sabato 23 gennaio 2016

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA


Dal capitolo 5 al 7 incontriamo il primo dei cinque discorsi di Gesù che scandiscono il vangelo di Matteo. Esso è stato chiamato “Discorso della Montagna”, perché l’evangelista lo colloca su questo fondale. E’ probabilmente un simbolo del nuovo Sinai sul quale Cristo, nuovo Mosè, offre la sua “legge”. In verità, come si vede dalla prima pagina costituita dalle “beatitudini”, Gesù più che una serie di norme vuole proporre una scelta radicale e totale, come appare dalle espressioni: «poveri in spirito» o «puri di cuore»; l’intero essere dell’uomo, nella sua profondità rappresentata biblicamente dallo «spirito» e dal «cuore», è invitato ad aderire al progetto di Dio, cioè a quello che Gesù chiama «il regno dei cieli». E’ un ribaltamento della visione convenzionale e scontata del mondo per un nuovo ordine di valori (vedi anche post pubbl. dicembre 2015 “la Magna Charta cristiana). 

Dopo la grande pagina delle beatitudini, considerata la “Magna Charta” del Cristianesimo, il “Discorso della Montagna” si svolge con una serie di unità caratterizzata da temi specifici, raccordati al filo che regge l’intera proposta di Gesù, cioè la radicalità e totalità che il cristiano deve offrire nella sua adesione al «regno dei cieli». Limpida e assoluta dev’essere innanzitutto la testimonianza, raffigurata con le tre immagini del “sale”, segno di sapore (come la Sapienza), della “città” collocata su un monte e della “lampada” non nascosta sotto il «moggio» (un recipiente capace di contenere circa 8,5 litri). 

Si puntualizza anche il rapporto con l’Antico Testamento («la legge e i profeti»): c’è unità profonda tra i due Testamenti, al punto tale che Cristo esalta il valore di ogni componente, anche minima (la piccola lettera come lo iod-iota o il segno che distingueva le lettere simili), delle Scritture ebraiche. Egli non abolisce ma porta a pienezza, e qui riaffiora il tema della totalità a cui sopra si faceva riferimento. Un tema che viene poi accuratamente illustrato attraverso le cosiddette “sei antitesi”che si sviluppano nei versetti 21-48. 

Il punto di partenza è sempre un precetto dell’antica legge biblica che non viene, però, negato, bensì portato alla sue estreme conseguenze, alla sua pienezza positiva. Così, il cristiano non si accontenterà di rispettare il comandamento del “Decalogo”, «non uccidere!», ma lo amplierà fino a cancellare ogni aggressione morale nei confronti del fratello: i due termini usati, l’aramaico “raka”, «testa vuota», «stupido», e il greco “moros”, «pazzo», «empio», sono assunti come esempio di questa ira che umilia e uccide moralmente. Altre note sottolineano ulteriormente la generosità assoluta del perdono e dell’amore. Similmente il comandamento che vieta l’adulterio viene riportato alla sua anima più profonda: bisogna combattere non solo l’atto esteriore ma anche il “desiderio”, cioè la scelta interiore, la decisione, la volontà. 

Analoga è la questione del divorzio: Cristo propone ai coniugi cristiani la pienezza della donazione d’amore così come era stata intesa dal creatore nel costituire la coppia. L’ “eccezione” che Matteo introduce («eccetto nel caso di porneia», inteso da alcuni come concubinato o, da altri, secondo certe norme del diritto ebraico antico) riflette una situazione della Chiesa del tempo, ma non incrina il principio dell’amore totale e indissolubile. Una totalità che deve valere anche per il giuramento e la sincerità, affidata alla nettezza del «si, si; no, no» (vedi anche post pubbl. dicembre 2015 “Gesù e il divorzio”). Radicale è pure la condanna di ogni violenza, andando oltre la giustizia del taglione («occhio per occhio, dente per dente», come lo è la scelta dell’amore per il prossimo che non conosce più limiti o frontiere, ma si estende fino al nemico. L’appello finale ad essere «perfetti» come Dio è l’illustrazione più limpida della pienezza e totalità che hanno continuamente retto questa pagina di vangelo (cap.5, 48). 

Gesù ora (cap.6) affronta le tre opere principali della pietà giudaica: L’elemosina, la preghiera e il digiuno. E ancora una volta la sua non è una proposta che cancelli il valore di queste pratiche, ma piuttosto essa mira a condurle alla loro pienezza e purezza di intenzione e di efficacia. Significativa è dichiarazione preliminare sul «praticare le buone opere», ma non «per essere ammirati dagli uomini». Particolare rilievo ha quella specie di “catechismo sulla preghiera” che reca al centro il “Padre nostro”, la preghiera definitiva del cristiano. Matteo ci offre una versione in sette domande, forse ampliate dall’uso liturgico della Chiesa delle origini: Luca, infatti, nella sua versione (11,2-4), presenta solo cinque domande. Certo è che il linguaggio di Matteo è più vicino a quello usato da Gesù, come traspare dalla forte impronta giudaica. 

Ricordiamo, poi, in modo più specifico che «santificare il nome» è la celebrazione della signoria di Dio sulla storia e sull’intera realtà, in pratica è il riconoscimento del suo regno e della sua volontà, come si dice nelle domande successive. Alle invocazioni di natura più direttamente teologica subentrano le suppliche per l’esistenza umana storica, in particolare per il pane “epiousion”, un termine greco assai raro che può alludere sia alle necessità “quotidiane” sia al futuro, al sostegno per il domani (anche se è più probabile la prima interpretazione). I «debiti» nel linguaggio giudaico erano i peccati, e netto è il legame tra il perdono divino e il nostro perdono nei confronti dei fratelli. «non ci indurre in tentazione» è una forte espressione semitica che vuole salvaguardare il dominio di Dio anche sul male, così da evitare ogni dualismo, ma vuole pure evocare la tentazione-prova: il senso, perciò, è quello dell’implorazione a Dio perché non ci esponga alla tentazione del male e alla prova della fede, e, comunque, in esse sempre ci sostenga. 

Dopo l’ammonimento su un digiuno non ipocrita, «per far vedere alla gente», nello spirito della profezia (Isaia 58), Gesù presenta alcune esigenze tipiche del «regno di Dio» e della sua giustizia. Innanzitutto è richiesto il distacco del cuore dalle ricchezze, chiamate con termine aramaico «mammona», un vocabolo che curiosamente ha al suo interno un’assonanza con la radice del verbo della fede, l’ “amen, anche da noi usato. Si tratta di una vera e propria idolatria che conquista e domina l’uomo. 

Segue poi un’intensa lezione sul distacco dalle cose e dagli eventi, illustrata con una serie di esempi di straordinaria fragranza poetica e spirituale e che non necessitano di nessun commento. Gesù ripete per cinque volte il verbo “merimnan” – che in greco significa: «affannarsi», «darsi da fare» (versetti 25.27.28.31.34) –, riguardo al cibo, al vestito e al tempo, per ribadire l’abbandono fiducioso che il fedele deve avere nei confronti del padre celeste e della sua provvidenza continua e amorosa. 

Si conclude in questo capitolo (cap. 7) il “Discorso della Montagna”, descrizione del «regno di Dio» e della sua «giustizia», cioè della sua salvezza e dell’adesione da parte dell’uomo. Si ha una certa varietà di temi, pur nella costante di questo annunzio fondamentale. Innanzitutto si pone l’accento sulla generosità verso il fratello, sulla misericordia nel giudicarlo, consapevoli prima di tutto del proprio limite: celebre è l’immagine della pagliuzza e della trave (ma in 18,15-18 si parlerà anche della necessità della correzione fraterna). Si passa poi, con la citazione di un proverbio («non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci…», a un appello un po’ enigmatico a tutelare la purezza dell’annunzio evangelico. 

E’ di scena successivamente la preghiera, delineata ora nella sua dimensione di fiducia nei confronti di un padre divino che darà sempre «cose buone» ai suoi figli. Questo insegnamento è sostenuto da immagini vivaci, come quelle della porta a cui si bussa, della pietra-pane e del serpente-pesce. Si ha poi, in questa libera sequenza di temi sulla giustizia nei confronti del «regno dei cieli», l’evocazione della “regola d’oro” dell’amore, formulata al positivo e considerata come la sintesi di tutta la morale biblica: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». A questo punto si apre un lungo paragrafo dedicato al vero e al falso discepolo (dal versetto 13 al 23). 

Appare il simbolo classico delle due vie, cioè della scelta libera del bene, qui trasformato anche nelle due porte che si aprono davanti alle strade. La via del «regno di Dio» è ardua ed esigente e richiede un impegno serio ed assiduo. Attraverso il ricorso allo stile semitico, Gesù ripete a più riprese, così da incidere il suo messaggio nella memoria dei suoi ascoltatori, un monito sulla distinzione tra i veri e i falsi profeti. Le immagini sono quelle delle pecore e dei lupi e degli alberi infruttuosi e carichi di frutti. Per ben sette volte risuona la parola «frutti», considerata come il segno discriminante tra la buona e la cattiva novella. I falsi discepoli, infatti, sono «operatori di iniquità» ed è in questo che devono essere riconosciuti, al di là dell’enfasi delle loro parole e dell’ipocrisia del loro comportamento. Cristo li smaschererà nel giorno del  giudizio su tutta la storia umana. 

Il “Discorso della Montagna” si chiude con due suggestive parabole gemelle. E’ la storia antitetica di chi erige la casa sulla roccia salda e di chi, invece, si affida all’instabilità della sabbia. Il paragone è facilmente decifrabile proprio nel suo parallelismo antitetico: chi «ascolta e mette in pratica» le parole di Cristo è colui che fonda la sua esistenza su base solida; chi ascolta soltanto ma poi compie scelte opposte è destinato allo sfacelo. Attorno alle parole di Gesù – nota l’evangelista – si crea lo stupore della folla che riconosce in quel discorso un’autorità «trascendente» (non riconducibile alle determinazioni dell’esperienza). 

Per il “Discorso della Montagna”, Matteo ha potuto utilizzare una fonte antica (usata anche da Luca), nella quale il discorso iniziava già con le “beatitudini” e terminava con la parabola della “casa sulla roccia”. Ma dentro questo schema, Matteo inserisce molti altri insegnamenti, trasformando in tal modo il discorso in una “Magna charta” dell’esistenza cristiana. La frase, attorno alla quale l’evangelista sembra aver costruito il discorso, è: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (5,20). Si intravedono “tre” giustizie: quella degli scribi, dei farisei e dei discepoli. Matteo contrappone, in una prima parte, il pensiero di Gesù alla giustizia degli scribi; poi, in una seconda parte, spiega la critica di Gesù alle pratiche religiose dei farisei; e infine, terza parte, descrive la giustizia “superiore” del discepolo. L’intento è di rispondere a una domanda cruciale: dove sta l’originalità del discepolo e che cosa lo distingue da un pio Israelita?


venerdì 15 gennaio 2016

LE TENTAZIONI DI GESU’


















Dopo la predicazione del Battista e il battesimo di Gesù nel Giordano, la terza scena che Matteo raffigura è quella della triplice tentazione di Cristo (Vedi post pubbl. a Marzo 2013 “Gesù e il potere politico, la tentazione più forte”). Essa si fonda su un dato storico offerto dallo stesso Gesù che rappresentò una sua esperienza: mai, infatti, la comunità cristiana avrebbe “inventato” una serie di episodi in cui Cristo è sottoposto alla tentazione di Satana. Si ha, così, una netta presentazione dell’umanità di Gesù, della sua libertà e della sua adesione al progetto messianico divino. 

Il racconto delle «Tentazioni» di Gesù è costruito da Matteo su una triplice tentazione diabolica a cui risponde, in contrappunto, una triplice citazione della Bibbia da parte di Gesù «Stà scritto». Il Tentatore, infatti, fa balenare davanti al Cristo «Tre» forme di messianismo.

La Prima Tentazione, quella delle pietre, che diventano pani, potremmo definirla “Terrenista” legata alla materialità delle cose.

La Seconda forma di messianismo simboleggiata dal Tentatore nel volo nel pinnacolo potremmo definirla “Taumaturgica”. E' quella di una religione magica, pubblicitaria, da stella dello spettacolo sacro. Essa umilia la vera fede che, pur non essendo assurda, è rischio, è libertà, è un fidarsi della parola divina.

Ed ecco in crescendo, la Terza,  la Tentazione più forte, quella del “messianismo politico”. E' la religione del potere e del benessere, un'idolatria implacabile che dal suo fedele esige una totalità assoluta di dedizione, simile a quella che lega il fedele autentico al Dio vivo e vero. 

Gesù non si compromette col potere politico, il suo non è un progetto di dominio e di possesso ma di «amore e donazione».

Ricordiamo quindi che la sequenza degli episodi (Mt. Cap. 4) – il deserto, il tempio con il suo angolo a precipizio sulla valle del Cedron, il monte – incarna differenti modelli di messianismo: quello materiale e sociale (i sassi divenuti pane), quello taumaturgico-spettacolare (la discesa dal pinnacolo del tempio), quello politico (i regni della terra). 

Significativo è anche il fatto che la discussione tra Cristo e Satana si svolge tutta sulla base della Bibbia, citata in modo magico dal diavolo, opposta invece nella sua forza liberatrice da Gesù. Si ha, così, una riflessione suggestiva sulla verità e sull’inganno con cui si può usare la parola di Dio. Subito Matteo introduce due quadri. Da un lato Cristo inizia la sua predicazione e, come è consuetudine, di questo evangelista, l’evento è incorniciato da una citazione di Isaia (8,23 e 9,1), sempre per rivelare che l’intera vicenda di Cristo partecipa al progetto che Dio ha già manifestato e iniziato ad attuare. Le prime parole di Gesù ricalcano quelle del Battista (3,2): «convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». 

La predicazione di Cristo è poi allargata a tutta la Galilea, la regione settentrionale della Palestina, ed è accompagnata dalle guarigioni, segni della salvezza nella sua pienezza. Dall’altro lato, si ha la narrazione della chiamata dei primi discepoli, a coppia: prima Simone Pietro e Andrea, poi Giacomo e Giovanni, tutti pescatori, convocati autorevolmente da Cristo (i maestri del tempo erano invece seguiti liberamente dai loro discepoli) e destinati alla nuova missione di essere «pescatori di uomini».


           

sabato 9 gennaio 2016

LA PREDICAZIONE DI GIOVANNI E IL BATTESIMO DI GESU’


Concluso il “vangelo dell’infanzia”, che è saldamente religioso e ben poco pittoresco (come vorrà la  successiva tradizione “natalizia”), Matteo – ricalcando un trittico presente nella predicazione cristiana delle origini – introduce «tre» scene che presentano Cristo sull’orizzonte della sua storia pubblica: il battesimo ricevuto da Giovanni il Battista è preceduto dalla predicazione dello stesso precursore (Cap. 3) ed è seguito dalla scena delle tre tentazioni (Cap. 4). Al centro c’è, quindi, la grande rivelazione che si compie mentre Gesù si fa battezzare. L’epifania divina che accompagna quell’atto ha come elemento decisivo la proclamazione di Gesù come «Figlio prediletto» di Dio e come Messia e profeta, sul quale viene effuso lo "Spirito" divino. 

A preparare questa scena capitale si ha il ritratto del Battista, che è quasi la sintesi della parola profetica, come è attestato dalla citazione di Isaia (40,3), relativa alla «voce che grida», e dalla veemenza della sua predicazione, destinata a indicare l’avvento degli anni decisivi della salvezza, il tempo ultimo della conversione. E’ significativo notare che la sostanza del suo annunzio («convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» sarà ripresa dallo stesso Gesù (4,17).  

"Ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui". (Matteo 3,16)

La cornice storica del passo citato è l’evento che si sta compiendo su una sponda del Giordano (forse la riva orientale giordana, secondo vari studiosi sulla base di scavi archeologici degli ultimi decenni): Gesù è battezzato da Giovanni. 
Il fatto è certamente storico perché non si sarebbe mai “inventato” da parte dei primi cristiani un episodio che vede Cristo “inferiore” al Battista e per di più ricevendo un Battesimo fatto per «confessare i peccati» (Matteo 3,6). 

Nell’interno di questo evento storico è incastonata, però, un’esperienza che Matteo descrive come personale, vissuta dal solo Gesù. Infatti è “per lui” che si squarciano i cieli ed è solo sua la visione dello "Spirito" di Dio sotto il simbolo della "colomba", un segno variamente interpretato, anche perché questo uccello sembra essere un emblema di Israele (Salmi 68,14; 74,19; Osea 7,11). In questo caso lo "Spirito" divino rappresenterebbe la nuova comunità fedele che si raduna attorno al Messia. A questa esperienza intima di Gesù viene associata una epifania divina aperta a tutti. È la voce dal cielo che proclama: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (3,17). 

La frase merita un’attenzione particolare perché assegna il significato ultimo all’evento del Battesimo che Gesù ha appena ricevuto da Giovanni. Non per nulla gli esegeti parlano di una “visione interpretativa” per definire il valore di quanto abbiamo appena descritto. L’atto rituale di purificazione, che il Battista amministrava agli ebrei che accorrevano a lui, si trasforma così in una sorta di investitura solenne messianica di Gesù davanti a tutto Israele. 

Ma la rilettura evangelica con quella frase “celeste” va oltre e, alla luce della gloria pasquale, delinea un messianismo più alto di natura trascendente. Come è noto, infatti, la figura del Messia atteso dall’ebraismo aveva connotati creaturali, così da non inficiare il rigoroso monoteismo biblico. In questa linea anche il misterioso Figlio dell’uomo cantato da Daniele (7,13-14), dotato da Dio di un potere supremo, veniva lasciato nel limbo di un messianismo non applicabile a nessuno, tant’è vero che sarà Gesù (seguito dalla Chiesa delle origini) ad assegnarsi tale titolo “eccessivo”, creando una sorta di provocazione nel contesto religioso di allora. Esplicita, invece, è adesso la definizione di Cristo: nel quadro di questa visione trascendente egli è il Figlio prediletto e unico di Dio.




venerdì 8 gennaio 2016

VISITA DEI MAGI E LA FUGA IN EGITTO


Subito dopo, (Cap. 2), si apre la scena solenne della visita dei Magi. Su di essi, diversamente da quanto farà la tradizione successiva, Matteo è molto sobrio. La stella stessa, più che a rimandare a particolari fenomeni astrofisici, ha un valore religioso, essendo nella tradizione giudaica un «segno» "messianico" (come lo sarà nell’Apocalisse). Ciò che è decisivo per l’incontro di questi personaggi, che incarnano l’orizzonte universale dell’umanità, sarà infatti la profezia di Michea (5,1) su Betlemme, patria di Davide. 

I Magi, dunque, rappresentano tutti i popoli della terra che, alla luce della rivelazione cosmica (la stella) e di quella storica (la Bibbia con il profeta Michea), approdano all’incontro con Cristo. Ma attorno a questa scena di adorazione si addensa subito la reazione violenta del male. La strage dei bambini  di Betlemme certo ben corrisponde alle numerose uccisioni che hanno accompagnato il regno di Erode, particolarmente sensibile alla tutela del suo potere e attento a ogni notizia di eventuali pretese o usurpazioni. Ma l’evangelista, citando il profeta Geremia (31,15), mostra che anche attorno a Cristo si sta attuando una vicenda di morte e di vita, così come era accaduto nella storia di Rachele, considerata come la Madre di Israele che piange le vittime del suo popolo. 

Anche la fuga in Egitto, che poteva essere solo un rifugio temporaneo verso le non lontane frontiere meridionali, è letta alla luce di un passo di Osea (11,1): Cristo è chiamato a rappresentare e a compiere in sé l’esodo che condurrà il popolo di Dio alla piena libertà. E questo esodo ha la sua attuazione quando, alla morte di Erode nel 4 a.C. (quindi Gesù dev’essere nato pochi anni prima, forse nel 7-6 a.C.), Giuseppe, «il bambino e sua madre» rientrano in Israele e si stabiliscono in Galilea, a Nazaret, località mai evocata nell’Antico Testamento. Matteo, però, che vuole considerare anche questo evento nel progetto divino di salvezza, parla di un detto profetico non identificabile: «Sarà chiamato Nazareno». Forse vuole genericamente rimandare al vocabolo ebraico assonante “nazir”, (consacrato) o a “neser” (germoglio), un simbolo messianico antico testamentario.  



GENEALOGIA DI GESU’ E LA SUA NASCITA


Come farà anche Luca, Matteo apre il suo vangelo con due capitoli dal taglio originale rispetto al resto della sua opera e, usando materiali preesistenti, elabora un profilo delle origini terrene e dell’infanzia di Gesù. Anche se il racconto contiene antiche memorie storiche, la figura che domina in queste pagine è già quella gloriosa di Cristo, colui che «salverà il suo popolo dai suoi peccati», colui che imprime pienezza alle Scritture di Israele, colui che è oggetto della lotta aspra del male, ma verso cui converge l’intera umanità. Sono, quindi, pagine che hanno una forte finalità teologica, anche se spesso la tradizione le ha colmate di colore e di sentimento (emblematici, in questo senso, sono i vangeli “apocrifi” sull’infanzia di Gesù, non riconosciuti dalla Chiesa). 

Matteo apre questa parte del suo vangelo con una genealogia di Cristo (Cap. 1) : essa risale ad Abramo e a Davide per sottolineare la qualità messianica, ma anche il legame che Gesù ha con la storia della salvezza aperta con il grande patriarca biblico. Gli anelli di questa genealogia sono articolati in «tre» tappe, ciascuna composta di «quattordici» generazioni: un evidente tentativo simbolico-numerico di delineare la perfezione e la pienezza (considerato il valore del “tre” e del “sette” nella Bibbia) del piano di salvezza che Dio porta a compimento in Cristo. I nomi, che nella terza sezione sono spesso oscuri, contengono elementi curiosi, come la menzione delle tre donne: Tamar (Genesi 38), Rut e Betsabea, moglie di Uria, sono state variamente interpretate, ma agli occhi dell’evangelista – più che al loro essere straniere – l’attenzione è rivolta forse al modo piuttosto eccezionale con cui esse furono incinte e generarono, anticipando, così, la vicenda stessa di Maria e di Cristo. 

La nascita di Gesù che subito segue la genealogia è, infatti, spiegata nel suo significato misterioso nell’annunciazione a Giuseppe. Egli deve accettare di essere il padre legale del figlio che Maria concepirà «per opera dello Spirito Santo», come l’angelo spiega due volte. La citazione del passo di Isaia 7,14 ha lo scopo di collocare questo evento all’interno del grande disegno di salvezza divino, già annunziato ai profeti e già in atto nella prima alleanza con Israele. Non per nulla il nome di Gesù rimanda al verbo ebraico “salvare”, come puntualizza l’angelo (1,21), e a lui si adatta in pienezza il titolo di "Emmanuele", cioè Dio-con-noi.    

  

giovedì 7 gennaio 2016

IL VANGELO SECONDO MATTEO (PREMESSA)


Nella storia della cristianità è stato senz’altro il vangelo più popolare, più letto e commentato e, anche se ora quello di Marco è considerato il primo in ordine cronologico, l’opera di Matteo rimane una presenza capitale all’interno della Chiesa, che la propone spesso nella liturgia e nella catechesi. Anche se originariamente i vangeli sono apparsi come scritti anonimi (nessun nome era degno di stare accanto a quello dell’unico protagonista, Gesù Cristo), ben presto il nome dell’apostolo Matteo (o Levi, che forse era un altro suo nome) fu attribuito a questo vangelo piuttosto ampio, composto nell’originale greco di 18.728 parole. 

Con Marco e Luca  è stato considerato uno dei “vangeli sinottici”, un termine col quale si vuole suggerire – attraverso lo “sguardo d’insieme” (in greco, “sinossi”) – una serie di paralleli e convergenze presenti nei «tre» testi e dovuti a fonti comuni. Tuttavia ciascun evangelista ha una sua prospettiva, segue un suo progetto, disegna un suo ritratto della figura di Cristo, risponde alle esigenze della comunità cui indirizza il racconto. Per Matteo si pensa a destinatari di origine ebraica convertiti al Cristianesimo, legati ancora alle loro radici, ma spesso in tensione con gli ambiti da cui provenivano. 

Si spiega, così, la  ricchezza delle citazioni, delle allusioni e dei rimandi all’Antico Testamento nel vangelo di Matteo. In questa linea si può interpretare il rilievo dato ai primi cinque libri biblici – conosciuti come Pentateuco o Torahe che costituiscono la legge per eccellenza. 

Gli insegnamenti di Gesù sono raccolti in «cinque» grandi discorsi: il primo ha come sfondo un monte – ed è perciò chiamato il “Discorso della Montagna” (cap. 5-7) – e può essere interpretato in riferimento al Sinai: Cristo non è venuto ad abolire la legge di Mosè ma a portarla a pienezza. 

Il regno di Dio è il tema centrale della predicazione e dell’azione di Gesù. Nel secondo discorso, detto “Missionario” (cap. 10), il regno è annunziato, accolto e rifiutato. Nel terzo, il discorso in “Parabole” (cap. 13), il regno è descritto nella sua crescita lenta ma inarrestabile nella storia. Nel quarto discorso “Comunitario” (cap. 18) è la Chiesa – un argomento caro a Matteo – che diventa il segno del regno durante il cammino della storia, nell’attesa che esso giunga a pienezza nella salvezza finale (quinto discorsoEscatologico”, cap.24). Un grandioso abbozzo della storia di Cristo, della Chiesa e del regno: questa è la meta dell’opera matteana.     


sabato 2 gennaio 2016

GESU’ CRISTO E’ IL VERBO DI DIO (VANGELO SECONDO GV)

















Il quarto vangelo ha ricevuto, a partire da Clemente Alessandrino (II-III secolo), la definizione di “vangelo spirituale”, una definizione che l’ha accompagnato nei secoli. Testo di alta qualità teologica, «il fiore dei vangeli», come lo chiamava un altro scrittore di Alessandria d’Egitto del III secolo, Origene, questo scritto rivela subito – anche al lettore che lo accosta per la prima volta – almeno due edizioni. Nei capitoli 20 e 21 si hanno, infatti, rispettivamente “due conclusioni”. Gli studiosi hanno voluto, allora, verificare all’interno del testo le tracce di una complessa vicenda “editoriale” che si è svolta in più tappe. 

Essa parte in ambiente palestinese da una tradizione orale legata all’apostolo Giovanni, negli anni successivi alla morte di Cristo e prima del 70, la data della distruzione di Gerusalemme, e si esprime in aramaico. Si ha, poi, una prima edizione del vangelo in greco, destinata a un nuovo pubblico: potrebbe essere quello dell’Asia Minore costiera, che aveva come centro principale la splendida città di Efeso. Alla stesura di questo scritto contribuisce un “evangelista” che raccoglie il messaggio dell’apostolo e lo adatta al nuovo pubblico (si pensi al mirabile inno al Logos, cioè al Verbo divino che è Cristo, destinato a fungere da prologo dell’intero vangelo). 

L’opera, che si concludeva nel capitolo 20, si svolgeva lungo due grandi movimenti: il primo (capitoli 1-12), spesso chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli emblematici scelti dall’evangelista per illustrare la figura di Cristo, rivelava il Figlio di Dio davanti al mondo, generando adesione e rifiuto. 

Il secondo movimento testuale (capitoli 13-20), spesso intitolato “Libro dell’ora”, cioè del momento glorioso e supremo della vita di Cristo offerta sulla croce, comprendeva la rivelazione del mistero profondo di Gesù ai discepoli (si pensi ai “discorsi di addio” dell’ultima cena, come sono chiamati i capitoli 13-17). 

Infine, come è attestato dal capitolo 21, si procedette a una nuova edizione sullo scorcio del I secolo e forse, in un brano allusivo (21,22-23), si fece riferimento anche alla morte dell’apostolo Giovanni, mentre la Chiesa proseguiva il suo cammino attraverso l’autorità pastorale affidata a Pietro dal Signore risorto (21,15-19). L’insieme del quarto vangelo costituisce un’opera altissima che ha al centro la figura di Cristo, presentata nella sua umanità e divinità con grande originalità teologica. Con Cristo deve confrontarsi l’umanità: i personaggi giovannei sono spesso figure emblematiche che incarnano l’adesione o il rifiuto, mentre tutta la storia si manifesta come la sede di un grande processo che vedrà Cristo glorioso e vincitore proprio nella condanna della crocifissione. 

«In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio... E il Logos carne divenne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Giovanni 1, 1-14). 

Il prologo del vangelo di Giovanni è affidato a un inno di straordinaria bellezza e densità, divenuto una delle pagine più celebri dell’intera Bibbia. L’avvio rimanda allusivamente e tematicamente all’inizio della «Genesi»: «In Principio….Dio ordinò…» (1,1.3). Il Cristo è presentato come «Logos» (Parola, Verbo), termine che rimanda alla cultura greca e precisamente ai filosofi Stoici, (per i quali indicava il principio creatore e ordinatore dell’universo) ma che ha le sue radici nell’Antico Testamento, che celebrava la parola creatrice divina, la sapienza del Signore che tutto ordina nell’armonia dell’essere. Cristo è, dunque, alle origini della realtà e della vita ed è nella pienezza della divinità. A questo primo momento ne succede un altro che rappresenta la storia della salvezza. 

L’immagine usata è quella, antitetica, della «Luce» e della «Tenebra», il cui scontro rappresenta la vicenda di Gesù Cristo, annunziato da Giovanni il Battista, che nell’inno appare due volte nella sua funzione di precursore (questa sottolineatura della dipendenza assoluta a Cristo ha fatto pensare ad alcuni studiosi che, qui e altrove, l’evangelista volesse riferirsi polemicamente ai gruppi che consideravano il Battista in una dimensione Messianica). L’ingresso di Cristo-Luce nella storia crea «Tensione» e «Rifiuto», ma anche accettazione nella «Fede». E’ quest’ultima, inoltre, a rendere gli uomini figli di Dio, «generati» dallo stesso Dio che è il padre di Gesù. 

L’ incarnazione di Cristo è espressa nel famoso versetto 14 con l’immagine della tenda («è venuto ad abitare», che in greco suona letteralmente: «ha posto la sua tenda»): il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in 2,18-22) è ora sostituito dalla «carne» di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi. Il «Logos», la parola eterna e infinita, entra nelle dimensioni umane dello spazio e del tempo, della vita e della morte. Il tema dell’incarnazione, centrale nel vangelo di Giovanni e nell’intero Nuovo Testamento, è particolarmente marcato negli scritti giovannei, probabilmente in reazione al sorgere delle dottrine gnostiche che negavano appunto il Verbo divino fatto «carne», volendolo conservare nella purezza assoluta della sua Trascendenza. 

L’inno si conclude con un’ulteriore testimonianza del Battista, che ribadisce il primato di Cristo che è «prima» di lui, anche se venuto cronologicamente «dopo» nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto «La Grazia e la Verità». La «Grazia» è la salvezza che viene effusa in pienezza: l’espressione : «Grazia su Grazia», più che suggerire una successione (prima l’Antico e poi il Nuovo Testamento o prima Cristo e poi lo Spirito Santo), vuole indicare appunto un’effusione costante e piena della salvezza. La «Verità», invece, nel linguaggio Giovanneo è la «Rivelazione di Dio» e del suo «Mistero» che Cristo, «Figlio unigenito, che è nel seno del Padre», può donare al mondo senza riserve e con autenticità. 

Le «Tenebre» (1,5), nel linguaggio biblico, sono il simbolo della morte, del peccato e del potere del male. Ad esse si oppone la «Luce», simbolo di vita e salvezza. Nel Vangelo di Giovanni indicano il «Rifiuto» di Dio e la chiusura alla «Rivelazione» e alla «Salvezza» offerte da Gesù, come pure la condizione dell’uomo e del mondo lontani da Dio. 

«E il Verbo si è fatto Carne». (Giovanni 1,14) contiene espressioni che si ispirano alla mentalità semitica. «Carne» indica la condizione dell’uomo nella sua debolezza e fragilità. L’espressione: «ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» è la traduzione del greco: «eskenosen en emin», che allude alla «tenda» (in Greco, Skenè; in Ebraico, Shekinah) nella quale JHWH si rendeva presente al popolo di Israele in cammino nel deserto (Esodo 40,34-35). 

Logos significa “parola, verbo, discorso”, indica la comunicazione tipica dell’essere umano. Nella Bibbia, però, come ben sappiamo, la “parola” è qualcosa di più di quello che intendiamo noi occidentali: essa è anche l’azione con cui esprimiamo noi stessi, perciò il termine ebraico “dabar designa contemporaneamente la parola e l’atto. 

Non per nulla, nelle prime righe della Sacra Scrittura, leggiamo: «Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1,3). La parola divina esprime la persona stessa e l’opera del Creatore. In questa luce è arduo tradurre quel Logos che apre il prologo innico del Vangelo di Giovanni. Goethe, il famoso poeta tedesco, nel suo Faust fa tentare al protagonista diverse versioni che cerchino di esprimere le varie iridescenze di quel vocabolo greco: in tedesco, certo, è Wort, ossia “parola”, ma è anche Sinn, “significato” dell’essere e dell’esistere; è Kraft, “potenza” efficace e creatrice; e alla fine è Tat, cioè “atto”, evento pieno e perfetto, anzi persona in Cristo. 

L’Evangelista, quindi, tratteggia il mistero divino, glorioso e trascendente del Figlio di Dio che è «presso Dio ed è Dio». C’è, però, una svolta radicale che si manifesta in un incrocio tra due realtà che la cultura greca vedeva in opposizione, quasi in collisione tra loro, così da essere reciprocamente repellenti. Il Logos diventa sarx, “carne”. Ora, quest’altro termine greco definisce la fragilità della creatura, il suo essere finita, caduca, mortale, legata al tempo e allo spazio. 

Ecco, allora, quello che potremmo chiamare lo scandalo dell’Incarnazione. Il Logos divino, perfetto, infinito ed eterno diventa sarx, la “carne” umana, limitata, votata alla sequenza temporale, imprigionata nello spazio. Gesù, il Figlio di Dio, sarà appunto vincolato a una cultura, a una lingua, a un modo di vivere sociale, a un territorio e a un’epoca storica circoscritta. La sua realtà profonda di Logos divino è quasi compressa e umiliata fino all’esperienza della morte, che è per eccellenza la nostra carta d’identità di creature racchiuse in un perimetro di tempo e spazio. 

È ciò che esprimeva San Paolo in un inno incastonato nella Lettera ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina..., svuotò sé stesso, assumendo la condizione di servo, divenendo come gli uomini e presentandosi in forma umana; umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (2,6-8). Ed è ciò che a suo modo ha cantato anche uno scrittore agnostico come l’argentino Jorge Luis Borges in una sua poesia pubblicata nel 1969 e intitolata appunto Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo... / Vissi prigioniero di un corpo e di un’umile anima. / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e appeso a una croce». Un antico testo apocrifo cristiano metteva in bocca a Gesù queste parole: «Io, il Signore, divenni piccolo per potervi ricondurre in alto, donde siete caduti». 

Dopo il prologo, ha inizio la prima parte del vangelo di Giovanni, che si concluderà nel capitolo 12 e che è chiamata da alcuni commentatori il “Libro dei segni” perché l’evangelista vi distribuisce “sette segni”, cioè «sette miracoli» emblematici compiuti da Gesù. E’ il tempo della rivelazione di Gesù davanti ai “suoi”, cioè a Israele, e all’intera umanità. Come accadeva anche negli altri vangeli, entra in scena Giovanni il Battista, il cui profilo è disegnato in modo originale dal quarto evangelista. Egli insiste, infatti, nel ripetere che il Battista non è il Messia («Cristo»), ma solo colui che deve rivelare l’ingresso del Messia nella storia. 

E infatti, nel centro di Betania, «al di là del Giordano» (sconosciuto agli archeologi, ma forse da identificare con la località di Ennon-Sapsafas, in Transgiordania), Giovanni indica in Gesù «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Questa espressione allude al Servo sofferente del Signore, figura interpretata messianicamente dal cristianesimo, cantata da Isaia (capitolo 53) e presentata come l’agnello condotto al macello e capace di portare su di sé i peccati del popolo (Isaia 53,4.7). Naturalmente non manca anche il rimando all’agnello pasquale di Esodo 12,46 (vedi Giovanni 19,36). Lo Spirito Santo che «scende e rimane» su Gesù è il sigillo della sua messianicità, ma anche della sua divinità («Figlio di Dio»). 

Alla testimonianza del Battista subentra la chiamata dei primi discepoli che, anche in questo caso, Giovanni presenta in modo originale. Due sono le scene rappresentate. La prima ha come protagonisti due seguaci del Battista, Andrea e un innominato ebreo. Andrea coinvolge a sua volta nella sequela di Gesù suo fratello Simone Pietro: come in Matteo (16,16-18), è Gesù stesso a dare a Simone il nuovo nome aramaico di «Cefa», cioè “roccia”, Pietro. La scelta di seguire Gesù è fondata sul riconoscimento del suo essere Messia, parola che l’evangelista traduce nel greco «Cristo», cioè “consacrato”, e questo è il segno che il testo finale del vangelo è destinato a un orizzonte di lettori non ebrei (in 1,38 viene tradotta anche la parola «rabbì», «maestro»). 

La seconda scena di vocazione ha al centro un’altra coppia di discepoli, Filippo, concittadino di Pietro e Andrea, e Natanaele, una figura non meglio identificata, che la tradizione posteriore considererà come l’apostolo Bartolomeo. Gesù lo definisce un Ebreo autentico ed esemplare e lo descrive «sotto l’albero di fichi», forse un’allusione all’attività di maestro della legge (secondo il giudaismo il maestro insegnava sotto un fico). Natanaele pronunzia una professione di fede che fonde insieme divinità e messianicità: «tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele». Gesù, però, gli fa balenare un cammino di fede, in cui il discepolo scoprirà in profondità il mistero del Figlio dell’uomo e la sua grandezza trascendente.