martedì 24 febbraio 2015

BENEDETTO CROCE



Muovendo,così come Gentile, dal confronto con l’Idealismo hegeliano, Croce opera a sua volta una propria revisione della dialettica, basata sulla distinzione di quattro «Forme» fondamentali dello «Spirito». Un nesso molto stretto viene posto inoltre tra la «Filosofia dello Spirito» e la Storia, fino a configurare uno storicismo «Assoluto» e onnicomprensivo. Sul piano politico, inoltre, la sua figura ha rappresentato un punto di riferimento esemplare per l’antifascismo durante gli anni della dittatura. l’intuizione capitale del Croce consiste appunto nell’identità di Storia e di Filosofia (e, vorremmo aggiungere, nella sciagurata riduzione della Filosofia alla Storia). 
Croce, infatti, intende la «teoria», che culmina nella Filosofia, come un lato solo della vita dello «Spirito». L’altro lato è la «pratica», o se si vuole, l’«azione». Lo spirito universale e storico deve, cioè, essere rappresentato come la sinergia vivente di «teoria e prassi». Propriamente, secondo Croce, «con la forma teoretica l’uomo comprende le cose, con la forma pratica le viene mutando; con l’una si appropria dell’universo, con l’altra lo crea». Croce riconosce, in altri termini, ne – La Storia come pensiero e come azione – che «L’antica distinzione di conoscenza e volontà, di pensiero e azione, rimane intatta». 
Ma questa distinzione dello «Spirito» in teoretico e pratico non è l’unica. V’è un’ulteriore distinzione, che attraversa tanto la «teoria» quanto la «pratica», a seconda che lo «Spirito» prenda a proprio contenuto il particolare o l’universale. Secondo Croce, quando lo «Spirito» teoretico si volge all’universale, produce il «vero», quando si volge al particolare, produce il «bello». Quando è poi lo «Spirito» pratico a volgersi all’universale, si fa il «bene» e quando tale «Spirito» si volge al particolare si persegue l’«utile». Il «vero» è studiato dalla Logica, il «bello» dall’Estetica; il «bene» è studiato dall’Etica, l’«utile» infine dall’Economia. Fra queste quattro «Forme» (o «distinti» o «categorie») dello Spirito, Croce stabilisce anche un ordine di precedenza. La sfera del conoscere o teoretica precede la sfera pratica; all’interno di ciascuna di queste due sfere, la relazione dello «Spirito» al particolare precede la relazione all’universale. 
Benedetto Croce  si faceva beffe non già della «Logica» (o della matematica), ma della pretesa che la «Logica» (o la matematica) sia una forma di conoscenza (o addirittura la forma suprema). Per Croce, infatti, la «Logica» non e' «Conoscenza», ed egli parla della «Nullità filosofica» della «Logica», ma e' un'azione «Utile», ha cioè un carattere «Pratico». Prima ancora di aiutare l'azione dell'uomo, la «Logica» e' essa stessa azione. In generale, il compito proprio delle scienze «non e' teoretico ma pratico ed economico». 
La «Logica» non e' «conoscenza», perché «conoscenza», per Croce, e' sinonimo di Verità universale e necessaria, e la «Logica» non e' una Verità siffatta. Ricordiamo che la posizione di Croce rispetto alla «Logica» e alla Scienza e' sostanzialmente identica, ma in modo autonomo, a quella di gran parte della epistemologia contemporanea: di quella epistemologia in nome della quale si usa collocare la Filosofia di Croce, e in generale l'idealismo, nel novero degli atteggiamenti incivili. 
La Scienza stessa, oggi, non intende essere «conoscenza» di Verità assolute. Ne viene che il motivo ultimo e decisivo, sebbene a volte inconfessato, per il quale le ipotesi scientifico, tecnologiche e gli assiomi logico, matematici sono adottati, non e' dato dalla loro Verità universale e necessaria, ma dal fatto che la loro adozione consente una «Potenza» sul mondo, superiore a quella di altre forme culturali (o addirittura di tutte), come ad esempio la Magia, l'Arte, la Divinazione, la Religione. 
Quelle ipotesi ed assiomi sono adottati, cioè, appunto per il loro carattere «pratico o economico». In questa prospettiva, e, certo, con accentuazioni e consapevolezze diverse, si muovevano, conosciuti da Croce, Mach e Poincare' (e il filosofo Bergson), e poi si muoveranno il neopositivismo logico e l'intuizionismo matematico di Brouwer, e poi Wittgenstein e Popper e i postpopperiani. Lo stesso Russell riconosce che nella fondazione «Logica» della matematica «Non si può mai arrivare all'infallibilità» e perciò qualche elemento di dubbio rimane sempre legato a tutti gli assiomi e alle loro conseguenze; ed egli allude spesso al carattere pratico di certe sue tesi. 
La differenza tra Croce e la maggior parte di queste posizioni non riguarda tanto il modo in cui esse intendono la Scienza, ma la gerarchia in cui la Scienza viene collocata. La differenza e' data cioè dall'idealismo di Croce. Per l'idealismo, alla Scienza non compete una Verità assoluta (Heidegger avrebbe detto, con qualche analogia, che «la scienza non pensa»); ma, per l'idealismo, al di sopra della Scienza c'e' la Filosofia, che, essa sì, e' la conoscenza della Verità assoluta. Per Croce, daccapo in sintonia con la maggior parte del pensiero contemporaneo, e spesso in anticipo, la Verità assoluta affermata dalla Filosofia non e' poi altro che il «divenire» e la distruzione di ogni conoscenza che presuma essere una Verità assoluta , e dunque e' il «divenire» e la distruzione di ogni Verità Scientifica, Logica, Matematica e Filosofica (Vedi Post Marzo 2014 - Il Divenire -  e  Maggio 2014 - la Fede nel Divenire). 
Tale «divenire» e' chiamato da Croce e da Gentile «Spirito»; ed entrambi, ancora sulla scorta di Hegel, chiamano «Logica» la comprensione dell'essenza dello «Spirito». Una logica certo molto diversa da quella dei logici matematici. Ma, tirate le somme, bisogna dire che Croce e Gentile , e innanzitutto Hegel , della Logica formale o matematica sapessero molto di più di quanto i logici matematici e gli storici della Scienza oggi non sappiano della grande «Logica» dell'idealismo. Ma da noi che si fa? Prima si riduce la nostra Filosofia a un fantoccio, poi, con la solita genuflessione, si conclude che Filosofia interessante e originale e' quella degli altri. 
Ma chi giudica così, non considera forse sé stesso come il super esperto in Filosofia e dunque come il super filosofo mondiale? Che se invece riconosce, come in effetti e' accaduto, di essere un «chiacchierone», perché non dovrebbe essere una chiacchierata il suo discorso su quel che e' originale e su quel che non lo e'?







giovedì 19 febbraio 2015

GIOVANNI GENTILE


La Filosofia di Gentile è fondata su un recupero critico del pensiero di Hegel e, in particolare, su una «riforma» della dialettica, volta a ristabilire la priorità dello «Spirito», concepito come Pensiero in atto: da ciò la denominazione di «Attualismo», assunta per designare questa posizione. 
Il suo Idealismo si qualifica come «attualistico» perché «non concepisce lo Spirito come una sostanza (allusione alla metafisica antica, ma anche alla metafisica moderna, certamente a Cartesio) né il Pensiero come attributo di una sostanza (allusione a Spinoza), ma lo Spirito fa coincidere appunto col Pensiero e il Pensiero intende non come quel Pensiero che l’uomo possa o debba pensare, ma come quello che pensa attualmente, e che è tutto nello stesso atto di pensare. Atto che realizza il nostro essere spirituale, come il solo essere di cui si possa in concreto parlare». Si può dire che tutta la riflessione gentiliana sia l’analisi di questo nucleo decisivo, cioè appunto dell’attività del pensare. 

I rapporti tra Gentile e il regime fascista sono stati oggetto di molte discussioni, polemiche e interpretazioni spesso discordanti. Il filosofo ebbe un ruolo rilevante nel fornire una giustificazione ideologica allo «Stato Totalitario» e nel definirne le linee della politica «culturale e scolastica». Come organizzatore di iniziative culturali (Enciclopedia Italiana), Gentile mostrò, tuttavia, una certa apertura e liberalità. Dopo il 25 luglio 1943 il filosofo si lasciò convincere a prendere posizione e ad operare a favore della repubblica fascista di Salò: un impegno che avrebbe pagato con la vita. 
Il Fascismo volle essere un «Ordinamento Assoluto» capace di resistere all'azione demolitrice della storia. L' illusione di ogni Assolutismo. Ma nell' Enciclopedia Italiana Mussolini scriveva di non avere avuto all'inizio nessuno specifico piano dottrinale e che la sua era la dottrina dell'«Azione»: il Fascismo nacque da un bisogno di «Azione» e fu «Azione». Ora, i piani dottrinali prescrivono le norme dell' «Azione» e quindi mirano a dominarla. Tendono a dar vita a «Ordinamenti Assoluti». L' «Azione», invece, e' cambiamento, tanto più incisivo quanto più la realtà da cambiare e' il prodotto di un piano dottrinale e quanto più quest'ultimo pretende di essere un «Ordinamento Assoluto» e inoltrepassabile. 
L' «Azione del Fascismo» che, come tale, doveva essere il rovesciamento di ogni piano, ha finito così col concepire se stessa come un piano, un «Ordinamento», un regime «Assoluto». Se il regime fascista e' una forma di Assolutismo, il principio fondamentale della Filosofia di Giovanni Gentile, l' «Attualismo», e' invece la negazione più radicale di ogni Assolutismo. Con pochi altri, Gentile, e indubbiamente con Heidegger, il cui rapporto col nazionalsocialismo e' profondamente simile a quello di Gentile col Fascismo, si trova al culmine del processo lungo il quale la cultura contemporanea, innanzi tutto quella filosofica, perviene alla distruzione di ogni «Assoluto». Il rifiuto di ogni «Assoluto» e' il tratto più caratteristico della cultura contemporanea. L'«Assoluto» e' ciò che si ritiene sciolto da ogni dipendenza dal divenire del mondo. La Filosofia contemporanea, nella sua essenza, afferma che il divenire ha la capacità di travolgere ogni «Assoluto». In ogni campo: Sociale, Morale, Religioso, Economico, Politico e Giuridico, Artistico, Scientifico, Filosofico. 
Tutta la cultura laica antifascista e' profondamente imbevuta di questo spirito anti assolutistico. Anche e soprattutto in Italia ogni forma di laicismo antifascista dovrebbe rendersi conto di avere le proprie radici più profonde ed autentiche nel principio essenziale della Filosofia di Gentile. La mia dottrina era la dottrina dell' «Azione», scriveva Benito Mussolini. Ma e' stato Gentile a dire al Fascismo come dovesse intendere l'«Azione». 
Sul piano pratico, Gentile e' stato poco ascoltato, ma su quello teorico non e' stato lui a essere fascista, ma e' stato il Fascismo a tentare, fallendo, di essere gentiliano. Gentile dice al Fascismo che, nella sua essenza, l' «Azione» e' l'atto dello «Spirito». L' atto, soltanto nel quale il divenire del mondo e' reale. L' «Azione» autentica e' l'atto del pensiero umano, che come la luce del giorno apre lo spazio all'interno del quale si producono tutte le opere e tutti gli eventi, e che dunque non ha nulla a che vedere col pensiero che la Scienza assume come oggetto di indagine. 
E l'atto e' la Liberta' , il processo in cui l' uomo si libera da ogni tirannia. Inevitabile, quindi, che Gentile non attribuisse un valore «Assoluto» alle forme dogmatiche del Cristianesimo e quindi all'insegnamento della Chiesa cattolica. Con i Patti Lateranensi Mussolini tradì la riforma che Gentile, ministro della Pubblica Istruzione, aveva realizzato nel 1923, introducendo l'insegnamento della Religione nelle scuole elementari, ma solo in quelle, perché poi la scuola avrebbe dovuto far maturare nei giovani la coscienza critica che si porta oltre la fase mitico religiosa dell'educazione. 
Mussolini volle invece che l'educazione cattolica fosse estesa a tutta la scuola media superiore. La forte reazione di Giovanni Gentile contribuì, forse in modo determinante, a impedire che in quella occasione prendesse piede la proposta di padre Agostino Gemelli di rendere cattolico tutto l'insegnamento della Filosofia in Italia. 
Ma intanto il Fascismo non era più «Azione»: era diventato un sistema Assolutistico, nel cui ordinamento rientrava anche la riaffermazione della Religione cattolica come sola Religione dello Stato (articolo 1 del Trattato col Vaticano). Gentile si e' legato al Fascismo perché ha creduto di vedere in esso lo strumento più idoneo per rispondere alle tendenze e ai bisogni degli individui, secondo i loro effettivi interessi. Che non sono quelli dell'individualismo illuministico, ma quelli in cui la vita dell'individuo non rimane separata, ma si unisce alla vita dello «Spirito». 
Un esperimento, per Gentile, il Fascismo, i cui sforzi di liberare l'individuo nel divenire dello «Spirito» non sarebbero andati perduti, per Gentile, ma che intanto si presentavano a lui viziati nelle forme provvisorie di applicazione dalle necessità transeunti del momento politico. Nell'esperimento in cui restavano negate le Libertà della democrazia parlamentare, egli vedeva lo strumento per spianare la strada alla Libertà autentica. Ma il Fascismo ha posto il proprio centro proprio in quelle forme provvisorie e transeunti, che sono rimaste attaccate al pensiero di Gentile e alla sua persona come al ramo possono restare attaccate le foglie secche. Pensando forse alla propria vicenda, così simile a quella di Gentile, Heidegger ha scritto che solo «chi pensa con grandezza si trova costretto a errare grandemente». 
Giovanni Gentile fu assassinato perché era la voce più autorevole e convincente del Fascismo. Eppure la sua Filosofia è la negazione più radicale di ciò che il Fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti , non è esagerato dire la più potente, del pensiero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto. Forse gli assassini di Gentile non lo sapevano neppure. 
Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai riconoscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’«Attualismo» gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della Tecnica: rende possibile il dominio planetario della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. 
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensare, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: divenga . Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabile solo provvisoriamente. (Vedi Post Marzo 2014 Il Tramonto della Verità assoluta
Esser convinti dell’inesistenza di ogni «verità assoluta» è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere «immutabile» ed «Eterno». «Dio è morto», si dice (Vedi Post Marzo 2014 I Responsabili della morte di Dio). La negazione di ogni verità assoluta e innegabile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed Eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro «Eterno». Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il Fascismo, come ogni assolutismo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato). 
Che Il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» significa che se ne fa esperienza. Ma chi crede che la morte sia un andare nel «nulla» non crede (è impossibile che creda) che l’uomo vada nel «nulla» ma, insieme, continui ad essere un «fatto» che appartiene al contenuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientarsi. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel «nulla», e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il «fatto» in cui consisteva il loro esser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia annientamento crede che, pur avendo avuto esperienza dell’agonia e del cadavere, ciò che è diventato «niente» sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un «fatto». Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’esperienza, e quindi mostri che esso è diventato «niente» . Di questa sorte l’esperienza non può che tacere. Cioè l’annientamento non può essere un «fatto». (E se il cadavere viene bruciato e, come si dice, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto, esce dall’esperienza, anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che esso, diventando cenere, sia diventato «niente» non può essere l’esperienza ad attestarlo) (Vedi anche Post Gennaio 2015 Senso del Tutto e problema del Nulla). 
Ci si convince dunque che la morte è annientamento non sulla base dell’esperienza, ma sulla base di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano colpiti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la riflessione filosofica sul «nulla», si pensa che ciò che non ritorna sia diventato «niente» e si crede di sperimentarne l’annientamento. 

Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «Teoria generale dello Spirito», dimostra nel modo più radicale l’impossibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel «niente». Ma, appunto, si tratta di una dimostrazione, di una «Teoria», non della constatazione di un «fatto».







sabato 14 febbraio 2015

FEUERBACH


Originatosi nel solco della cosiddetta «sinistra hegeliana», il pensiero di Ludwig Feuerbach – muovendo da una serrata critica del sistema di Hegel (di cui denuncia l’astrattezza e il formalismo) – approda, nelle opere più mature, a conclusioni ispirate da un radicale realismo empirico e, in particolare, da un integrale umanesimo materialistico. La sua celebre teoria dell’«Alienazione Religiosa» (l’uomo attribuisce, oggettivandoli, ad un essere altro certe istanze e aspirazioni alla perfezione e all’assoluto  che sono presenti in lui medesimo) costituirà una base importante per l’analisi di altri tipi di «Alienazione» in campo politico ed economico, influenzando il percorso filosofico del giovane Marx. 
All’inizio della sua riflessione protesta contro la velleità della «persona» di mantenersi contro lo «spirito»: ciò sarebbe una prova della vanità della coscienza contemporanea, incapace di dissolversi in Dio e nell’amore dell’intero, di accettare la morte come il sigillo della propria finitezza. La polemica contro la «persona» apre così la strada ad una critica della Religione nel suo significato di «strumento di salvezza» per l’uomo, critica che investe immediatamente anche gli attributi di Dio. E’ lo svuotamento del concetto di Dio che porta Feuerbach a respingere ogni conciliazione tra Filosofia e Dogmatica ed a porsi il problema della genesi del concetto di Dio, che egli vede nella «esaltata soggettività» dei cristiani, i quali, dopo avere alienato in Dio la loro «essenza umana», vogliono da lui riottenerla: «L’uomo nega se stesso, ma soltanto per tornare a porsi, e in un aspetto tanto più glorioso; quanto più egli si umilia, tanto più ascende agli occhi di Dio». E ancora: «L’uomo oggettiva a sé la propria essenza, e poi torna a rendere se stesso oggetto di questa essenza oggettivata, trasmutata in un soggetto». 
Che un uomo faccia certe cose dipende dalla sua «Volontà» di farle. E, questo, il principio in base al quale Aristotele rifiuta il fatalismo. Ma che l'uomo voglia fare certe cose dipende daccapo dalla sua «Volontà». Nella Filosofia classica tedesca già Kant aveva risposto negativamente: la «Libertà del volere» e' sì qualcosa in cui chi agisce moralmente deve credere, ma non e' una Verità che possa essere conosciuta dalla ragione umana. In Schopenhauer, poi, la risposta negativa di Kant abbandona ogni riserva. E appunto alla posizione di Schopenhauer si rifà , nonostante tutto, l' ultimo Feuerbach, nel suo scritto Spiritualismo e Materialismo (1866). «Certamente io posso uccidermi quando voglio uccidermi; ma che io lo voglia non dipende dal puro volere, non rientra nella mia libertà. Io posso volere la morte solo quando essa e' per me una necessità, in quanto non voglio, per la vita (cioè per il semplice rimanere in vita), sacrificare tutto ciò che a mio giudizio rende la vita veramente vita». 
Jacobi, Fichte, Hegel e molti altri vedono nel «suicidio» la prova della «Libertà del volere», ossia, come dice Hegel, la possibilità che io mi liberi da tutto, rinunci a ogni scopo, astragga da tutto, perfino dalla vita. Feuerbach ribatte che l'istinto di conservazione dell'uomo non e' sfrenato e senza limiti e d'altra parte l'uomo vuole la propria felicità, vi si identifica al punto che non può rinunciare a essa senza rinunciare a se stesso. Quando se ne sente estromesso si uccide. Ma questo significa, per Feuerbach, che il «suicidio» e' così poco una prova della «Libertà», cioè della capacità di astrarre da tutto, che anzi dimostra il contrario. Sarebbe libero chi, astraendo da tutto, continuasse a esistere; non e' libero chi e' così legato alla propria felicità da non poter continuare a esistere senza di essa. 
La cultura filosofico scientifica contemporanea ha messo sempre più in discussione l' esistenza di leggi e cause che determinino necessariamente la natura e quindi anche le scelte dell' uomo. Non solo ci si deve chiedere, con Feuerbach, se e' proprio vero che dipenda dal «Puro Volere» il fatto che l'uomo voglia questo o quello; ma ci si deve anche chiedere se e' proprio vero che l'uomo riesca a ottenere ciò che vuole, e cioè che egli sia una causa che quando agisce produce necessariamente certe conseguenze. E comunque difficile separare la «Libertà» dal «Caso». Per i difensori della «Libertà» l' uomo agisce in base a certe motivazioni, quindi non arbitrariamente e non casualmente. 
Tuttavia l' uomo e' libero solo se, anche di fronte alle motivazioni più imponenti e consistenti, che lo spingono a una certa scelta, egli sceglie diversamente. E la «Volontà» stessa, si dice, a dar peso alle motivazioni della sua scelta; ma se essa e' «Libera», questo suo dar peso non può più agire sotto il peso di alcuna motivazione. La sua scelta e' senza perché . E il «Caso» non e' appunto l' assenza di ogni perché? 

domenica 8 febbraio 2015

HEGEL


Presentando se stesso come la forma suprema e insuperabile di Filosofia, l’«Idealismo» trova in Hegel il più geniale «campione». Per il pensatore tedesco, Natura e Storia, Scienza, Arte, Religione e Filosofia rientrano in un grandioso processo universale di realizzazione dell’«Idea», che si estrinseca nella «Natura» per ritrovarsi come «Spirito» nella «Storia»: un processo dialettico, di contraddizioni necessarie, destinate a riscattarsi e a risolversi attraverso la mediazione in un’unità «superiore». 
Tutti i grandi temi della vita, della cultura e della storia vengono così integrati in un orizzonte unitario tale da eliminare l’unilateralità e configurarli come un momento di un processo profondamente «Razionale e Reale» al tempo stesso. Com’è detto in una celebre pagina della "Prefazione alla Filosofia del Diritto" «ciò che è Razionale, è effettivamente Reale, e ciò che è Reale, è Razionale»
Dopo Hegel, la cui Filosofia rappresenta la forma più alta raggiunta dall’«Epistéme», non ci si interrogherà più su come comprendere il mondo, bensì su come cambiarlo, e, nel contempo, il processo di distruzione dell’«Epistéme» – iniziato dalla stessa scuola hegeliana – caratterizzerà sempre più nettamente il pensiero contemporaneo, dallo Storicismo all’Esistenzialismo, dal Pragmatismo al Neopositivismo. 
La Religione rappresenta una forma dello «Spirito» superiore all’«Arte», poiché nella Religione lo «Spirito» non si cerca e non si trova più immediatamente nel sensibile, ma nel suo manifestarsi a se stesso come rivelazione. Tuttavia ai fini di una comprensione essenziale del problema è importante ricordare almeno la distinzione tra la Religione determinata e la Religione assoluta. La Religione determinata o, meglio, le religioni determinate, corrispondono a quelle fasi dello sviluppo dello «Spirito» nelle quali ancora lo «Spirito»  non è giunto a cogliersi come «Assoluto». Soltanto con il Cristianesimo si ha invece il riconoscimento dell’«Assoluto» come libertà ed autodeterminazione di cui l’articolazione «trinitaria» è espressione. 
Con il Cristianesimo si è giunti infatti a riconoscere Dio in «Spirito e Verità», e questa conquista deve essere considerata «irrevocabile», anche se ne scaturisce un rapporto molto complesso tra Filosofia e Religione. Per un verso infatti non si ha una «morte» della Religione analoga a quella dell’Arte, appunto perché nella Religione assoluta lo «Spirito» ha colto se stesso come «Assoluto» e conciliato. Per altro verso, però, lo «Spirito» non può limitarsi a cogliersi nella rappresentazione e nella «Fede», ma deve conoscersi come concetto. 
La teoria più audace e profonda con cui è stata interpretata la storia del mondo è probabilmente quella di Hegel: «La costituzione degli Stati si fonda sulla Religione». La Religione costituisce la base degli Stati, non nel «Senso» che lo Stato si serva della Religione come strumento, nel «Senso» che si presti obbedienza agli Stati per mezzo di essa, ma per la ragione che gli Stati non sono altro che la manifestazione del vero contenuto della Religione. La storia universale è in sostanza la storia della Religione, il processo in cui la Religione raggiunge il suo «Vero contenuto». 
Per Hegel, come per tutta la cultura tradizionale dell' Occidente, la Scienza capace di conoscere in che consista la «Verità» è la «Filosofia». La quale, pervenuta alla propria maturità, si lascia alle spalle ogni incredulità antireligiosa e falsamente razionale e scorge nel Cristianesimo la manifestazione più alta della «Verità» in campo religioso, in un campo, per altro, ancora inadeguato (per Hegel come per Kant) rispetto alla manifestazione filosofica della «Verità». E cos' è la «Verità?» Hegel ha sollevato la Filosofia Moderna alla consapevolezza che la «Realtà» è «Pensiero». 
Quando oggi si ricorda questa formula non se ne percepisce quasi mai la «Potenza» e l' «Inevitabilità». Pensare una «Realtà» esterna al «Pensiero» è come voler saltare al di fuori della propria ombra. Ma un «Pensiero» che pensi soltanto il mondo, e non riesca a pensare se stesso, è chiuso in una tomba: non vedendo sé, non vede la luce che consente al mondo di mostrarsi, quindi non vede la «Realtà» vera. Il primo movimento del «Pensiero» è dunque, sì, il suo volgersi al mondo; ma per poi rivolgersi a se stesso. Il «Pensiero» è cioè un circolo: un uscire da sé, andando nell' «Altro», nel mondo, per ritornare a sé portando il mondo con sé, liberandolo cioè dalla tomba e dalla morte. Ma, pensa Hegel, non sta proprio in questo circolo l' Essenza del Cristianesimo? 
Dio si è fatto uomo, è venuto nel mondo; ma non per restare uomo e mondo, nella morte e nella tomba, ma per ricondurli a sé. L'incarnazione di Dio è il circolo assoluto della «Realtà» e della «Verità», lo Spirito che risulta dalla generazione del Figlio da parte del Padre. Lungi dall' essere un «Mistero» inesplorabile dalla «Ragione», la «Trinità» cristiana è invece la stessa essenza più profonda della vera «Ragione». 
La «Filosofia della storia universale» non può avere dunque altro compito che rintracciare, nella sovrabbondante varietà e complessità dello sviluppo storico dei popoli e degli Stati, la presenza del circolo divino del «Pensiero». Un compito immane, che Hegel affronta in modo abbagliante, per altro accessibile anche al non specialista. La storia non è abbandonata al caso, ma è guidata dallo «Spirito», appartiene anzi al suo stesso prodursi. I popoli, come tali, non possono capire che cosa significhi il concetto filosofico di «Circolo del Pensiero», ma capiscono molto bene l' immagine religiosa di questo concetto, e cioè che Dio non è rimasto lontano e indifferente, ma si è fatto uomo e ha abitato tra noi per salvarci dal peccato e dalla morte, cioè per ricondurci a lui. Appunto per questo Hegel dice che la Religione, e non la Filosofia, è il fondamento degli Stati; e che la vera Religione, cioè il Cristianesimo, propriamente quello protestante, non può essere un mezzo per rafforzare lo Stato, uno Stato che, lasciando al di fuori di sé la dimensione religiosa, non può avere «Realtà» e prima o poi viene «Annullato». 
Le rivoluzioni nei Paesi latini erano destinate a fallire perché erano soltanto politiche, miravano solo al «Rovesciamento dei troni», mentre «Senza cambiamento della Religione non può avvenire alcun vero cambiamento, alcuna rivoluzione». I Paesi protestanti, invece, «Hanno già fatto la loro rivoluzione» «Pacificamente» e con successo, perché la loro è stata una «Rivoluzione Religiosa», ha portato il Cristianesimo alla sua purezza; quindi è stata la vera «Rivoluzione Politica». Ha portato negli Stati la «Ragionevolezza», la «Verità», e dunque la «Libertà» dall' errore e dal fanatismo. 

giovedì 5 febbraio 2015

KANT


Con Kant, la Filosofia moderna compie una svolta radicale, mostrando che le cose in se stesse, esterne e indipendenti dalla conoscenza umana, non possono essere conosciute. Kant sostiene in maniera inequivocabile che le leggi che regolano il mondo sono interamente prodotte dallo «Spirito Umano»: l’uomo può conoscere la «natura», oggetto d’esperienza che si realizza conformemente alle leggi della conoscenza, proprio e soltanto perché la produce. 
Per garantire l’esistenza di un sapere «universale e necessario», un sapere a «priori», Kant ribalta la prospettiva tradizionale, paragonando questo suo rovesciamento di impostazione alla rivoluzione di Copernico che, rispetto alla concezione astronomica tolemaica, inverte il rapporto tra il «movimento della terra» e quello degli «astri del cielo». Se fino a kant la conoscenza, per aver valore, doveva adeguarsi, conformarsi o regolarsi comunque sugli «oggetti», con il filosofo tedesco, al contrario, sono gli «oggetti dell’esperienza» – e non le cose in sé – a doversi regolare sulla natura della conoscenza umana. Con l’uscita della «Critica della Ragion Pura» (1781) Kant poteva considerare concluso il compito originario della Filosofia critica, di fondare la «Metafisica», cioè (nel significato che Kant dà alla parola) la possibilità di conoscere qualcosa della realtà senza ricorrere all’esperienza (conoscenza a «priori»). 
La «Critica della Ragion Pratica» (1788) – a cui Kant fece precedere un’introduzione più elementare, intitolata «Fondazione della Metafisica dei costumi» (1785) – batte una via tutta diversa dalla via psicologica, per fondare l’«Etica della Libertà». Essa non presume che nell’esperienza di sé l’uomo trovi alcun fatto che gli faccia sapere d’essere libero. Ma afferma che l’uomo trova in sé un «fatto» che gli impone il «dovere» di reputarsi libero, anche se teoreticamente non sa affatto se sia libero o no. Questo «fatto» è la «Legge Morale», presente alla nostra coscienza come un «Imperativo», cioè come un comando. Tale comando riguarda unicamente il «principio» secondo cui l’uomo deve determinare la propria volontà, senza dirgli nulla dei modi in cui tale determinazione possa aver luogo. 
L’uomo sa solo di dover obbedire alla «Legge Morale»; e, se lo deve, tale obbedienza deve anche essere possibile («devi, dunque puoi»); ma noi non sappiamo come, perché tutte le possibilità che conosciamo le conosciamo come determinate, a partire da cause naturali. Quel dato di fatto che è il «dovere» non va confuso, dunque, con un «fatto empirico», e perciò Kant lo chiama «fatto (factum) della Ragione». «fatto» nel senso che è un «immediato», non qualcosa che si ricavi da altro. Ma non allineabile con i fatti naturali, perché i fatti empirici ci sono dati nel contesto della natura, sempre condizionata, mentre l’«Imperativo» morale ci è dato come un «assoluto incondizionato». Appunto perciò ci è dato da quella «facoltà dell’incondizionato» che è la «Ragione». «Quanto più una Ragione e' coltivata e dedicata a cercare il godimento e la felicità della vita, tanto più l' uomo si scosta dalla vera contentezza» che «Potrebbe perfino essere ridotta a un nulla». 
Si fa innanzi, in questo discorso, uno dei tratti decisivi della storia del pensiero filosofico, fino a Kant, e anche dopo di lui, nell'idealismo classico tedesco . Il filone centrale della tradizione filosofica pensa proprio che soltanto la «Ragione» possa rendere l'uomo veramente felice e che, in questo suo compito, essa non sia affatto temeraria, ma lungimirante e salvifica. 
E vero che il giovane Rousseau aveva scritto che la «Natura ha voluto preservare i popoli dalla Scienza come una madre strappa un'arma pericolosa dalle mani del figlio»; ma per lui Scienza e Arti non sono la «Ragione» naturale dell'uomo, ma la sua degenerazione, sì che, anche per Rousseau, la felicità pubblica e individuale non può essere prodotta che dal retto uso della «Ragione». Al contrario, e' proprio all'uso più alto, retto e illuminato della «Ragione» che Kant si riferisce quando afferma che la «Ragione» e' responsabile dell'infelicità dell'uomo. Nel suo uso più alto, infatti, la «Ragione» e' la «Coscienza Morale», che comanda all'uomo di liberarsi da ogni impulso verso il godimento e da ogni istinto che pone il piacere e la felicità al di sopra di tutto. 
Per il pensiero metafisico, la «Ragione» indica il fine, raggiungendo il quale l' uomo può essere felice; e indica anche i mezzi per raggiungerlo. Ma Kant mostra l' impossibilità della «Ragione» metafisica; e deve quindi negare che il compito supremo della «Ragione» sia di dare all'uomo la felicità . Eppure Kant non e' Nietzsche, ossia e' ben lontano dal pensare che l'errore, cioè la «Non Ragione» e la «Non Verità», rendano sopportabile la vita. 
Un grande tema, questo, che prima di Nietzsche era stato potentemente sviluppato da Leopardi. Pur rifiutando la «Ragione» metafisica, Kant continua infatti ad appartenere alla tradizione filosofica, cioè crede nel carattere primario della «Ragione», perché se la «Ragione» non ha, per lui, lo scopo di rendere l' uomo felice, lo può però portare così in alto da renderlo «Degno» della vera felicità . Kant sostiene che lo scopo della «Ragione» e' di produrre nell'uomo una «Volontà» che sia buona per se stessa, e non come e' «Buono» un mezzo capace di far ottenere qualcosa di diverso da esso. Una «Volontà Buona» come lo e' la «Buona Volontà» evangelica. 
Per l' uomo di «Buona Volontà», che in cima ai suoi pensieri non ha di mira nemmeno la ricompensa ultraterrena, e' però preparato il regno dei cieli. Sia pure lungo un percorso differente da quello metafisico, anche per Kant la «Ragione» continua ad essere la fonte che se non da' la felicità, le apre però il varco. 
Per Kant le facoltà universitarie volte alla salute dell' anima (Teologia), della società (Giurisprudenza) e del corpo (Medicina) hanno l' obbligo di conformare il contenuto del loro insegnamento alle direttive del Governo, che mirano alla salute del popolo. Invece la facoltà di «Filosofia» ha come scopo e come metodo la «Verità» e l' esercizio della «Ragione» e quindi e' assolutamente «Libera»: nessuna dottrina può esserle imposta dal governo, sebbene non possa svolgere in pubblico la propria critica in nome della «Verità». 
Porre la Solidarietà come «fine» e l' Efficienza come «mezzo» e' cosa del tutto diversa dal porre come «fine» l' Efficienza e come «mezzo» la Solidarietà . Il mezzo e' inevitabilmente subordinato al fine. Se il fine e' l' «Eguaglianza», la «Libertà», come mezzo, e' subordinata all'«Eguaglianza». I mezzi, in genere, sono logorabili e sostituibili. E non e' così facile mostrare che la «Libertà» non sia un mezzo logorabile e sostituibile. 
Per Kant, la «Libertà» non può mai essere un mezzo. Come fine la «Libertà» non e' senza limiti, ma e' la massima «Libertà» compatibile con la «Libertà» altrui. Per Kant, la «Libertà» richiede l' «Eguaglianza» di fronte alla legge, che stabilisce i limiti della «Libertà» di ciascuno; ma l' «Eguaglianza» non e' il fine della società . Entro certi limiti, e' una condizione senza la quale il fine non potrebbe realizzarsi; ma non vale incondizionatamente. Purché la «Libertà» sia, l' «Eguaglianza» può subire drastiche riduzioni. Ma non e' lecito dire che, purché l' «Eguaglianza» sia, la «Libertà» possa essere violata. Kant afferma infatti che l' «Eguaglianza» degli uomini di fronte alla legge, e tale «Eguaglianza» e' la «Libertà» stessa , può perfettamente coesistere con la massima diseguaglianza nella quantità e nel grado del loro possesso, sia che si tratti di superiorità fisica o spirituale degli uni rispetto agli altri, sia che si tratti di diseguaglianza esteriore di beni di fortuna. 
Ci può essere «Libertà» anche là dove regna la diseguaglianza più profonda tra ricchi e poveri. Le due cose possono, per Kant, perfettamente coesistere. Se la «Libertà» e' il fine, l' «Eguaglianza» deve essere subordinata ad essa e limitata. Ponendo invece come fine l' «Eguaglianza» e la «Libertà» come mezzo, come fa la «Sinistra», rimane da dire fino a che punto possono perfettamente coesistere l' «Eguaglianza» tra gli uomini e quella quantità di non «Libertà» che non distrugge la Democrazia. 
Giacché e' inevitabile che, ponendo come fine l' «Eguaglianza», la «Libertà» come mezzo sia destinata ad essere subordinata e limitata. Fino a che punto una società democratica può limitare, in nome dell' «Eguaglianza», la «Libertà»? Comunque si risponda, non ci si illuda di poter salvaguardare nella stessa misura «Eguaglianza e Libertà». 


domenica 1 febbraio 2015

ROUSSEAU


Un posto a parte nell’Illuminismo francese occupa Rousseau, figura enigmatica e controversa, il cui pensiero appare, sotto molti aspetti, un irripetibile amalgama di elementi diversi e contrastanti tra loro. Dietro la singolarità del pensiero e dell’opera del ginevrino, sta la singolarità dell’uomo, la cui storia personale – il suo disturbato «io» profondo – non ha mancato di interessare vivamente anche studiosi di Psicologia e Psicanalisi. 
Rousseau è uno dei padri della Democrazia Moderna; ma ben pochi suscitano come lui la diffidenza della cultura liberale, che continua a considerarlo, non senza ragione, come l'iniziatore di tutte le dottrine di Dittatura e di Tirannia, da quella Giacobina del 1793 fino alle dottrine Bolsceviche del 1920. 
Banditore di un Individualismo radicale da un lato (Discorsi e Nuova Eloisa 1762), per il quale l’uomo non può e non deve riconoscere altra guida che il suo «sentimento interiore», dall’altro (Contratto Sociale 1762) Rousseau propugna un «Assolutismo politico» radicale per il quale l’individuo è sottoposto interamente alla volontà generale del corpo politico. Le conseguenze ricavabili dalla «Teoria della Sovranità Popolare» avranno una portata politica notevole, ispirando i più accesi protagonisti della Rivoluzione. 
Nel vagheggiamento di un’età d’innocenza, presente in molti scritti di Rousseau, oltre all’elemento mitico, indubbiamente presente, opera anche un preciso ideale politico incarnato dalle «Città-Stato» dell’antichità. La perfetta armonia tra individuo e comunità, cultura e politica che fu di Atene e Sparta, secondo il ginevrino dovrebbe essere il traguardo ambito anche dalle nazioni moderne. 
Una profonda passione etico-antropologico-politica governa e dirige lo stringente argomentare razionale-scientifico delle pagine rousseauiane. Bisogna creare una società finalmente «Libera e Ugualitaria» per «rigenerare» l’essere umano. Il problema più arduo è connesso con la difficile mediazione tra due realtà che Rousseau ritiene assolutamente certe e oggettive. La prima è che l’uomo è e deve restare un essere «Libero»: «rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità d’uomo». La seconda è che la società, di cui l’individuo non può fare a meno per ragioni di tutela e sviluppo personale, implica un «ordine» e quindi delle «rinunce». 
Il Contratto Sociale (1762) assume come fondamento la «Libertà» dello stato di natura e su queste premesse teorizza un tipo di società, basata su un patto d’«unione», che garantisca la «Libertà» e la conservazione dell’individuo. La «volontà» propria del corpo sociale è la «Volontà Generale», che tende sempre all’«utilità» di tutti e che, quindi, non può sbagliare. 
Frutto di un lavoro assai travagliato e durato quasi un decennio, l’«Emilio» (1762) è uno dei vertici assoluti della riflessione rousseauiana e una delle grandi opere del pensiero moderno. L’«Emilio», se certamente è un testo di importanza capitale dal punto di vista pedagogico-educativo, contiene anche qualcosa di più: una psicologia, un’antropologia, una nuova (o innovata) meditazione sociale. L’«educazione» si configura per Rousseau come l’intervento teorico-pratico attraverso il quale si può plasmare un’umanità capace di vivere – anzi, di con-vivere – secondo i dettami della giustizia e della «raison». Da questo punto di vista occorre anche rivedere (o reinterpretare in modo più equilibrato) uno dei principi centrali dell’«Emilio», che ha creato non pochi equivoci. Si allude al principio che l’«educazione» dovrebbe avvenire, per Rousseau, «fuori e indipendentemente» dalla società. 
Nell’«Emilio», dunque, Rousseau delinea un tipo di «educazione» che mira a rispettare nell’individuo l’«istinto naturale», di per sé buono, evitando le deformazioni di solito prodotte dalle convenzioni della così detta società civile. Il maestro deve favorire il libero sviluppo della natura del«fanciullo» che, gradualmente e spontaneamente, potrà acquisire la sua più profonda e intima personalità. 
Sulla «Libertà» dell' Uomo: e' il fondamento e lo scopo della cultura moderna rompere le catene che tengono fermo l' uomo. I morti non stanno fermi perché sono legati, ma perché sono morti. E’ dunque il «Divenire» della vita che viene immobilizzato; perché e' legato dai suoi nemici. Il «Divenire», cioè la «Libertà» originaria dell'uomo, Rousseau lo percepisce con straordinaria «Potenza». Le catene sono per lui il Potere Politico ed Economico, e innanzitutto la Proprietà Privata, i Dogmi della Morale, la Religione, gli Ordinamenti giuridici, le Arti e le Scienze che tentano di giustificare il dominio dei prepotenti e degli astuti. 
Soffocare la Libertà e', prima ancora che un male, un «Errore»; l' «Errore» più grande, perché e' come gettare reti per fermare il moto ondoso del mare. I prepotenti e gli astuti alla fine sono degli illusi. Il Popolo non ha quindi un sovrano al di sopra di sé : il Popolo e il Sovrano sono una stessa persona. E siamo al grande crocevia rispetto alla cultura liberale, perché per Rousseau, questa «Persona» e' quanto di più profondo e di autentico c' e' in ogni individuo: e' il suo «Io Comune», e a cui dunque l' «Io Particolare» di ognuno va subordinato, e per il bene stesso dell' individuo, quel che l' «Io comune» vuole , (la «Volontà Generale») , e' dunque la «Volontà» più vera dell' individuo. Sottomettendosi ad essa egli non diventa schiavo di un «Potere Esterno», ma si sottomette a se stesso, e dunque diventa «Libero». L' autentica «Libertà» e' la sottomissione a se stessi. 
Si può capire quanto questo discorso affascini pensatori che, come Kant, Fichte, Hegel, pongono al centro la relazione tra il nostro «Io Particolare» e il nostro «Io più grande», più vero e universale («Io Trascendentale»). Ma si capisce anche come quella relazione continui ad apparire, agli occhi del liberalismo, come la premessa che conduce inevitabilmente allo Stato Totalitario e Assoluto, e che sotto l' apparenza di promuovere la vera «Libertà» degli individui, ne e' invece la negazione più radicale. E in effetti nella «Volontà Generale» si ripresentano i vecchi padroni. Ancora più insidiosi e pericolosi, proprio perché non dicono più all' uomo: «Obbediscimi», ma «Obbedisci a te stesso».