venerdì 27 novembre 2015

LE QUATTRO VIRTU’ CARDINALI






















Quattro virtù hanno funzione di «Cardine». Per questo sono dette «Cardinali»; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza» (Sap 8,7). Sotto altri nomi, queste virtù sono lodate in molti passi della Scrittura. 

La «Prudenza» è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. L'uomo «accorto controlla i suoi passi» (Prv 14,15). «Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). La «Prudenza» è la «retta norma dell'azione», scrive San Tommaso sulla scia di Aristotele. Essa non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. È detta «auriga virtutum – cocchiere delle virtù »: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. È la «Prudenza» che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L'uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio. Grazie alla virtù della «Prudenza» applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare. 

La «Giustizia» è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La «Giustizia» verso Dio è chiamata «virtù di religione». La «Giustizia» verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità nei confronti delle persone e del “bene comune”. L'uomo giusto, di cui spesso si fa parola nei Libri Sacri, si distingue per l'abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo. «Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia» (Lv 19,15). «Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Col 4,1). 

La «Fortezza» è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della «Fortezza» rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa. «Mia forza e mio canto è il Signore» (Sal 118,14). «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). 

La «Temperanza» è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore. La «Temperanza» è spesso lodata nell'Antico Testamento: «Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri» (Sir 18,30). Nel Nuovo Testamento è chiamata «moderazione» o «sobrietà». Noi dobbiamo «vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (Tt 2,12). Vivere bene altro non è che amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, e con tutto il proprio agire. Gli si dà (con la Temperanza) un amore totale che nessuna sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la Fortezza), un amore che obbedisce a lui solo (e questa è la Giustizia), che vigila al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall'astuzia e dalla menzogna (e questa è la Prudenza).

















sabato 21 novembre 2015

LE TRE VIRTU’ TEOLOGALI




Le virtù umane si radicano nelle «virtù teologali», le quali rendono le facoltà dell'uomo idonee alla partecipazione alla natura divina. Le «virtù teologali», infatti, si riferiscono direttamente a Dio. Esse dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino. Le «virtù teologali» fondano, animano e caratterizzano l'agire morale del cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la «vita eterna». Sono il pegno della presenza e dell'azione dello “Spirito Santo” nelle facoltà dell'essere umano. “Tre” sono le «virtù teologali»: la «Fede», la «Speranza» e la «Carità».

La «Fede» è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Chiesa ci propone da credere, perché Dio è la stessa “verità”. Con la Fede «l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente». Per questo il credente cerca di conoscere e di fare la volontà di Dio. «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,17). La Fede viva «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Il dono della «Fede» rimane in colui che non ha peccato contro di essa. Ma «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Se non si accompagna alla «Speranza» e all'«Amore», la «Fede» non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo. Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la «Fede» e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla: «Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa». Il servizio e la testimonianza della «Fede» sono indispensabili per la salvezza: «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32-33).   

La «Speranza» è la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la «vita eterna» come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull'aiuto della grazia dello “Spirito Santo”. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso» (Eb 10,23). Lo “Spirito” è stato «effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,6-7). La virtù della «Speranza» risponde all'aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell'attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva dall'egoismo e conduce alla gioia della carità. La «Speranza cristiana» riprende e porta a pienezza la speranza del popolo eletto, la quale trova la propria origine ed il proprio modello nella «Speranza di Abramo», colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio. «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli» (Rm 4,18). La «Speranza» cristiana si sviluppa, fin dagli inizi della predicazione di Gesù, nell'annuncio delle beatitudini. Le “beatitudini” elevano la nostra «Speranza» verso il cielo come verso la nuova Terra promessa; ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù. Ma per i meriti di Gesù Cristo e della sua passione, Dio ci custodisce nella «Speranza» che «non delude» (Rm 5,5). La «Speranza» è l'«àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra» là «dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Eb 6,19-20). È altresì un'arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: «Dobbiamo essere rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,8). Essa ci procura la gioia anche nella prova: «Lieti nella speranza, forti nella tribolazione» (Rm 12,12). Si esprime e si alimenta nella preghiera, in modo particolarissimo nella preghiera del Signore, sintesi di tutto ciò che la «Speranza» ci fa desiderare. Noi possiamo, dunque, sperare la gloria del cielo promessa da Dio a coloro che lo amano e fanno la sua volontà. In ogni circostanza ognuno deve sperare, con la grazia di Dio, di perseverare sino alla fine e ottenere la gioia del cielo, quale eterna ricompensa di Dio per le buone opere compiute con la grazia di Cristo. Nella «Speranza» la Chiesa prega che «tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2,4).

La «Carità» è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. Gesù fa della «Carità» il comandamento nuovo. Amando i suoi «sino alla fine» (Gv13,1), egli manifesta l'amore che riceve dal Padre. Amandosi gli uni gli altri, i discepoli imitano l'amore di Gesù, che essi ricevono a loro volta. Per questo Gesù dice: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). E ancora: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12). La «Carità», frutto dello “Spirito” e pienezza della Legge, osserva i comandamenti di Dio e del suo Cristo: «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,9-10). Cristo è morto per amore verso di noi, quando eravamo ancora «nemici» (Rm 5,10). Il Signore ci chiede di amare come lui, perfino i nostri nemici, di farci prossimo del più lontano, di amare i bambini e i poveri come lui stesso. L'Apostolo San Paolo ha dato un ineguagliabile quadro della «Carità»: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7). Se non avessi la carità, dice ancora l'Apostolo, «non sono nulla». E tutto ciò che è privilegio, servizio, perfino virtù... senza la carità, «niente mi giova». La «Carità» è superiore a tutte le virtù. È la prima delle virtù teologali: «Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13). L'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla «Carità». Questa è il «vincolo di perfezione» (Col 3,14); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro pratica cristiana. La «Carità» garantisce e purifica la nostra capacità umana di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino. La pratica della vita morale animata dalla «Carità» dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come il mercenario in cerca del salario, ma come un figlio che corrisponde all'amore di colui che «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19). La «Carità» ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la reciprocità, si dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione: «Il compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il nostro fine; per questo noi corriamo, verso questa meta corriamo; quando saremo giunti, vi troveremo riposo ». 

giovedì 19 novembre 2015

TIMOR DI DIO


Il dono del «Timore di Dio», di cui parliamo oggi, conclude la serie dei «sette» doni dello “Spirito Santo”. Non significa avere paura di Dio: sappiamo bene che Dio è Padre, e che ci ama e vuole la nostra salvezza, e sempre perdona, sempre; per cui non c’è motivo di avere paura di Lui! Il «Timore di Dio», invece, è il dono dello “Spirito” che ci ricorda quanto siamo piccoli di fronte a Dio e al suo amore e che il nostro bene sta nell’abbandonarci con umiltà, con rispetto e fiducia nelle sue mani. Questo è il «Timore di Dio»: l’abbandono nella bontà del nostro Padre che ci vuole tanto bene. 

Quando lo “Spirito Santo” prende dimora nel nostro cuore, ci infonde consolazione e pace, e ci porta a sentirci così come siamo, cioè piccoli, con quell’atteggiamento - tanto raccomandato da Gesù nel Vangelo - di chi ripone tutte le sue preoccupazioni e le sue attese in Dio e si sente avvolto e sostenuto dal suo calore e dalla sua protezione, proprio come un bambino con il suo papà! Questo fa lo “Spirito Santo” nei nostri cuori: ci fa sentire come bambini nelle braccia del nostro papà. 

In questo senso, allora, comprendiamo bene come il «Timore di Dio» venga ad assumere in noi la forma della docilità, della riconoscenza e della lode, ricolmando il nostro cuore di speranza. Tante volte, infatti, non riusciamo a cogliere il disegno di Dio, e ci accorgiamo che non siamo capaci di assicurarci da noi stessi la felicità e la vita eterna. È proprio nell’esperienza dei nostri limiti e della nostra povertà, però, che lo “Spirito” ci conforta e ci fa percepire come l’unica cosa importante sia lasciarci condurre da Gesù fra le braccia di suo Padre. 

Ecco perché abbiamo tanto bisogno di questo dono dello “Spirito Santo”. Il «Timore di Dio» ci fa prendere coscienza che tutto viene dalla grazia e che la nostra vera forza sta unicamente nel seguire il Signore Gesù e nel lasciare che il Padre possa riversare su di noi la sua bontà e la sua misericordia. Aprire il cuore, perché la bontà e la misericordia di Dio vengano a noi. Questo fa lo “Spirito Santo” con il dono del «Timore di Dio»: apre i cuori. Cuore aperto affinché il perdono, la misericordia, la bontà, le carezza del Padre vengano a noi, perché noi siamo figli infinitamente amati. 

Quando siamo pervasi dal «Timore di Dio», allora siamo portati a seguire il Signore con umiltà, docilità e obbedienza. Questo, però, non con atteggiamento rassegnato, passivo, anche lamentoso, ma con lo stupore e la gioia di un figlio che si riconosce servito e amato dal Padre. Il «Timore di Dio», quindi, non fa di noi dei cristiani timidi, remissivi, ma genera in noi coraggio e forza! È un dono che fa di noi cristiani convinti, entusiasti, che non restano sottomessi al Signore per paura, ma perché sono commossi e conquistati dal suo amore! Essere conquistati dall’amore di Dio! E questo è una cosa bella. Lasciarci conquistare da questo amore di papà, che ci ama tanto, ci ama con tutto il suo cuore. 

Ma, stiamo attenti, perché il dono di Dio, il dono del «Timore di Dio» è anche un “allarme” di fronte alla pertinacia nel peccato. Quando una persona vive nel male, quando bestemmia contro Dio, quando sfrutta gli altri, quando li tiranneggia, quando vive soltanto per i soldi, per la vanità, o il potere, o l’orgoglio, allora il santo «Timore di Dio» ci mette in allerta: attenzione! Con tutto questo potere, con tutti questi soldi, con tutto il tuo orgoglio, con tutta la tua vanità, non sarai felice. Nessuno può portare con sé dall’altra parte né i soldi, né il potere, né la vanità, né l'orgoglio. Niente! Possiamo soltanto portare l’amore che Dio Padre ci dà, le carezze di Dio, accettate e ricevute da noi con amore. E possiamo portare quello che abbiamo fatto per gli altri. Attenzione a non riporre la speranza nei soldi, nell’orgoglio, nel potere, nella vanità, perché tutto ciò non può prometterci niente di buono! 

Pensiamo per esempio alle persone che hanno responsabilità sugli altri e si lasciano corrompere; voi pensate che una persona corrotta sarà felice dall’altra parte? No, tutto il frutto della sua corruzione ha corrotto il suo cuore e sarà difficile andare dal Signore. Pensiamo a coloro che vivono della tratta di persone e del lavoro schiavo; voi pensate che questa gente che tratta le persone, che sfrutta le persone con il lavoro schiavo ha nel cuore l’amore di Dio? No, non hanno «Timore di Dio» e non sono felici. Non lo sono. Pensiamo a coloro che fabbricano armi per fomentare le guerre; ma pensate che mestiere è questo. Questi fabbricatori di armi non vengono a sentire la Parola di Dio! Questi fabbricano la morte, sono mercanti di morte e fanno mercanzia di morte. Che il «Timore di Dio» faccia loro comprendere che un giorno tutto finisce e che dovranno rendere conto a Dio. 

Il Salmo 34 ci fa pregare così: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce. L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera» (vv. 7-8). Chiediamo al Signore la grazia di unire la nostra voce a quella dei poveri, per accogliere il dono del «Timore di Dio» e poterci riconoscere, insieme a loro, rivestiti della misericordia e dell’amore di Dio, che è il nostro Padre, il nostro papà.

domenica 15 novembre 2015

PIETA'


Oggi vogliamo soffermarci su un dono dello “Spirito Santo” che tante volte viene frainteso o considerato in modo superficiale, e invece tocca nel cuore la nostra identità e la nostra vita cristiana: si tratta del dono della «Pietà». Bisogna chiarire subito che questo dono non si identifica con l’avere compassione di qualcuno, avere pietà del prossimo, ma indica la nostra appartenenza a Dio e il nostro legame profondo con Lui, un legame che dà senso a tutta la nostra vita e che ci mantiene saldi, in comunione con Lui, anche nei momenti più difficili e travagliati. 

Questo legame col Signore non va inteso come un dovere o un’imposizione. È un legame che viene da dentro. Si tratta di una relazione vissuta col cuore: è la nostra amicizia con Dio, donataci da Gesù, un’amicizia che cambia la nostra vita e ci riempie di entusiasmo, di gioia. Per questo, il dono della «Pietà» suscita in noi innanzitutto la gratitudine e la lode. È questo infatti il motivo e il senso più autentico del nostro culto e della nostra adorazione. Quando lo “Spirito Santo” ci fa percepire la presenza del Signore e tutto il suo amore per noi, ci riscalda il cuore e ci muove quasi naturalmente alla preghiera e alla celebrazione. «Pietà», dunque, è sinonimo di autentico spirito religioso, di confidenza filiale con Dio, di quella capacità di pregarlo con amore e semplicità che è propria delle persone umili di cuore. 

Se il dono della «Pietà» ci fa crescere nella relazione e nella comunione con Dio e ci porta a vivere come suoi figli, nello stesso tempo ci aiuta a riversare questo amore anche sugli altri e a riconoscerli come fratelli. E allora sì che saremo mossi da sentimenti di «Pietà» – non di pietismo! – nei confronti di chi ci sta accanto e di coloro che incontriamo ogni giorno. Perché non di pietismo? Perché alcuni pensano che avere pietà è chiudere gli occhi, fare una faccia da immaginetta, far finta di essere come un santo. In piemontese si dice: fare la “mugna quacia”. 

Questo non è il dono della «Pietà». Il dono della «Pietà» significa essere davvero capaci di gioire con chi è nella gioia, di piangere con chi piange, di stare vicini a chi è solo o angosciato, di correggere chi è nell’errore, di consolare chi è afflitto, di accogliere e soccorrere chi è nel bisogno. C'è un rapporto molto stretto fra il dono della «Pietà» e la mitezza. Il dono della «Pietà» che ci dà lo “Spirito Santo” ci fa miti, ci fa tranquilli, pazienti, in pace con Dio, al servizio degli altri con mitezza. 

Nella Lettera ai Romani l’apostolo Paolo afferma: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,14-15). 

Chiediamo al Signore che il dono del suo “Spirito” possa vincere il nostro timore, le nostre incertezze, anche il nostro spirito inquieto, impaziente, e possa renderci testimoni gioiosi di Dio e del suo amore, adorando il Signore in verità e anche nel servizio del prossimo con mitezza e col sorriso che sempre lo “Spirito Santo” ci dà nella gioia. Che lo “Spirito Santo” dia a tutti noi questo dono di «Pietà».

venerdì 13 novembre 2015

SCIENZA


Oggi mettiamo in luce un altro dono dello “Spirito Santo”, il dono della «Scienza». Quando si parla di «Scienza», il pensiero va immediatamente alla capacità dell’uomo di conoscere sempre meglio la realtà che lo circonda e di scoprire le leggi che regolano la natura e l’universo. La «Scienza» che viene dallo “Spirito Santo”, però, non si limita alla conoscenza umana: è un dono speciale, che ci porta a cogliere, attraverso il creato, la grandezza e l’amore di Dio e la sua relazione profonda con ogni creatura. 

Quando i nostri occhi sono illuminati dallo “Spirito”, si aprono alla contemplazione di Dio, nella bellezza della natura e nella grandiosità del cosmo, e ci portano a scoprire come ogni cosa ci parla di Lui e del suo amore. Tutto questo suscita in noi grande stupore e un profondo senso di gratitudine! È la sensazione che proviamo anche quando ammiriamo un’opera d’arte o qualsiasi meraviglia che sia frutto dell’ingegno e della creatività dell’uomo: di fronte a tutto questo, lo “Spirito” ci porta a lodare il Signore dal profondo del nostro cuore e a riconoscere, in tutto ciò che abbiamo e siamo, un dono inestimabile di Dio e un segno del suo infinito amore per noi. 

Nel primo capitolo della Genesi, proprio all’inizio di tutta la Bibbia, si mette in evidenza che Dio si compiace della sua creazione, sottolineando ripetutamente la bellezza e la bontà di ogni cosa. Al termine di ogni giornata, è scritto: «Dio vide che era cosa buona» (1,12.18.21.25): se Dio vede che il creato è una cosa buona, è una cosa bella, anche noi dobbiamo assumere questo atteggiamento e vedere che il creato è cosa buona e bella. Ecco il dono della «Scienza» che ci fa vedere questa bellezza, pertanto lodiamo Dio, ringraziamolo per averci dato tanta bellezza. E quando Dio finì di creare l’uomo non disse «vide che era cosa buona», ma disse che era «molto buona» (v. 31). Agli occhi di Dio noi siamo la cosa più bella, più grande, più buona della creazione: anche gli angeli sono sotto di noi, noi siamo più degli angeli, come abbiamo sentito nel libro dei Salmi. 

Il Signore ci vuole bene! Dobbiamo ringraziarlo per questo. Il dono della «Scienza» ci pone in profonda sintonia con il Creatore e ci fa partecipare alla limpidezza del suo sguardo e del suo giudizio. Ed è in questa prospettiva che riusciamo a cogliere nell’uomo e nella donna il vertice della creazione, come compimento di un disegno d’amore che è impresso in ognuno di noi e che ci fa riconoscere come fratelli e sorelle. 

Tutto questo è motivo di serenità e di pace e fa del cristiano un testimone gioioso di Dio, sulla scia di san Francesco d’Assisi e di tanti santi che hanno saputo lodare e cantare il suo amore attraverso la contemplazione del creato. Allo stesso tempo, però, il dono della «Scienza» ci aiuta a non cadere in alcuni atteggiamenti eccessivi o sbagliati. Il primo è costituito dal rischio di considerarci padroni del creato. Il creato non è una proprietà, di cui possiamo spadroneggiare a nostro piacimento; né, tanto meno, è una proprietà solo di alcuni, di pochi: il creato è un dono, è un dono meraviglioso che Dio ci ha dato, perché ne abbiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con grande rispetto e gratitudine. Il secondo atteggiamento sbagliato è rappresentato dalla tentazione di fermarci alle creature, come se queste possano offrire la risposta a tutte le nostre attese. Con il dono della «Scienza», lo “Spirito” ci aiuta a non cadere in questo sbaglio. 

Ma ritorniamo sulla prima via sbagliata: spadroneggiare sul creato invece di custodirlo. Dobbiamo custodire il creato poiché è un dono che il Signore ci ha dato, è il regalo di Dio a noi; noi siamo custodi del creato. (vedi post Luglio 2015 - L'uomo custode della natura) Quando noi sfruttiamo il creato, distruggiamo il segno dell’amore di Dio. Distruggere il creato è dire a Dio: “non mi piace”. E questo non è buono: ecco il "peccato". 

La custodia del creato è proprio la custodia del dono di Dio ed è dire a Dio: “grazie, io sono il custode del creato ma per farlo progredire, mai per distruggere il tuo dono. Questo deve essere il nostro atteggiamento nei confronti del creato: custodirlo perché se noi distruggiamo il creato, il creato ci distruggerà! Non dimentichiamo questo. Questo deve farci pensare e deve farci chiedere allo “Spirito Santo” il dono della «Scienza» per capire bene che il creato è il più bel regalo di Dio. Egli ha fatto tante cose buone per la cosa più buona che è la persona umana.