domenica 20 marzo 2016

L’ENTRATA DI GESU’ IN GERUSALEMME


Gesù è ormai giunto alla periferia di Gerusalemme, nel quartiere di Betfage, sulle pendici del monte degli Ulivi (Mt. Cap. 21). Si apre ora la grande scena dell’ingresso trionfale nella città santa: è una lettura in chiave messianica di una modesta acclamazione popolare. Si possono idealmente segnalare tre reazioni diverse di fronte a questo evento. C’è innanzitutto quella dello stesso evangelista, il quale, com’è suo costume, ricorre all’Antico Testamento per mostrare la pienezza della parola profetica in Cristo. Si cita, infatti, come adempiuta la famosa profezia messianica di Zaccaria (9,9) sul re di pace che entra nella sua capitale. La profezia è introdotta dalla formula isaiana: «Dite alla figlia di Sion», cioè a Gerusalemme (Isaia 62,11). 

A questa reazione “teologica” si accompagna quella festosa della folla che, sia con il rito delle fronde sia con la processione sia con la citazione di una frase del Salmo 118, rimanda alla festa gioiosa autunnale delle "Capanne", quando appunto si compiva questo rito e si cantava questo Salmo. All’epoca della monarchia, l’ingresso del «Figlio di Davide» a Gerusalemme durante quella celebrazione si intrecciava forse con l’ingresso dell’arca dell’alleanza, portata processionalmente per la città. La parola «Osanna» in ebraico è un’acclamazione che significa: «Salvaci!». Come è chiaro, anche per la folla l’evento acquista una tonalità profetico-messianica. 

Infine c’è la reazione, essenziale e scarna, di «tutta la città», che si mette in subbuglio (in greco si parla quasi di un “sisma”, di un terremoto). Infatti, ecco subito Cristo che caccia dal tempio mercanti e cambiavalute (cambiavano le monete pagane per offrire al tempio solo monete legittime) e che fonda la sua azione rimandando al profeta Geremia (7,11), che protestava per il tempio ridotto a «spelonca di ladri», invece di essere – come affermava Isaia (56,7) – una «casa di preghiera». Ai mercanti espulsi Gesù fa subentrare i ciechi, gli storpi e i fanciulli, simbolo degli ultimi e dei puri di cuore che acclamano Dio con sincerità, come si dice citando il Salmo 8,3. Si chiude, così, la prima giornata gerosolimitana di Cristo. 

La mattina dopo, da Betania, sobborgo di Gerusalemme ove soggiornava (forse in casa di Lazzaro, Marta e Maria), Gesù ritorna nel tempio. Ma, lungo la strada, compie un gesto più simbolico che miracoloso: i miracoli di Cristo, infatti, non sono mai spettacolari, ma solo per guarire e salvare. Attraverso il fico, prima ricco di fogliame e poi inaridito, egli, come i profeti, offre una lezione dal vivo. Il tema è quello della fede, senza la quale si è aridi e senza frutto (si veda una lezione analoga in 17,20). Nel tempio scatta subito una polemica tra Cristo e le autorità religiose, che già lo avevano contestato durante il suo primo ingresso trionfale in Gerusalemme. Interrogato sul battesimo di Giovanni il Battista, Gesù reagisce bruscamente e svela la sostanziale malafede dei suoi interlocutori (versetti 23,24,25,26,27).


giovedì 17 marzo 2016

LA PARABOLA DEGLI OPERAI MANDATI NELLA VIGNA



La parabola che ora Gesù propone (Mt. Cap. 20) si basa sul computo della giornata lavorativa secondo l’uso antico. La prima ora iniziava alle sei del mattino: nell’originale greco si ha tutta una scansione sulla base di questo orario che, nella traduzione, viene reso secondo il nostro uso (le nove sono la terza ora, la sesta diventa mezzogiorno, mentre la nona corrisponde alle tre pomeridiane e le cinque equivalgono all’undicesima ora). Nel racconto proposto da Gesù, a tutti i lavoratori, che venivano assunti alla giornata, è assegnato dal padrone della vigna un identico salario, nonostante l’evidente disparità di orario. Naturalmente la parabola non vuole illustrare un modello di comportamento sindacale. 

La sua finalità è, infatti, l’esaltazione della «generosità divina», che supera le rigide regole della giustizia; è la celebrazione della grazia, che va ben oltre il merito dell’uomo. Ma c’è un aspetto specifico che riflette la situazione in cui si viene a trovare l’opera di Cristo. Israele e i giusti sono, si, premiati per il loro impegno ma, con loro, lo sono anche i pubblicani, i peccatori e gli esterni che si sono convertiti dopo una loro esistenza di peccato. I primi e gli ultimi sono tutti salvati dall’amore misericordioso di Dio, che supera il mero computo materiale degli atti di giustizia compiuti. 

Frattanto Gesù per la terza volta annunzia ai dodici discepoli il suo destino di «morte e di gloria», mentre si sta avvicinando a Gerusalemme. In netto contrasto con questa dichiarazione e come espressione di incomprensione si pone la richiesta della madre dei «figli di Zebedeo» – cioè Giovanni e Giacomo, discepoli di Gesù –, la quale avanza la proposta di vedere i suoi figli come ministri nel futuro regno messianico instaurato da Cristo. Si riflette nella domanda la concezione popolare del Messia come sovrano, ma anche l’attesa che circondava Gesù. La risposta è netta ed è una specie di codice dell’autorità cristiana, vista come «servizio e donazione» e non come «potere e dominio». Il vero discepolo è colui che beve il calice della passione e morte di Cristo, cioè lo segue nel suo destino di sacrificio e di servizio. Emblematica è la definizione che Gesù dà della propria vita: egli è venuto «non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». L’espiazione sacrificale del peccato di «molti» – termine che nel linguaggio semitico equivale a “tutti” – è la meta dell’esistenza terrena di Cristo. 

Il capitolo si chiude con il racconto della guarigione dei due ciechi di Gerico, che lo invocano con i titoli più solenni di «Signore» – in greco Kyrios –, riconoscendone la divinità, e di «Figlio di Davide», riconoscendone la messianicità. Gesù reagisce al loro appello commovendosi, provando misericordia e sanandoli. Ed essi diventano idealmente discepoli: l’ultimo verbo è, infatti, quello del «seguirlo» verso Gerusalemme.       















martedì 15 marzo 2016

MATRIMONIO E CELIBATO, LA RICCHEZZA E LA SEQUELA


Ancora una volta una controversia con i “farisei” permette a Gesù di formulare la necessità di scelte radicali che l’adesione al regno di Dio comporta (Cap. 19). Di scena è il tema matrimoniale. Nel giudaismo contemporaneo a Cristo si fronteggiavano due scuole teologiche: quella di rabbì Shammai concedeva il divorzio solo in caso di adulterio, quella di rabbì Hillel era molto più larga nell’ammettere la rottura del vincolo matrimoniale. Gesù va oltre questo dibattito, va oltre la stessa normativa biblica sul divorzio, presente nel capitolo 24 del Deuteronomio, da lui considerata come una concessione «per la durezza del cuore» umano, cioè un gesto di educazione paziente e tollerante di Dio. 

Ben diverso era il disegno originario del Signore («da principio»): egli aveva voluto che l’amore umano nella coppia fosse totale, radicale, frutto di una donazione assoluta per cui «i due diventano una sola carne» (Genesi 2,24). E’ in questa luce che Cristo propone la sua visione del matrimonio come «indissolubile», segno di un amore pieno e puro. Il ripudio è inconciliabile con questa impostazione, a meno che si tratti di “porneia”: questa eccezione (versetto 9) era già apparsa in 5,32 ed è resa da alcuni come se fosse «concubinato». Altri pensano a una nota propria di Matteo che si riferisce a una situazione specifica della sua comunità: forse le unioni illegittime tra consanguinei o gli stati irregolari delle coppie provenienti dal paganesimo. Certo è che questa “eccezione” non oscura la tesi netta ed esplicita di Cristo sul matrimonio (vedi inoltre post Dicembre 2015 “Gesù e il divorzio). 

E che questa sia la concezione autentica di Gesù appare anche dalla reazione perplessa dei discepoli, che esaltano il celibato come condizione meno gravosa. Ma è proprio su questo tema che Gesù introduce una nuova visione: ci sono «eunuchi», cioè impotenti o castrati, per ragioni fisiche, ma ci può essere una verginità di dedizione al regno, cioè una via di solitudine per consacrarsi pienamente al servizio di Dio e dei fratelli. La scena successiva dei bambini che circondano Gesù (vedi anche 18,2-5) è la rappresentazione di questa donazione fiduciosa e serena di se stessi al regno dei cieli e alle sue esigenze di amore. 

Grande ostacolo per l’ingresso nel regno è, invece, la «ricchezza», che è una forte tentazione idolatrica, come già insegnava l’Antico Testamento. Al giovane ricco, che pure ha già una sua fedeltà religiosa alla morale biblica, Gesù propone il suo ideale di totalità e perfezione: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dàllo ai poveri» (versetto 21). Ma questo gesto radicale è “impossibile” a chi è ricco: solo Dio può cambiare il cuore di chi possiede tanti beni, aprendolo all’amore. La celebre immagine del cammello e della cruna dell’ago, vanamente ridotta da alcune interpretazioni poco fondate (“gomena” invece di «cammello» a causa di un vocabolo  greco affine), dev’essere lasciata nella sua forza e radicalità. 





venerdì 11 marzo 2016

IL DISCORSO COMUNITARIO


Il quadretto che apre il capitolo 18 è stato spesso ripreso dalla tradizione in forma oleografica e sentimentale. In realtà, il gesto di Gesù ha un valore simbolico molto più netto in chiave spirituale. Il bambino (per quattro volte in greco si usa il vocabolo "paidion"), che nell’antico Vicino Oriente era scarsamente considerato, diventa il segno della fede e dell’accoglienza del «regno di Dio», non tanto per la sua innocenza quanto per la sua fiducia, il suo consegnarsi al padre, il suo essere ultimo e “piccolo” (in greco si ha un verbo che riflette il nostro aggettivo “tapino”, quindi la debolezza). Si ha, così, il profilo simbolico del vero discepolo

E ai discepoli, alla loro comunità e quindi alla Chiesa (citata due volte nel versetto 17: ekklesía, «assemblea» dei fedeli) è destinato il quarto dei cinque discorsi che costellano il “Vangelo di Matteo”. Subito ci si rivolge ai “piccoli”, in greco mikroi, che non sono tanto i bambini  ma ciò che essi simboleggiano, cioè i credenti umili e semplici, tant’è vero che si definiscono come i «piccoli che credono in me». Tra l’altro, in aramaico, la lingua dominante al tempo di Gesù, “piccolo” era usato non per i bambini ma per i disprezzati e gli inferiori. Questi discepoli-piccoli hanno bisogno di cure e attenzioni e non devono essere fatti cadere, cioè "scandalizzati", messi in crisi. Gesù è durissimo – e le immagini di tonalità semitica lo attestano – contro chi fa perdere la fede a questi “piccoli”, tutelati da Dio stesso attraverso il suo angelo. 

Anzi, la comunità, quando uno di questi discepoli si perde su strade infide, deve essere simile al pastore divino che va in cerca delle pecore smarrite (Ezechiele 34). Matteo, a questo punto, offre una vera e propria regola per il recupero di questi fratelli in crisi: è una norma forse in uso nella sua Chiesa e comprendeva tre atti o tappe nella correzione fraterna. Innanzitutto c’è il contatto personale; c’è poi il sostegno di altri fratelli e, infine, c’è l’intera ekklesía-assemblea cristiana che cerca di riportare il fratello o la sorella alla pienezza della comunione. Tale comunione è infranta se il peccatore si ostina e la Chiesa ha il potere in questo caso di «legare» e «sciogliere», cioè di «giudicare e perdonare» (vedi Matteo 16,19). 

Naturalmente la meta sperata è quella del perdono, che dev’essere cercato sempre come ultima soluzione. E’ ciò che attesta la frase di Gesù sulla concessione del perdono: non sette ma «settanta volte sette»; egli allude al violento Lamech che dichiarava di volersi vendicare non sette ma settantasette volte (Genesi 4,24), cioè all’infinito e senza tregua. La lezione sul perdono è illustrata da una parabola in cui si contrappone alla grettezza umana, incapace di rimettere un debito di cento denari (tre mesi di salario per un bracciante), la generosità del re divino che ci condona un debito astronomico di diecimila talenti: si pensi che il gettito fiscale per Erode dell’intera Galilea era di duecento talenti. 

Anche per il quarto discorsocomunitario”, Matteo ha trovato lo spunto di partenza in un passo di Marco (9,33-48), e poi altri detti del Signore nella fonte in fonti proprie. Ne è risultato un discorso fortemente compatto e allo stesso tempo molto articolato. Lo si potrebbe intitolare “Direttive per la vita della comunità”. L’abilità compositiva di Matteo è qui evidente, sia dal punto di vista “didattico” (il ricorso all’inclusione, a parole-chiave, alla ripetizione), sia dal punto di vista “tematico” (l’accoglienza dei “piccoli” e la coesione fraterna). 

Il discorso si divide in due parti, ciascuna delle quali si sviluppa attorno a un interrogativo: «Chi è il più grande nel regno dei cieli?» (18,1); «Quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?» (18,21). Ogni parte termina con una parabola: la pecorella smarrita (18,12-14), il servo perdonato ma incapace di perdonare (18, 23-35). Ciascuna parte è costruita attorno a una parola-chiave: la parola “piccolo” (o bambino) la prima, la parola “fratello” (e “perdono”) la seconda. La comunità che si scorge dietro questa composizione di Matteo non può dirsi ideale. Ad essa Matteo ricorda di non trascurare e di non scandalizzare le persone che contano di meno, ma di porle al centro della propria cura. Inoltre ricorda che la fraternità esige contemporaneamente la «correzione e il perdono». 

   

sabato 5 marzo 2016

LA TRASFIGURAZIONE


La scena della trasfigurazione (cap. 17) è per molti aspetti parallela a quella del battesimo nel Giordano, ed è in un certo senso un’anticipazione delle epifanie pasquali di Cristo ai suoi discepoli. A metà strada della sua missione pubblica, «su un alto monte», che la tradizione successiva ha identificato con il "Tabor" che domina la pianura di Galilea, Gesù rivela in una teofania, cioè in una solenne apparizione, la sua realtà profonda e misteriosa, che è sigillata ufficialmente dalla voce celeste: «Questi è il Figlio mio, il prediletto», proprio come era avvenuto nel battesimo. Alla trasfigurazione è accompagnata una discussione tra i testimoni dell’evento, Pietro, Giacomo e Giovanni, e lo stesso Gesù. 

Essa ha come tema una questione dibattuta in ambito giudaico, quella del ritorno del profeta Elia nell’èra messianica come precursore del Messia stesso. Questa tesi si fondava su un passo del profeta Malachia: «Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del Signore, grande e terribile» (3,23). Ebbene, Cristo identifica nel Battista l’ideale reincarnazione di Elia come annunziatore del Messia, una presenza – quella di Giovanni – che rimase però incompresa. 

Si è frattanto giunti ai piedi del monte. Qui è narrato un episodio miracoloso che ha per protagonista un epilettico che, secondo l’antica concezione, viene anche considerato indemoniato, data la particolare sindrome di questa malattia. La guarigione, tuttavia, è orientata in un senso più alto rispetto alla pura e semplice restituzione della salute fisica. I miracoli, ammonisce Gesù, non sono frutto di magia; la lotta con il male e con Satana non si ottiene con riti e formule. E’, invece, decisiva la potenza della fede, capace di generare i più straordinari prodigi. La celebrazione della forza della fede è affidata all’immagine paradossale del monte scalzato dalle sue basi e trasferito altrove. E’ la «poca fede» (versetto 20) che impedisce la salvezza. 

Gesù, poi, ritorna di nuovo sul tema della sua morte e risurrezione: è il secondo dei tre annunzi riferiti dai vangeli sinottici, cioè da Matteo, Marco e Luca. Si ha successivamente il passaggio a una nuova scena, quella in cui la tassa per il tempio, richiesta agli Ebrei fedeli, è riscossa da parte degli esattori. Cristo replica affermando il diritto all’esenzione: le imposte non colpiscono i figli ma i sudditi; egli è per eccellenza il Figlio di Dio e figli sono anche per dono i discepoli, quindi dovrebbe scattare l’esenzione nei confronti di questa tassa per il culto. Tuttavia Gesù, «perché non si scandalizzino» coloro che osservano dall’esterno e non riescono a comprendere il mistero che si cela in Cristo, accede alla richiesta. L’atto del pesce con la moneta, compiuto dal pescatore Pietro, trova riscontro oggi in una curiosità locale: nel lago di Tiberiade c’è un genere di pesci che conserva in apposite sacche piccoli oggetti. Il senso del racconto va, comunque, oltre questo aspetto folcloristico (versetti 24,25,26,27). 
        


venerdì 4 marzo 2016

RICHIESTA DI UN SEGNO DAL CIELO E PROFESSIONE DI FEDE DI PIETRO


Ancora una volta Matteo introduce una controversia tra Gesù e i rappresentanti di «due» gruppi religiosi del giudaismo di allora, i “farisei” di orientamento “progressista” e i “sadducei” legati al sacerdozio e “conservatori”. La loro richiesta di un «segno» che legittimi l’attività di Cristo (si veda un’analoga richiesta in 12, 38-39) provoca una risposta sferzante. Essi, infatti, sono capaci di interpretare i dati offerti dal clima e dalla natura («l’aspetto del cielo»), ma hanno occhi chiusi ai «segni dei tempi», cioè alla presenza del regno di Dio nella storia attraverso Cristo. L’incomprensione colpisce anche i discepoli che sono «uomini di poca fede» (versetto 8), incapaci di cogliere la lezione che Gesù rivolge loro prendendo spunto dai pani appena moltiplicati. Essi sono segno di un altro pane il cui lievito, causa di corruzione, rappresenta la «dottrina dei farisei e dei sadducei» (Mt 16 versetto 12). 

Alla fine anche i discepoli si aprono alla rivelazione, ma Gesù vuole condurli alla comprensione del mistero della sua persona ed egli lo fa con una domanda capitale: «Voi, chi dite che io sia?». Pietro risponde come interprete di tutti gli altri e come ideale portavoce della fede comune della Chiesa : «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Gesù replica a questa purissima professione di fede con una beatitudine destinata a Simone, il cui nome è ora mutato in Pietro, partendo dal simbolo della pietra (in aramaico si poteva usare per Pietro-pietra  un unico termine, “Kefa”). Egli sarà il fondamento, visibile nel tempo, della Chiesa di Cristo («mia chiesa»): il termine “ekklesía”, «Chiesa» (o anche «assemblea»), ricorre nei vangeli solo qui e in 18,17. 

Anzi, a Pietro vengono affidate le chiavi del regno dei cieli, un’immagine per indicare l’amministrazione a pieni poteri delegati (vedi Isaia 22,22) per l’ammissione a quel regno. Infatti la coppia successiva di verbi «legare» e «sciogliere», di origine giuridica, vuole sottolineare il potere di giudizio e di perdono affidato a Pietro e alla Chiesa, così che essa renda visibile ed efficace nel mondo il ministero della riconciliazione con Dio e sigilli il «rifiuto» (nel capitolo 18 si estenderà questo ministero anche agli apostoli). Il brano ha, perciò, un grande significato per delineare il profilo della Chiesa, contro la quale invano sferra il suo attacco la città del male, raffigurata nell’immagine delle «porte degli inferi». 

Subito dopo Cristo rivela alla Chiesa, rappresentata da Pietro e dagli apostoli, il suo destino di «morte e di gloria». La reazione di Pietro rivela l’imperfezione della sua fede, per cui Gesù è costretto a rimproverarlo aspramente come tentatore (Satana) e pietra d’inciampo («scandalo») (versetto 23). Se la confessione di fede aveva aperto a Pietro una missione altissima, ora la sua sconfessione da parte di Gesù lo conduce a seguire la «via della croce», superando la sua visione così umana e limitata. Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (versetto 24). La lezione di Cristo è centrata sulla donazione d’amore che egli tra poco rivelerà ai discepoli salendo sulla croce.        

giovedì 3 marzo 2016

NUOVA CONTROVERSIA SULLE TRADIZIONI DEI FARISEI


Questa nuova pagina di Matteo (Cap. 15) è idealmente raccordata alla precedente dall’episodio finale della seconda moltiplicazione dei pani, considerata dagli studiosi una variante della prima con alcuni segnali di rielaborazione. Nella prima la folla sfamata era di cinquemila uomini, i pani erano cinque, i pesci due e le ceste avanzate dodici. Qui abbiamo, invece, quattromila uomini, sette pani, pochi pesciolini e sette ceste. Nella prima narrazione Gesù «pronunziava la benedizione» sopra i pani; qui, invece, «rende grazie» (in greco c’è il verbo eucharistein). Gli studiosi ritengono che, se la «benedizione» riflette più la tradizione giudaica e quindi il racconto rimanda alle comunità cristiane di origine giudaico-palestinese, ora avremmo con il “ringraziamento” lo stesso evento riferito da comunità greche di origine pagana. Matteo, come gli altri evangelisti – secondo un uso non raro nella Bibbia –, accosterebbe due testimonianze che illustrano con accenti diversi lo stesso miracolo compiuto da Gesù. 

Il resto del capitolo 15 è dominato da una controversia con alcuni “Farisei” e “Scribi” venuti in Galilea da Gerusalemme, pronti a denunciare la scarsa osservanza delle regole di purità rituale da parte di Gesù. Questa accusa permette a Cristo di sviluppare un’altra riflessione di impronta profetica sul rapporto genuino tra culto e vita, tra legge sacra ed esistenza. Egli, inoltre, ripropone il comandamento autentico di Dio che non dev’essere schiacciato dalla tradizione storica, che è costruzione di uomini. A questo proposito fa anche un esempio concreto riguardante la cosiddetta prassi del “qorban(“offerta”, in ebraico): l’obbligo di sostenere i genitori anziani poteva essere cancellato da un’offerta consistente fatta al tempio, violando in tal modo legalmente il quarto comandamento. 

Gesù si oppone, così, a una religiosità estrinseca e formale che non intacca la coscienza e la vita, come già Isaia aveva dichiarato a proposito di un culto che affiora solo sulle labbra ma non è radicato nel cuore  (29,13, citato da Matteo 15, 8-9). Il discorso di Gesù a questo punto si allarga e illustra con immagini folgoranti la vera spiritualità, che ha come meta non tanto un’osservanza rituale superficiale, ma la conversione del cuore dal peccato e dal male. La narrazione prosegue con un miracolo emblematico, perché destinato a dimostrare come la fede vera superi la stessa appartenenza diretta al popolo di Israele. 

E’ quell’idea del “vero Israele” che Matteo sviluppa al di là delle stesse barriere etniche: il vero popolo di Dio può essere costituito anche da una donna cananea, cioè razzialmente diversa, considerata come un “cagnolino” impuro (secondo la concezione del tempo), purché la sua fede sia limpida. Certo, questo non esclude Israele, il popolo eletto da Dio, e Gesù ribadisce che la sua missione è innanzitutto rivolta «alle pecore perdute della casa di Israele» (versetto 24).