in Dio. Nel rapporto di fusione con Dio avviene una deificazione dell'anima; scrive in un celebre brano Bernardo: «...Come potrebbe, infatti, Dio, essere tutto in tutte le cose se nell'uomo restasse qualcosa dell'uomo? Indubbiamente la sua "sostanza" permarrà, ma sotto un'altra forma, un'altra potenza e un'altra gloria». 

Commentando questo passo del Cistercense, Etienne Gilson fa notare come la sostanza dell’uomo resterà distinta dalla sostanza divina, così come quella di Dio, dice Bernardo, resterà distinta da quella umana. È la «carità» ad operare l’unione perfetta in una distinzione radicale degli esseri. Dice lo stesso Bernardo che si tratta di accordo di volontà, ma non confusione di sostanze. 

La «Deificatio» è uno dei punti più alti della riflessione di Bernardo, che lo obbliga a far uso di tutto il suo apparato di conoscenze filosofiche e teologiche per mostrare come sia possibile l’accordo delle volontà e la libertà delle stesse. Le opere principali di Bernardo sono gli ottantasei sermoni di commento del “Cantico dei Cantici” (Sermones in Cantica Canticorum Salomonis), composti per predicare alla piccola assemblea dei suoi monaci, e il “De diligendo Deo”, dove il processo di «ascesi mistica» è analizzato con maggior ampiezza. 

Nel documento principale della sua dottrina mistica, il “Sermones”, il Cistercense comincia il suo commento dalle parole iniziali del Cantico - «Oh, baciami coi baci della tua bocca!» - per mostrare il percorso che l’anima deve compiere secondo le «tre» vie: quella «purgativa», quella «illuminativa» e quella «unitiva». Raggiungere la contemplazione significa esercitare la «pietà», la «devozione» e la «preghiera»; l’atto contemplativo, poi, si distingue in «due» specie: L’«intellettuale» e l’«affettiva». Quella affettiva occupa, ovviamente, il posto centrale nella mistica di Bernardo. Essa consiste nella infusione dello “Spirito”; nella presenza di Dio; nella partecipazione alla dolcezza celeste. 

Il Cistercense elabora anche una complessa teoria della conoscenza mistica. La contemplazione è paragonata al sonno dell’anima nelle braccia di Dio, un sonno profondo che non ottunde (offusca, intorpidisce) i «sensi» ma li rapisce. Nel momento in cui l’anima è in Dio, essa non può vederlo faccia a faccia: «l’anima, addormentandosi, vede Dio in sogno: non, ancora, faccia a faccia, ma in enigma e come in uno specchio. E per questo Dio, più intuito che visto veramente, colto solo di sfuggita, come una accensione momentanea di una scintilla, essa s’incendia d’amore» (Sermones in Cantica Canticorum). (Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia dirà l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi 13, versetto 12). 


sabato 14 maggio 2016

MISERICORDIA, PENTIMENTO E CONVERSIONE


Vi sono alcuni passaggi del libro intervista del Papa “Il nome di Dio è misericordia che ci fanno capire che la «misericordia» di Dio non può essere disgiunta dalla «giustizia» di Dio – la quale richiede che chi opera il “bene” riceva un premio e chi compie il “male” sia punito – e dalla «verità» – la quale invece esige che il “male” venga riconosciuto come “male”. Il Papa, quindi, ci dice che il “peccato” merita una «condanna» che, per «giustizia», non può che essere proporzionalmente severa tanto quanto la gravità del "peccato". 

Il Pontefice, poi, chiarisce che ci devono essere «due» atteggiamenti affinché la «grazia» di Dio possa operare, cioè affinché il nostro “peccato” sia perdonato. L’ammissione sincera e dispiaciuta del proprio errore e l’emenda, cioè la volontà di cambiare, di non peccare più. Sul primo atteggiamento Francesco afferma che se non c’è coscienza del "peccato" ovviamente non ci può essere "perdono".



Colui che si confessa è bene che si vergogni del proprio "peccato": la vergogna è una grazia da chiedere, è un fattore buono, positivo che ci fa umili. Poi, citando Sant’Agostino, aggiunge: «Quando pecchiamo dobbiamo provare dispiacere di noi stessi, perché i peccati dispiacciono a Dio». I Padri della Chiesa – e queste ritornano a essere le parole del Papa – «insegnano che questo cuore a pezzi è l’offerta più gradita a Dio. È il segno che siamo coscienti del nostro peccato, del male compiuto». 

Francesco, inoltre, illustra che per confessarsi con le disposizioni adeguate occorre che il penitente «sappia guardare con sincerità a se stesso e al suo peccato. E che si senta peccatore. La «misericordia» c’è, ma se tu non vuoi riceverla…. Se non ti riconosci peccatore vuol dire che non la vuoi ricevere, vuol dire che non ne senti il bisogno». Dunque, l’amore di Dio per noi non può essere disgiunto dal riconoscere con verità il male che abbiamo commesso. Così il Papa: «La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato». A seguire il Pontefice esplicita questo pensiero riferendosi ad un caso particolare: l’omosessualità. «Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada». Se le condotte omosessuali non fossero scelte peccaminose, perché il Papa dovrebbe consigliare alle persone omosessuali di confessarsi e di tentare di cambiare strada? 

La mancanza di questa condizione chiamata "contrizione" (dolore del peccato in sé perché così ho offeso Dio) o "attrizione" (dolore per il peccato commesso perché sono timoroso del castigo di Dio) non può portare alla «remissione dei peccati». Questo è ben evidenziato quando il Papa spiega che alcune volte il confessore non può assolvere e si dovrà limitare a una benedizione del fedele. In merito al secondo atteggiamento che chiede l’impegno per una conversione seria e profonda della propria vita, Francesco mette in guardia i fedeli dall’intendere la confessione come una "tintoria": uno entra in confessionale, dice i suoi peccati e automaticamente questi vengono lavati via. Ciò non accade se non c’è un proposito radicale di abbandonare la via del male. Più in particolare il Papa fa un distinguo importante: c’è chi cade e si rialza e cade nuovamente ma non abbandona la lotta spirituale. E poi c’è chi – il “corrotto” - si sente a posto e quindi non si pente dei propri peccati e dunque non vuole convertirsi: «Il corrotto è colui che pecca e non si pente, colui che pecca e finge di essere cristiano e con la sua doppia vita dà scandalo». Costui si sottrae volontariamente alla «misericordia» di Dio. 

Gesù offre una radicalizzazione decisiva del senso della «giustizia». Egli la colloca già nella profondità del cuore dell’uomo, come mostra il suo insegnamento delle beatitudini (Mt 5-7). Se l’adulterio non inizia con l’atto esteriore, ma con lo sguardo concupiscente sulla donna, se il “non uccidere” include il divieto della collera e dell’insulto, se l’elemosina, la preghiera e il digiuno devono essere praticati nel segreto, è proprio perché la giustizia evangelica affonda le proprie radici nella verità delle intenzioni del cuore, e non solo nella conformità esteriore. 

Alcuni hanno però concluso che sia sufficiente solo l’intenzione, e che l’atto esteriore non abbia più nessuna importanza. È un errore grave di interpretazione. Infatti, Gesù parla ancora di atti esteriori: l’insulto, il rinchiudersi nella propria camera, il dare un bicchiere d’acqua al più piccolo dei fratelli, il fare del bene al proprio nemico, ecc. La sua prospettiva in merito consiste nel far risplendere la verità profonda di tali comportamenti: l’appartenenza totale, interiore ed esteriore, al regno di Dio e il dono di sé, il servizio al bene autentico degli uomini.

Ormai, l’uomo prende anche una misura molto più chiara dell’impurità del proprio cuore e delle proprie intenzioni. Vi scopre questo potente freno al dono totale di sé che forse è più pericoloso delle passioni carnali: il proprio orgoglio. L’uomo sa bene che può trovare la vita solo se la dona, ma egli sperimenta il rischio di perderla per sempre perché si scopre incapace di rinunciare alla padronanza su di essa. La Croce insomma segna la massima rivelazione della «giustizia» di Dio. 

Solo la misericordia divina ci consente di passare dallo stato di schiavi del peccato a quello di figli di Dio liberi, giustificati e giusti. Visto però che non c’è «giustizia» senza rettitudine di cuore, tale processo suppone un profondo cambiamento della nostra libertà: da schiava di se stessa, attaccata a sé come a un idolo, dovrà diventare «vivente per Dio in Cristo Gesù» (Rm 6,11). Questo cambiamento, la Sacra Scrittura   lo chiama “pentimento” e “conversione”. Sono la condizione ineludibile perché si attui quella «misericordia» che non sarebbe tale se non portasse in noi frutti di «giustizia».

La chiamata “pentitevi”, “convertitevi”, risuona in tutto il Nuovo Testamento. Fin dall’inizio del suo ministero, Gesù la lega strettamente all’accettazione del Regno di Dio, reso presente in lui per «misericordia». Nella conclusione del suo primo discorso missionario, il giorno di Pentecoste, Pietro risponde così ai suoi ascoltatori trafitti dall’aver crocifisso Cristo: «Pentitevi; ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei suoi peccati, e riceverete allora il dono del Santo Spirito» (At 2,38). Pentirsi, convertirsi, è una decisione personale resa possibile dall’offerta della «misericordia», ed è proprio condizione perché essa possa essere vera e propria «misericordia» in quanto porta frutti di «giustizia». 

La conversione è un cambiamento profondo di vita, un odio dei propri peccati e una ferma decisione di non commetterli più, e questo grazie a Cristo e per seguire Cristo. Ciò non esclude ovviamente altri motivi che la tradizione teologica chiama “attrizione” o “contrizione imperfetta”: si possono odiare i propri peccati anche per paura dell’inferno, per i rimorsi di coscienza che non si sopportano più, o per le conseguenze disastrose  dei propri atti. Il figliol prodigo è dovuto finire a custodire i porci con lo stomaco vuoto per  prendere coscienza che poteva tornare da suo padre dove sarebbe stato trattato meglio, anche come semplice operaio. È però nella grazia di Cristo e in vista di Cristo che tali sentimenti ancora centrati sui propri interessi diventano vero e proprio pentimento e conversione in senso teologicamente compiuto.

Pretendere i benefici della «misericordia» senza pentirsi significherebbe considerare di poca importanza l’aver crocifisso Cristo. Pretendere «misericordia» senza convertirsi significherebbe escludere proprio i frutti che danno senso alla «misericordia»: la sua meta non consiste solo nel  sentirsi meglio pensando che il peso dei nostri peccati sia stato annullato, ma soprattutto nel riadeguare i nostri cuori alla comunione reale con Dio, e cioè nel rifarci giusti, il che non avviene senza questo cambiamento della nostra libertà in Cristo, che si chiama «conversione». 

Qui emerge una domanda fondamentale: è possibile la «conversione»? Facciamo tutti l’esperienza di ricadere regolarmente negli stessi peccati: non sarà forse ipocrita fare una promessa che sappiamo di non poter mantenere? A questo proposito, si può pensare a coloro che nel passato venivano chiamati dai teologi morali gli “abitudinari”. Oggi si parla di diverse “dipendenze” vissute da alcuni: l’alcol, la droga, il sesso, la TV, internet, ecc. In certi casi, chi confessa determinati peccati, non è forse quasi sicuro di ricaderci poco dopo? In realtà però, il peccato più insidioso, di cui siamo al massimo abitudinari si chiama orgoglio: quanto tempo passa tra una nostra confessione e un nostro nuovo atteggiamento di orgoglio? E allora a che cosa serve confessarlo e, come si dice nell’atto di dolore, decidere di “non commetterlo mai più”? Si devono anche prendere in considerazione tutte le scelte di vita fondamentali le cui conseguenze hanno creato delle situazioni consolidate dalle quali è diventato difficilissimo tornare indietro.

Tale domanda consente alcune precisazioni importanti. Come abbiamo notato, una «misericordia» che si accontentasse di un vago rimpianto senza vera e propria «conversione» non sarebbe più «misericordia». All’altro estremo, una «misericordia» che supporrebbe che offrissimo una garanzia di impeccabilità totale per il resto della nostra vita terrena non potrebbe mai attuarsi, visto che tale garanzia è fuori dalle nostre capacità. Osserviamo che questi due squilibri apparentemente contrari hanno un punto in comune: il negare la priorità della grazia in nome di uno stato affettivo vago da un lato, o di un volontarismo “pelagiano” (riscattarsi dal peccato originale senza l'intervento della grazia) dall’altro. Credere alla priorità della grazia, invece, significa anche credere alla sua fecondità nella nostra vita, anche in materia di lotta al peccato. La grazia ci rende capaci di quanto eravamo incapaci, e questo non per magia, bensì anche attraverso decisioni che essa rende possibili, decisioni che concernono sia la meta sia i mezzi da assumere. 

Il vago rimpianto può convivere con il rifiuto di convertirsi. Si considera per esempio che su questo o quel peccato non ci sia più nulla da fare. O si pensa che una data situazione contraria alla volontà di Dio sia troppo consolidata per potersene liberare. In tali casi, certo con qualche rimpianto, si dà comunque ospitalità al peccato e non ci si converte. In questo si manifesta anche un deficit di speranza. La via giusta consiste nell’intraprendere o nel continuare il cammino senza scoraggiarci, certo zoppicando, certo talvolta cadendo, ma contando sulla mano di Cristo per rialzarci e per sostenerci negli sforzi che persevereremo a fornire per suo amore. In tale atteggiamento, la consapevolezza della nostra estrema debolezza non viene negata nel  volontarismo, non diventa neanche pretesto per la dimissione di fronte alla conversione, bensì fortifica le ragioni di riporre solo in Cristo la nostra totale fiducia e, radicati in lui, di mobilitare le nostre risorse perché si compia in noi la volontà del Padre.

In tale prospettiva, possiamo verificare concretamente come il dispiegamento della «misericordia» di Cristo nella nostra vita non potrà mai separarsi dalla crescita in noi della «giustizia» attraverso conversioni sempre riprese. Al contrario, una comprensione della «misericordia» che darebbe eccellenti ragioni di non convertirsi sarebbe certamente sbagliata. Gli incontri di Cristo con i peccatori sono indicativi di questa pedagogia divina e di tale cammino spirituale. 



L’AMORE MISERICORDIOSO NEL VANGELO DI LUCA


Tutto il Nuovo Testamento è testimone dell’universalità della salvezza, ma è indubbio che Luca manifesta un’insistenza particolare su questo tema. Fin dall’inizio della predicazione di Giovanni il Battista, egli sottolinea che adesso si inaugura il tempo in cui «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» (3,6). Alla fine degli Atti degli Apostoli, quando Paolo decide di fermare definitivamente la propria attività missionaria sul fronte dei pagani, la prospettiva del tutto universale è sottolineata un’ultima volta: «Questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani, ed essi l’ascolteranno» (Atti 28,28). L’assoluta universalità del progetto di Dio era per altro già stata “lanciata”  nel cantico di Simeone, un testo che esprime nella maniera più netta la comprensione lucana della missione di Gesù: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Luca 2,30-31). 

La rivelazione donata in Gesù avvolge Israele e le genti in un’unica gloria e in un’unica luce. Al momento della nascita a Betlemme la moltitudine dell’esercito celeste, con un’apertura senza eccezioni, aveva cantato: «Pace in terra agli uomini che Dio ama» (2,14). Conformemente a questo piano divino universale, il risorto, nell’apparizione conclusiva della narrazione evangelica, annuncia che «Saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (24,47). 

L’universalità della salvezza ha il suo ribaltamento logico nell’universalità dell’amore richiesto agli uomini. In sintonia con convinzioni probabilmente già presenti in ambiente del giudaismo contemporaneo, Gesù ha sintetizzato la legge di Mosè nel doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Matteo 22,35-40; Marco 12,28-31; Luca 10,25-28). In questa occasione Luca chiarifica la posizione specifica di Gesù precisando, con la ripresa della parabola del «buon samaritano», chi sia il “prossimo” che è necessario amare. 

Nel precetto mosaico «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Levitico 19,18), l’espressione «come te stesso» intende probabilmente inculcare l’idea che amare il connazionale è di fatto un amare se stessi. Il benessere di un proprio compatriota infatti è un qualcosa che si riversa positivamente su chiunque appartenga a quel popolo. la parabola del «buon Samaritano» intende invece allargare la nozione di prossimo, togliendoli ogni particolarismo e rendendo chiaro che la categoria di “prossimo” non va appiattita su quella di “connazionale” (10,27-29). La trama del racconto è infatti imperniata sulla nazionalità dei «quattro» personaggi principali. L’uomo incappato nei briganti è un Giudeo, che torna tutto solo da Gerusalemme a Gerico: la grande familiarità con la zona gli ha dato probabilmente una fiducia eccessiva nelle possibilità di sfuggire i pericoli di quel percorso difficile. 

Anche il sacerdote e il Levita sono dei “Giudei” nel senso più genuino del termine. Senza un’adeguata certificazione di appartenenza al popolo di Dio non potrebbero infatti esercitare le loro funzioni culturali. La prima parte della parabola di Luca 10,30-37 narra dunque la storia di un Giudeo che, nella sua estrema difficoltà, non viene soccorso da due connazionali. Il quarto personaggio è per contrasto «un samaritano», cioè uno «straniero» (vedi anche Luca 17,18). Il Giudeo, lasciato mezzo morto dai briganti e ignorato dai due connazionali mentre al bordo della strada continua a dissanguarsi, viene soccorso proprio da questo straniero. La parabola “dimostra” con chiarezza che la categoria di “prossimo” non può venire ristretta semplicemente a quella di ”connazionale”. Non avrebbe infatti senso affermare che il prossimo dell’uomo ferito siano il sacerdote e il Levita. Quando, al termine della parabola, Gesù domanda al dottore della legge, incerto sull’estensione della categoria di “prossimo”: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?», la risposta non può non suonare chiarissima («Chi ha avuto compassione di lui»). 

Naturalmente Luca sa che la punta decisiva dell’appello di Gesù all’amore consiste nel comandamento dell’amore verso il nemico (6,27-35). Riportando però, come sintesi della legge, il doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo e precisandolo con la parabola del «buon Samaritano», egli mostra anche la consapevolezza che l’universalità del piano salvifico di Dio deve riversarsi in un atteggiamento d’amore senza eccezioni ed esclusioni. Prima di arrivare all’eroismo dell’amore del nemico è indispensabile, nell’ordinario dell’esistenza, amare «come se stessi» chiunque abbiamo ventura di incontrare lungo la nostra strada. L’amore del «buon Samaritano» assume le tonalità delicate della “compassione” (10,33) e della “misericordia” (10,37), che sono atteggiamenti su cui Luca insiste con frequenza. Questo aspetto ha colpito Dante Alighieri, che ha definito Luca: «scrittore della tenerezza di Cristo» (Monarchia I,16: scriba mansuetudinis Christi). 

La compassione qualifica profondamente il ritratto di Gesù di fronte alle sofferenze dell’umanità (7,13). Essa è il segno della “compassione” di Dio, quale viene presentata nella parabola del «figlio prodigo» come sentimento del padre che identifica il figlio che ritorna (15,20). Attraverso l’insegnamento di Gesù, la “misericordia” di Dio – su cui insistono soprattutto i cantici del primo capitolo lucano (1,50.54.58.72.78) – diventa atteggiamento imitabile anche dall’uomo. Si potrebbe dire che il «buon Samaritano» “fa misericordia” al Giudeo (10,37), come Dio ha “fatto misericordia” ai nostri padri (1,72). La “compassione” accompagna tutte le tappe del ministero di Gesù e si manifesta nel «perdono» (7,36-50), nell’«attenzione» (13,10-17), nell’«accoglienza» (19,1-10). Essa raggiunge il suo apice, in certo senso naturale, nella descrizione lucana della morte di Gesù. Mentre viene inchiodato sulla croce, infatti, egli perdona e intercede per i suoi crocifissori. Negli istanti estremi accoglie la richiesta del buon ladrone ed entra nella gloria di Dio portandolo con sé nel paradiso (23,43). 

In Luca abbiamo anche un testo caratteristico –  la parabola del «ricco Epulone e di Lazzaro» – che mostra come sia ben possibile «mancare di misericordia» pure da parte di chi spera di trovarla negli altri. Il ricco, che cerca la pietà di Abramo (16,24), non era riuscito a vedere Lazzaro davanti alla sua porta. Questo stesso racconto lascia anche intravedere la necessità di un amore veramente universale. Epulone è capace di tenerezza verso i propri fratelli (16,27-28), ma questa sensibilità innegabile è troppo circoscritta per condurlo effettivamente all’amore per Lazzaro. Il ricco è bloccato negli affetti che appartengono al suo mondo. Ama il prossimo che appartiene a lui, mentre non capisce le persone che gli sono ancora straniere. Se non si dilata in senso veramente universale, l’amore non diventa capace di trasformare il cuore e di salvare. 

La parabola del Samaritano dice anche una parola sull’uso delle ricchezze e dei beni. Il «buon Samaritano» condivide il suo “olio”, il suo “vino”, la propria “cavalcatura” (designata col termine greco “Ktenos”, che significa “proprietà) e il proprio “denaro”. Questo modo di comportarsi è del tutto corrispondente all’atteggiamento che Luca chiede di tenere di fronte al possesso e alle ricchezze e che potremmo definire come generoso e radicale, ma anche come concreto e realistico. La radicalità appare bene dai racconti di vocazione. Nella chiamata dei primi discepoli Luca sottolinea che il “lasciare”, di cui parlano anche Marco e Matteo, è di fatto un “lasciare tutto” (5,11; cfr. anche 5,28 letto insieme al parallelo Marco 2,14). Quando si accorge che molta gente (naturalmente significa “troppa”!) va con lui, Gesù si volta e dice: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (14,33). 

La percezione dell’equilibrio lucano tra radicalità e realismo risulta particolarmente chiara nel racconto della conversione del pubblicano Zaccheo (19,8). Questi lascia infatti di colpo la metà dei suoi beni. L’altra metà deve invece essere investita per provvedere alle responsabilità reali di questo uomo: rimangono ancora da risarcire coloro che sono stati frodati e l’ex capo dei pubblicani promette ora di farlo con particolare larghezza. Nel contesto lucano, la vicenda di Zaccheo fa da contrappeso alla narrazione, comune a tutti i sinottici, del ricco mosso da una irrealistica ambizione di radicalità. Anche questi – come Zaccheo – è un «notabile» (18,18), ma la sua proposta si blocca nello stadio dell’ambizione, senza riuscire a diventare realtà in forza dell’appello di Gesù (18.22-23). 

All’incrocio tra la questione grande dell’uso dei beni e il sentimento della tenerezza appartiene anche il discorso dell’elemosina, che ritorna ripetutamente in Luca. Egli, infatti, riprende volentieri le parole di Gesù, che inculcano un atteggiamento di condivisione semplice e diretta di quanto si possiede. La purità dei cibi non si ottiene «lavando stoviglie», ma dando in elemosina quello sta «dentro il piatto» (11,41). Anzi, per essere in grado di vivere questa condivisione, si può arrivare anche alla completa rinuncia ai propri beni: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli» (12,33). Una delle forme più alte di elemosina è quella di accogliere poveri, storpi, zoppi e ciechi alla propria mensa (14,12-14). Ancora una volta, in questo testo, appare la preoccupazione che il discepolo riesca a uscire dalla cerchia di coloro a cui è effettivamente legato e dai quali non può non avere vantaggio; «I tuoi amici, i tuoi fratelli, i tuoi parenti, i ricchi vicini» che hanno di che contraccambiare. 

Un aspetto della parabola del Samaritano, che da accesso a un tratto ulteriore dell’insegnamento lucano, è il fatto che il racconto è formulato in maniera chiara, per fare comprendere che l’atteggiamento dell’«amore verso il prossimo» non si improvvisa né è frutto dell’emozione. La compassione del Samaritano viene autenticata da un «prendersi cura» con concretezza e continuità di colui che è nel bisogno. Gesù insiste su alcuni tratti narrativi che non vanno perduti. Giunto all’albergo , questo straniero samaritano non giudica terminata la sua funzione nei confronti del Giudeo che ha soccorso, ma continua a «prendersi cura» di lui. Il giorno dopo, rimettendosi in viaggio, passa la responsabilità all’albergatore, ricompensandolo con «due denari», cioè con la paga di due giornate lavorative. E, una volta partito, egli non si distacca, ma assicura che tornerà e che si informerà delle condizioni del ferito, impegnandosi a pagare possibili spese ulteriori. Nel suo «prendersi cura» di chi è nel bisogno il Samaritano non conosce «stanchezza».           


sabato 7 maggio 2016

IL VANGELO DEI SEGNI


Sfogliando il quarto vangelo cercheremmo invano la parola «miracolo», anche se l’evangelista vi racconta ben «sette» straordinari miracoli di Gesù. Eppure egli dà loro un nome diverso: per lui sono dei «segni» (2,11-18-23; 3,2; 4,54; 6,2; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47; 12,18-37; 20,30). Dopo il primo, il cambiamento dell’acqua in vino, l’evangelista dice al lettore: «Gesù diede "inizio" ai suoi segni a Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (2,11). E alla fine riassume così il suo libro: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (20,30-31). Il quarto vangelo perciò è un libro che racconta alcuni grandi «segni» compiuti da Gesù, notando quando iniziano e sintetizzando, alla fine, proprio nei «segni» il suo contenuto e il suo scopo. 

Che cos’è un «segno?» Un «segno» che sia autentico rimanda a un significato. Un significato preciso: rimanda cioè a una realtà, al di là di sé. Può essere un «segno» convenzionale e allora è solo un “simbolo”, come la bandiera italiana, che rimanda all’Italia. Un «segno» reale può essere invece il fumo, che si innalza da qualcosa che brucia e rimanda alla realtà del fuoco. Un «segno» o “simbolo” concreto è un fatto significativo, che rimanda a una realtà «non» immediatamente evidente nel fatto che vedi se non te lo rivela chi ne comprende il significato. Tale è il miracolo come «segno» nel quarto vangelo. 

Il «segno» non è perciò una guarigione miracolosa, che può fare un taumaturgo qualsiasi, ma è un fatto straordinario, che rivela Gesù nella sua identità in relazione alla vita, che vuol portare all’uomo. I «segni» sono perciò sfaccettature diverse del significato salvifico che ha per noi la persona di Gesù. Passiamo brevemente in rassegna i «sette segni» «più uno», l’ultimo, il più grande, indicandone il significato cristologico-salvifico. 

Il primo, il cambiamento dell’acqua in vino alle nozze di Cana, mediato dall’intervento della madre di Gesù (2,1-11), viene qualificato come “l’inizio dei segni”. Il suo significato è svelato da Giovanni il Battista in 3,29; «Chi possiede la sposa è lo sposo (Gesù); ma l’amico dello sposo (Giovanni), che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta». Gesù si rivela perciò come lo sposo nascosto alle nozze di Cana, dietro al «segno» operato per gli sposi. 

Nella scena che segue alle nozze di Cana, la cacciata dei venditori dal tempio (2,13-22), Gesù parla di un altro «segno», l’«ultimo». Rispondendo alla provocazione dei Giudei: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», egli preannuncia un futuro «segno» con una frase enigmatica: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,18-19). L’evangelista spiega che egli parlava del suo corpo, che sarebbe stato distrutto da loro e avrebbe fatto risorgere dopo tre giorni (2,21-22). La sua morte-risurrezione è perciò l’«ottavo segno», l’«ultimo», che rivela Gesù come il Signore glorificato, che dona lo Spirito. 

Nel «secondo segno» che Gesù compie (4,46-54), il mantenimento in vita del figlio del funzionario regio: «Va’, tuo figlio vive», Gesù si rivela come colui che dona la vita. 

Il «terzo segno», la guarigione di un paralitico durante una festa, di sabato (5,1-9a), nel dialogo che segue svela che Gesù opera di sabato come il Padre: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (5,17). I Giudei vogliono ucciderlo, perché capiscono che pretende mettersi sul piano stesso di Dio (5,18). 

Il quarto e il quinto si susseguono: la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque (6,1-21). Nel dialogo successivo, il «segno» viene interpretato come la “rivelazione” di Gesù, «pane di vita disceso dal cielo», che sostituisce la “manna”, che Dio diede a Israele nel deserto. Solo il pane dal cielo, che è Gesù e che da Gesù (Eucarestia), è capace di donare la vita, che non muore. 

La Guarigione di un cieco nato è il «sesto segno» (9,1-41), che rivela Gesù «luce del mondo»: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12). 

Il «settimo», infine, è il più esplicito: il risuscitamento di Lazzaro quattro giorni dopo la morte prelude e presignifica la morte-risurrezione di Gesù (11,17-44). È Gesù stesso che ne anticipa il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?» (11,25-26). 

I «sette segni» più uno delineano dunque progressivamente i tratti della persona di Gesù in relazione all’uomo e alla salvezza che gli offre, significata con l’espressione sintetica: «La vita Eterna». Essi hanno «due» funzioni ben precise. La “prima” l’abbiamo già messa in luce: ognuno dei «segni» rimanda al di là di se stesso, rivela un tratto singolare della persona di Gesù. La “seconda” funzione è di testimonianza o prova di quanto viene rivelato di Gesù. Basti un testo per confermarlo: le parole con cui il cieco nato guarito confuta i sapienti membri del sinedrio: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno venera Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (9, 30-33).