venerdì 26 febbraio 2016

IL MARTIRIO DI GIOVANNI E ALTRI MIRACOLI DI GESU’




































Questa pagina del vangelo di Matteo (Cap. 14) è nella sua prima parte dominata dalla figura di Giovanni il Battista e dal racconto della sua passione e morte sotto Erode Antipa, figlio di Erode il Grande. Egli aveva ripudiato la moglie per unirsi a Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, sollevando la condanna di Giovanni che, stando alle notizie offerte dallo storico giudeo-romano Giuseppe Flavio, fu incarcerato nella fortezza di Macheronte, sulla costa orientale del Mar Morto. Il racconto del martirio del Battista è più essenziale rispetto a quello di Marco e viene visto come il preludio della morte di Cristo. Alla base ci sarebbe l’istigazione di Erodiade, risentita a causa della denuncia che Giovanni faceva del suo legame con questo principe, messo a capo della Galilea e della Perea alla morte di suo padre Erode, nel 4 a.C. 

Subentra il filo narrativo che ha sempre Gesù per protagonista con le sue opere. Di scena ora è la prima moltiplicazione dei pani per «circa cinquemila uomini» (la seconda, nel capitolo 15, ne coinvolgerà quattromila), cifre da assumere in senso lato e non statistico, secondo la prassi orientale. Il miracolo ha al centro il segno del banchetto messianico offerto a tutti i popoli e ha in filigrana un’evocazione della cena eucaristica: Gesù «prese i pani…, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede…» (versetto 19). A questo episodio, che è carico di significati religiosi e che va oltre il semplice gesto di sfamare, se ne associa un altro piuttosto sorprendente. 

E’ noto, infatti, che Gesù non compie mai miracoli “spettacolari” o “taumaturgici”, ma solo orientati a beneficare e a offrire salvezza fisica e interiore. Ora, invece, siamo di fronte a un atto clamoroso, come quello del Cristo che cammina sulle acque, dando l’impressione di essere un fantasma, e fa anche procedere lo stesso Pietro sulle onde del lago (versetti 25,26,27,28,29). E’ ovvio che il miracolo abbia un valore religioso e simbolico che è da scoprire sotto gli stessi elementi di quell’evento. Bisogna innanzitutto pensare al rimando biblico dell’esodo attraverso il Mar Rosso, del passaggio del Giordano o delle «orme invisibili» di Dio che apre un sentiero nelle acque, come si esprime il Salmo 77,20. 

Due sono, però, le finalità del racconto. Da un lato, c’è il riconoscimento solenne, attraverso una teofania, cioè una grandiosa rivelazione divina, della divinità di Cristo e della sua signoria cosmica. Infatti, nel versetto 28, Pietro lo invoca con un titolo divino, “Kyrios, «Signore» (termine con cui si rendeva nella Bibbia greca il nome divino di JHWH). Nel versetto 33, poi, si ha la finale confessione di fede: «Tu sei veramente il Figlio di Dio!». D’altro lato, si ha la fede ancora esitante del discepolo: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (versetto 31). L’episodio, dunque, è una potente raffigurazione della fede in Cristo, Signore del mondo e della storia e Figlio di Dio. 



domenica 21 febbraio 2016

IL DISCORSO IN PARABOLE


Ora viene proclamato – dopo quello della "montagna" e quello "missionario" – il terzo dei cinque discorsi che costellano il testo matteano. Esso è costruito su due grandi “parabole” agricole, quelle del seminatore e della zizzania, a cui vengono associate altrettante spiegazioni e una serie di parabole minori. 

Gesù nella sua predicazione ama il ricorso al simbolo per illustrare il mistero del «regno dei cieli». Lungo tutto il capitolo 13 verranno evocate «sette parabole»: seminatore, zizzania, senape, lievito, tesoro, perle e rete da pesca sono i soggetti di ciascuna. Iniziamo con quella del seminatore. La sottolineatura va sui tipi diversi di terreno e sulla loro reazione al seme che in esso è effuso. E’ facile intuire – e lo si esplicherà nella successiva spiegazione – che si ha un contrasto tra l’azione divina e la risposta della libertà umana, cioè il rifiuto e l’accoglienza. L’ultima parola va, però, all’efficacia del seme, cioè della parola di Cristo e del «regno di Dio», che nell’animo di chi l’accoglie rivela la sua straordinaria fecondità.

Prima della spiegazione, si ha una riflessione sull’uso delle “parabole”. Esse, secondo Matteo, che ricorre a un passo di Isaia (6, 9-10), sono oscure agli occhi che volontariamente si chiudono alla luce del vangelo. Perciò, sono beati gli occhi che vedono e gli orecchi che ascoltano l’annunzio di Cristo, comprendendolo e accogliendolo. 

Alla “parabola” del seminatore segue una spiegazione, che è da considerarsi probabilmente come un commento applicativo che la comunità cristiana delle origini fa alle parole stesse di Gesù. I vari terreni ormai rappresentano in modo esplicito i tipi diversi di accoglienza del «regno di Dio»: c’è chi cede alla tentazione satanica, c’è chi è incostante e chi si lascia sopraffare dal fascino della ricchezza o dal peso delle preoccupazioni. l’accento, certamente, cade su chi «ascolta la parola e la comprende», cioè su chi ha occhi e orecchi puri che accolgono la parola di Cristo e la praticano. Se nella “parabola” l’accento era sul seme del regno che, comunque, alla fine ha successo, ora è la risposta dell’uomo a essere particolarmente sottolineata. 

Anche la seconda “parabola”, quella del grano e della zizzania, riceve una spiegazione-commento che ne illustra il valore religioso. «Bene e Male» sono intrecciati tra loro nella storia; bisogna, perciò, condividere la pazienza del padrone del campo del mondo, cioè di Dio, e attendere la pienezza della vicenda umana. Allora, il giudizio divino scevererà (separerà distinguendo) il Bene dal Male e giudicherà ogni azione e ogni evento. La spiegazione è al riguardo molto chiara e tutti gli elementi della “parabola” acquistano un loro significato simbolico: il seminatore è Cristo, il campo è il mondo, il grano sono i figli del «regno di Dio», la zizzania i figli di Satana, seguaci del Male, la mietitura è la fine della storia a cui subentra il grande giudizio. 

Tra questa parabola e il relativo commento sono incastonate le “parabole” del seme di senape e del lievito. Esse si reggono sul contrasto tra piccolezza e grandezza e sull’effetto “crescita”. Il «regno dei cieli» è di origini umili, come è visibile nello stesso Cristo, ma la sua è una forza dirompente, crescerà lentamente e silenziosamente, divenendo principio di trasformazione della storia e segno elevato tra i popoli. Si puntualizza poi, attraverso la citazione del Salmo 78,2,  la funzione delle “parabole” (nel caso precedente del seminatore era stato citato il testo di Isaia 6,9-10): esse rivelano i misteri divini, «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». 

Abbiamo poi altre “parabole”, che Matteo ha qui raccolto nell’unità del terzo discorso del suo vangelo. Quelle del tesoro e della perla sono gemelle tra loro e hanno lo scopo di esaltare il valore primario del «regno di Dio», al quale bisogna sacrificare ogni altra realtà. Quella della rete che raccoglie ogni tipo di pesce, compresi quelli “impuri”, secondo le norme alimentari codificate dalla legge biblica e dalla tradizione giudaica, è una ripresa della parabola del grano e della zizzania, cioè del contrasto «Bene-Male» che sarà risolto solo alla fine dei tempi, con il giudizio divino. Al discorso è unito un breve racconto che delinea il rifiuto che Gesù riceve proprio da chi gli è più vicino, i Nazaretani, incapaci di cogliere il valore della sua parola e fermi solo all’esteriorità umile di Cristo. 

Per quanto riguarda il discorso in “parabole” Matteo ha trovato un modello nel vangelo di Marco (cap. 4). Ma lo amplifica con altre parabole raggiungendo in tal modo il numero di sette. Costituiscono insieme un piccolo trattato sul regno di Dio. Non mettono a tema che cosa sia il regno, ma come esso si fa presente nella storia. Per molti il regno si fa presente con modalità sconcertanti. L’evangelista, come già in parte anche Marco, organizza il discorso in modo da rispondere a due domande: come si spiega che di fronte alle medesime manifestazioni del regno alcuni comprendono e molti altri no? Come si spiega che nella comunità cristiana ci sono ancora i peccatori, cioè la “zizzania” mescolata al “grano”?       

venerdì 19 febbraio 2016

NUOVE CONTROVERSIE TRA GESU’ E I FARISEI


Continuano le reazioni di fronte al ministero pubblico di Gesù (Mt Cap. 12). Ora di scena sono i “Farisei” che, pur rappresentando la corrente più aperta del giudaismo di allora, si rivelano in questo racconto molto ostili a Cristo, al punto tale da progettare la rovina stessa di Gesù (versetto 14)). Due sono i momenti del conflitto, ma entrambi hanno per tema l’osservanza del sabato, una delle norme fondamentali della tradizione giudaica. Da un lato, infatti, i discepoli di Gesù la violano compiendo un “lavoro”, quello del cogliere spighe per masticarne i grani, e dall’altro è lo stesso Cristo a violarla attraverso la guarigione di un uomo dalla mano paralizzata, un gesto considerato anch’esso come un’opera proibita nel giorno di riposo. 

In entrambi i casi Gesù replica con un’aspra requisitoria fondata sulla Bibbia. Nella prima situazione egli appella alla violazione delle regole sacrali da parte di Davide in fuga nel deserto (si legga 1Samulele 21) e da parte dei sacerdoti stessi durante i sacrifici compiuti di sabato (Levitico 24). Citando ancora una volta il passo di Osea (6,6), secondo il quale Dio preferisce l’amore generoso e fattivo al rito fine a se stesso, Cristo ripropone l’autentica santità, che non è mera osservanza rituale ma impegno vitale. Nel secondo caso egli argomenta sulla base della prassi che di sabato ammette eccezioni in situazioni gravi: la sofferenza di una creatura umana non è forse un caso grave? Potenti e terribili agli orecchi dei “Farisei” risuonano due frasi di Cristo: «Io vi dico che qui c’è qualcosa più grande del tempio…. Il Figlio dell’uomo è signore del sabato» (versetti 6 e 8). 

A questo punto l’evangelista offre un’interpretazione della figura di Gesù sulla base della citazione del primo canto del Servo del Signore (Isaia 42,1-4), un passo letto in chiave messianica, ove la figura di Cristo è intravista in filigrana come l’uomo della «misericordia», che non getta via la canna incrinata e non spegne il lucignolo che fumiga. E subito dopo, ecco ancora un miracolo nei confronti di un indemoniato, cieco e muto: è noto il nesso che sovente si poneva tra peccato e malattia, tra Satana e sofferenza. Questo atto scatena di nuovo la reazione dei “Farisei”, i quali accusano Gesù di magia demoniaca. 

Egli rintuzza questo attacco, mostrando che la sua non è collusione con Satana ma collisione: infatti, egli è venuto per scacciare e piegare il diavolo e instaurare il regno di Dio. I “Farisei” lo sanno ma, pur vedendo, essi si oppongono a Cristo e alla sua opera: è questa la «bestemmia contro lo Spirito», cioè il rifiuto cosciente e sistematico della verità e del bene conosciuto, una colpa che non può essere perdonata. Perciò io vi dico: «Qualunque peccato e bestemmia saranno perdonati agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata…» (versetto 31) Gesù prosegue con: «A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonata né in questo mondo, né in quello futuro» (versetto 32), (vedi anche Post pubblicato Sett.2015 “Il peccato imperdonabile). Infine Gesù ricorre a un’immagine che aveva già usato (Matteo 7,17-18) e a un’altra che riprenderà (13,52), cioè all’albero e ai suoi frutti e al tesoro personale, per indicare il bene e il male che ogni uomo può produrre e rivelare. 

Il confronto tra Gesù e i “Farisei” prosegue ora con la richiesta di un «segno», cioè di una prova ultimativa che giustifichi le asserzioni di Cristo, considerate come spropositate. Con sdegno Gesù, che ha già nei miracoli offerto il «segno» della sua missione, rigetta questa richiesta e appella, invece, a un «segno» teologico, quello dGiona il profeta». E’ un simbolo biblico riletto alla luce del mistero pasquale, cioè la morte e la risurrezione, il vero «segno ultimo e decisivo». Il grosso pesce che inghiottì Giona, figura del mare e dei suoi mostri di morte, diventa l’emblema del sepolcro dal quale Cristo uscirà nella gloria della Pasqua. E’ per questo che contro i “Fariseie coloro che rifiutano il vangelo del regno si rovescerà il giudizio divino, nel quale saranno testimoni gli stessi Niniviti convertiti da Giona e la regina di Saba – «la regina del sud» –, che diventano il simbolo dei pagani aperti e disponibili alla predicazione del vangelo. 

Dopo un’inserzione sull’opera diabolica che non cessa mai di attuarsi all’interno dell’uomo, si introduce finalmente il ritratto di coloro che accolgono Cristo, i suoi discepoli. Essi sono come la madre e i fratelli e le sorelle di Gesù, cioè a lui legati da un vincolo intimo e profondo. Mentre prima era di scena la «generazione perversa e adultera» (12,39), ecco ora la generazione «santa e giusta», quella di coloro che fanno «la volontà del Padre che è nei cieli». Si chiude, così, una parte molto importante e tormentata del vangelo di Matteo, scandita dai miracoli di Gesù e dalla reazione dell’uditorio.   

     


lunedì 15 febbraio 2016

L’ELOGIO DI GIOVANNI E IL MISTERO DEL REGNO DEI CIELI


Subito vengono segnalate alcune reazioni all’opera di Cristo, un’opera che è vista dall’evangelista come espressione visibile della sapienza divina (Mt Cap. 11,19). La prima reazione è quella del Battista e dei suoi discepoli: pare, infatti, che nei primi tempi cristiani si fosse costituita una comunità che attribuiva a Giovanni connotati messianici. Gesù, dopo aver sinteticamente dipinto la sua azione di salvezza e l’annunzio del vangelo ai poveri, offre un ritratto glorioso del Battista richiamandosi alla figura di Elia, il profeta che era considerato dalla tradizione giudaica come il precursore del Messia, sulla scia di un passo di Malachia (3,1), che qui viene appunto citato. Si ha, quindi, da un lato l’esaltazione di Giovanni, della sua persona integerrima e della sua alta missione; ma si ha anche, d’altro canto, un suo ridimensionamento a figura preparatoria del regno dei cieli instaurato in Cristo. Egli è, perciò, quasi il punto d’arrivo della profezia. 

Attraverso la mini-parabola dei ragazzi che sulla piazza non s’accordano sul giuoco da fare (mimare una festa nuziale o un rito funebre?), Gesù segnala poi un’altra reazione,  quella dell’indifferenza ottusa dei suoi contemporanei, i quali non si convertono né di fronte all’aspra predicazione del Battista né di fronte a quella «misericordiosa» di Cristo. 

Ma c’è un’altra reazione ed è quella del rifiuto assoluto, incarnata da alcune città della Galilea ove Gesù ha predicato, come Corazin e Betsaida: il giudizio che piomberà su di loro sarà severo e supererà quello della citta-simbolo del peccato, Sodoma (Genesi 19,1-29). 

Il nostro brano, però, finisce con una stupenda preghiera-benedizione che Gesù rivolge al Padre celeste. E’ la celebrazione dell’accoglienza del vangelo da parte dei «piccoli», coloro che si affidano senza pretese e orgoglio alle mani di Dio. Essi sono i semplici, i puri di cuore, i poveri, gli affaticati e gli oppressi. A loro è lieve il giogo del vangelo, che non esitano a prendere su di sé con gioia. Nella tradizione giudaica il giogo era un’immagine usata per indicare l’accettazione dei precetti della legge biblica. Ma al centro di questa benedizione si esalta anche l’unicità del rapporto tra Cristo e il Padre divino, un rapporto di comunione, di conoscenza e di amore reciproco totale. 


giovedì 11 febbraio 2016

IL DISCORSO MISSIONARIO


Il secondo grande discorso di Gesù ( Mt cap. 10) è preparato dal “ritratto di gruppo” dei dodici discepoli, elencati a coppie, dal «primo», Simone chiamato Pietro, sino all’ultimo, «Giuda L’Iscariota, che poi lo tradì». La loro missione è la stessa di Gesù: rivolgendosi prima di tutto a Israele, come popolo dell’elezione divina, essi devono predicare e guarire, cioè annunziare la venuta del regno dei cieli in parole e in opere. E’ forte la sottolineatura che viene riservata alla lotta contro il male fisico e spirituale. L’invio per la missione – Matteo ha naturalmente davanti agli occhi l’azione e la testimonianza della Chiesa delle origini – comprende il “Discorso Missionario” che Cristo rivolge ai discepoli come vero e proprio programma. 

Subito egli sottolinea la necessità della povertà e della gratuità nell’impegno apostolico (tra l’altro, il verbo greco apostellein, “inviare”, “mandare”, da cui deriva il vocabolo «apostolo», è presente nel versetto 16). Si delinea, poi, un’esperienza ben nota ai primi cristiani, quella dell’accettazione e del rifiuto, a cui il discepolo va incontro con serenità, ben sapendo che il giudizio di simili comportamenti è affidato a Dio, che ha inviato e tutela il suo testimone. Partendo certamente dalle vicende che la Chiesa di Matteo aveva vissuto, l’evangelista modella le parole di Gesù alla luce della storia della comunità cristiana delle origini: i vangeli, infatti, non sono verbali o testi storiografici ma, fondandosi sulla parola storica di Gesù, la conservano in modo vivo, attualizzandola e confrontandola con il loro presente. 

Così, lunga è la lista dei rifiuti che verranno opposti ai missionari del vangelo: ci saranno persecuzioni da parte di uomini vari che deferiranno i discepoli ai tribunali, di Giudei che li denunceranno alle autorità sinagogali, di pagani che li consegneranno ai politici, e persino da parte di familiari, i quali colpiranno i loro stessi parenti. Tuttavia, anche se queste prove dureranno sempre, fino alla venuta gloriosa di Cristo al concludersi della storia, i testimoni del vangelo saranno sereni perché sanno che questo è già accaduto al loro Signore e che lo Spirito Santo è accanto a loro a sostenerli. Si ha, allora, un vigoroso appello alla fiducia, nella consapevolezza che Dio non abbandona la vita («anima e corpo») dei suoi fedeli, lui che si prende cura dei passeri del cielo e persino dei capelli del nostro capo. 

Il discorso prosegue con una nuova rappresentazione della radicalità che la scelta di seguire Cristo comporta. E’ come se una spada tagliasse tutti i fili delle relazioni umane che ci legano al mondo: il discepolo deve sapere persino perdere la propria vita per Cristo. Infatti Gesù presenta la via della croce, cioè del martirio, come una strada aperta anche davanti al discepolo. Ma essa ha come meta la pienezza: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà». 

Il “Discorso Missionario” si chiude sulla scena dell’accoglienza: per sei volte risuona il verbo «accogliere», segno del frutto positivo che la missione può ottenere. Molti, infatti, aderiranno all’annunzio dei discepoli che sono definiti con tre termini suggestivi: profeti, giusti e piccoli. I primi due sono attinti all’Antico Testamento, il terzo è tipico di Matteo, che vuole sottolineare la semplicità, la fiducia e la povertà dei testimoni del vangelo (Mt 10, 40-42). Dopo queste parole, anche Gesù si mette sulle strade della Galilea «per insegnare e predicare» il “regno di Dio”.

Per il discorso sulla “missione” Matteo ha potuto servirsi di due esemplari provenienti da due fonti differenti. Egli li fonde insieme e vi aggiunge molte altre parole del Signore che illustrano lo stile della “missione” e, soprattutto, il coraggio che il missionario deve avere nell’affrontare la “persecuzione”. La parte sulla “persecuzione” è la più ampia e originale, anch’essa però costruita su materiali già presenti in Marco e Luca, ma collocati altrove. Nella concezione di Matteo, “missione e persecuzione” si accompagnano. La “persecuzione” vorrebbe fermare la “missione”, in realtà la favorisce. La “persecuzione” è un fatto della storia di sempre, non solo degli ultimi tempi. 

        

lunedì 8 febbraio 2016

ALTRI MIRACOLI E CONTROVERSIE CON SCRIBI E FARISEI






































Alla sequenza dei miracoli subentrano ora le parole di Gesù (Matteo Cap. 9). Sono le parole polemiche pronunziate in una triplice controversia, che vede come interlocutori di Cristo tre rappresentanti del giudaismo di allora nelle sue varie articolazioni. S’avanzano anzitutto gli “scribi”, cioè i dottori della legge mosaica, interpreti e tutori delle norme e delle tradizioni. La discussione è incorniciata all’interno di un nuovo miracolo di Gesù, la guarigione del paralitico, e riguarda il potere divino che Cristo afferma di possedere, quello di perdonare i peccati, un potere che egli affiderà poi anche «agli uomini», cioè alla Chiesa (versetto 8). 

C’è poi la controversia con i “farisei”, una corrente religiosa del giudaismo più “Spirituale” e profonda di quanto fanno balenare i vangeli. Essa è incorniciata dalla chiamata di Matteo, funzionario delle imposte, alla sequela di Gesù, e riguarda l’apertura del regno di Dio ai peccatori convertiti e agli ultimi, sulla scia delle parole del profeta Osea: «Io voglio l’amore, non i sacrifici» (6,6), parole che esaltano l’adesione vitale rispetto al puro e semplice rito e all’osservanza legale. Infine, c’è una diatriba con i discepoli del Battista che non si rassegnavano a lasciare il loro maestro e lo consideravano superiore a Cristo. Il tema è quello del digiuno. Cristo, ricorrendo al simbolismo delle nozze, delle stoffe e degli otri per il vino, attesta la novità, la libertà, la gioia del suo messaggio e della vita secondo il regno di Dio. 

Come accade spesso in Matteo, si ha un’alternanza tra parole e atti di Gesù. Subito dopo le controversie, ecco un altro trittico di guarigioni. Il primo quadro comprende, in realtà, «due» miracoli intrecciati tra loro: quello della donna che soffriva di emorragie e quindi – secondo le norme rituali – era impura, e quello della figlia di «uno dei capi» (Marco parlerà del capo della sinagoga), che Gesù riporta in vita. Si noti il rilievo dato alla fede per comprendere il miracolo e il fatto che, agli occhi dell’evangelista, la morte con Gesù presente diventa solo un sonno da cui egli ci risveglia (è l’immagine e la terminologia della risurrezione). 

Segue poi la guarigione dei due ciechi (un parallelo è in 20,29-34): anche in questo caso si menziona la fede e i due la testimoniano con l’invocazione: «Figlio di Davide» e «Signore» rivolta a Cristo. Infine, ecco il terzo quadro con lo scioglimento della parola in un muto nel quale si intravede anche una presenza satanica, forse secondo la concezione biblica per cui  a ogni malattia corrisponde in radice un peccato, concezione che Cristo supererà. Certo è che chi non crede, come i “farisei”, non sa intuire nell’episodio l’azione liberatrice di Dio ma, al contrario, vede solo uno scontro perverso nell’orizzonte del male, a cui anche Gesù è relegato. Un sommario finale, che descrive le parole e le opere molteplici di Cristo, prepara il successivo grande “Discorso Missionario”.      










































giovedì 4 febbraio 2016

GUARIGIONI, MIRACOLI ED ESORCISMI DI GESU'




















Dopo le parole di Gesù, espresse all’interno del grande “Discorso della Montagna”, ecco entrare in azione le mani di Cristo che lottano contro il male fisico e quello spirituale e storico (Cap. 8). Si presentano innanzitutto «tre» racconti di guarigione. Il primo riguarda un lebbroso: le mani di Gesù lo toccano, contro le norme di purità allora vigenti, quasi per assumere su di sé quel male così da cancellarlo. Ed è la parola efficace e creatrice di Cristo che riporta in quel lebbroso, raffigurato ai piedi del suo salvatore, la salute: «Lo voglio, sii sanato». La seconda guarigione si compie a distanza. Ormai la discriminante non è più storica e razziale ma interiore: il centurione che riceve il dono della salute per il suo servo è pagano ed è esaudito in base alla sua fede. Per due volte, infatti, si ribadisce questo tema: «Presso nessuno in Israele ho trovato una fede cosi grande….Sia fatto secondo la tua fede» (versetti 10 e 13). 

Dall’universalismo del secondo miracolo si passa all’intimità familiare del terzo: di scena, infatti, è la suocera di Pietro. Diversamente da quanto farà Marco, che introduce anche i discepoli, qui al centro domina solo Cristo che ha di fronte la malata, la quale, una volta guarita, si dedicherà a servire il suo salvatore. In finale a questo trittico, come non di rado si ha nei vangeli, un sommario evoca una serie di guarigioni operate da Cristo. Matteo, però, le interpreta alla luce del cosiddetto quarto canto del Servo del Signore, un testo letto in chiave messianica e contenuto nel libro di Isaia (53,4): «Egli si è fatto carico delle nostre infermità e si è addossato i nostri dolori». Ancora una volta si esalta il rapporto tra Cristo e la profezia biblica. 

Si ha poi un intervallo con un dialogo nel quale vengono messe in luce le esigenze radicali del “regno di Dio”, cioè la povertà e il distacco dalle cose e dagli affetti, esigenze espresse in forma paradossale e radicale, come si era già notato nel “Discorso della Montagna”. Continua poi la serie delle azioni salvifiche di Cristo con un altro dittico di miracoli. Ecco la tempesta sedata, nella quale Matteo introduce anche l’aspetto ecclesiale: la comunità dei discepoli è in difficoltà nelle tempeste della storia perché essi sono «uomini oligopistoi», cioè di poca e debole fede. E’ solo con la fiducia in Cristo, Signore dell’universo, che si avrà salvezza. 

Segue l’episodio degli indemoniati di Gadara, al di là del lago di Tiberiade: Marco e Luca, che hanno un racconto più lungo, parlano di un solo indemoniato e ambientano l’episodio nel territorio di Gerasa, intendendo forse la stessa area geografica. Il demonio, i sepolcri, i porci, il lago-mare sono nel linguaggio biblico la rappresentazione del male. Ciò che Gesù compie è, perciò, un esorcismo contro Satana e il male: esso si conclude con il trionfo della salvezza, incompresa però da coloro che si fermano solo alla superficie degli eventi, come fanno i Gadareni.