domenica 25 gennaio 2015

SPINOZA, DIO E IL NULLA


Radicalizzando la definizione cartesiana di «sostanza» e concependola come unica, infinita, incondizionata causa sui (causa e sostanza) Spinoza approda alla concezione che vuole la «sostanza» coincidente con l’«Essere divino». Da ciò il suo «monismo», che è al tempo stesso panteistico e naturalistico, essendo il «Tutto» manifestazione della divina natura, unica pur nel suo duplice aspetto di natura naturans – universale principio attivo di ogni accadere – e natura naturata, intesa come molteplicità dei singoli accadimenti.
Insieme all’Etica l’altro grande capolavoro spinoziano è il «Trattato teologico-politico», dove il filosofo affronta il problema della Religione e dei rapporti tra la coscienza religiosa e lo Stato. Convinto propugnatore del principio della «libertà di coscienza», Spinoza si batte contro i pregiudizi dei teologi e rivendica il libero esame della Scrittura, seguendo le regole del metodo storico e l’autorità della Ragione: «La vera felicità e la beatitudine di un uomo consiste soltanto nella sapienza e nella conoscenza della Verità».  
La Filosofia nasce volendo essere libera: indipendente da miti, fedi, religioni, opinioni, istinti, costumi sociali, oltre che da ogni costrizione e comandamento che provengano dall'esterno di ciò che essa porta alla luce, chiamandolo «Verità». Ma lungo la sua storia la Filosofia si è posta sempre in rapporto con tutte queste forze, da cui essa non intende farsi guidare, per indagarne il significato e la consistenza: soprattutto con le religioni monoteistiche (e con il potere politico)  e in particolare col Cristianesimo.
All'interno della grande epoca della tradizione filosofica, cioè del pensiero che pone l' «Eterno» al di sopra o nel cuore del Tempo, e al suo fondamento, Spinoza è certamente il più lontano dal mondo religioso. Sono note le vicende di questo grande, probo e pacifico pensatore ebreo, cacciato dalla Sinagoga e condannato, oltre che dagli ebrei, dai cristiani, protestanti e cattolici, e dagli Stati. Nonostante l'ammirazione di un ristretto circolo di amici, lo si considera l'uomo empio e pericoloso di questo secolo .
Odiato o dimenticato per un secolo, a partire dagli ultimi lustri del XVIII secolo il pensiero di Spinoza viene riconosciuto in tutta la sua potenza. Jacobi, Fichte, Schelling, Herder, Goethe, Schiller, Lessing, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Borges, Einstein, tra gli artefici e i testimoni di questa rinascita. Che anche oggi è attuale , soprattutto per le tesi sul rapporto tra «Stato» e «Chiesa», «Fede» e «Ragione» e per la difesa della Democrazia. La libertà di filosofare, si legge sul frontespizio del «Tractatus theologico-politicus», si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma, anche, essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato. Sullo sfondo di queste tematiche, la decisione del filosofo di ricercare un bene vero e condivisibile: qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.
Tale bene è Dio. Un Dio, certo, molto diverso da quello pensato dalla Filosofia dopo l' annuncio Cristiano: ad esempio non è «Persona», non ha «Volontà» né scopi, include la «Natura», e quindi anche ciò che erroneamente gli uomini credono «Male» e «Peccato». E tuttavia possiede quei caratteri della «Potenza» e dell' «Eternità» che sono propri di ogni modo in cui la tradizione filosofica ha pensato il divino. Si tratterebbe di comprendere che anche alle radici di una Filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle (sia pur grandi) abitudini concettuali della civiltà occidentale, è presente l' «Essenza» stessa di quelle abitudini, il tratto decisivo rispetto al quale le pur profonde differenze tra Spinoza e i suoi avversari passano in secondo piano. Alle radici, diciamo: perché si tratterebbe di scendere sul fondo dell'abisso su cui è sospeso il pensiero dell'uomo occidentale, e ormai dell'uomo planetario.
Sin dall'inizio dell'«Etica», il suo capolavoro, Spinoza distingue ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l' «Eterno», da ciò che invece non esiste necessariamente, nel «Senso» che non è sempre esistente ed è l' insieme delle cose prodotte da Dio, esistenti nel Tempo. Ora, essenzialmente, radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza dimostra l' esistenza di Dio, e più decisiva di ogni altra dimostrazione di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale e la convinzione che le cose del mondo non esistono necessariamente: nel «Senso», appunto, che non sono sempre esistenti (anche se accadono necessariamente).
Spinoza condivide questa convinzione con ogni altra forma (anche religiosa, dunque) del pensiero dell'Occidente. Si dirà: è ovvio che la condivida! Infatti è la «Verità» più evidente di tutte! E oggi si aggiunge: ed unica «Verità» evidente! - Questo dire e questa aggiunta sono inevitabili. Infatti, anche se la cosa è tutt' altro che facile a comprendersi, l' «Onnipresente Essenza» della Civiltà Occidentale e appunto la convinzione che le cose del mondo non siano sempre esistenti e che questa loro non necessaria esistenza sia l'evidenza originaria o, addirittura, come oggi si conviene, l' unica evidenza assoluta. Perché, allora, perdere tempo con ciò che oggi è rimasta l' unica «Verità» fuori discussione, e non impegnarsi invece per diradare un poco le nebbie dell' incertezza che avvolge la vita dell'uomo?
Proviamo a rispondere così: perché quanto sembra l' unica «Verità» veramente fuori discussione è invece l' errare più profondo, e anche più nascosto. Ma come possiamo azzardarci a dir questo? Che presunzione! Ancora maggiore, la presunzione, se si tiene presente, che anche per la Scienza Moderna le cose del mondo non esistono sempre: esse sono, dopo non essere state, e tornano a non essere: sporgono provvisoriamente dal «Nulla». Certo, sembra proprio un azzardo e una presunzione. Con i quali, tuttavia, acquista un maggior spicco il motivo per cui affermiamo che anche una Filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle abitudini morali e concettuali dell'Occidente Cristiano, e, ciò nonostante, profondamente solidale con l' essenza di tali abitudini.
Anche a Nietzsche (che vede in Spinoza il pensatore a lui più vicino) compete questa solidarietà. Poi, si tratterà di pensare la Follia di quell'«Essenza». Credere che le «Cose» escano e ritornino nel «Nulla», ad opera di un Dio o da sole, non è forse credere che le «Cose» siano «Nulla»? non è forse credere che ciò che non è «Nulla» sia «Nulla»? e questa «Fede» non è forse la mano più terribile e violenta? non uccide forse uomini e cose nel modo più originario e radicale, quello che sta al fondamento della violenza visibile che tutti sono capaci di scorgere?
Sul fondamento di questa «Fede», ogni Santità è la culla dell'omicidio e di ogni altra forma di annientamento. Certo, è indiscutibile che per Spinoza (sulla scia di Seneca e in generale dello stoicismo) le decisioni umane e tutte le cose avvengono per fatale necessità (fatalis necessitas); che nessuna «Cosa» può esistere diversamente da come esiste e che dunque ogni «Cosa» è necessaria. Certamente! Ma nel «Senso» che ogni «Cosa» del mondo si genera e si corrompe necessariamente: non nel «Senso» che non si generi e non si corrompa. Che tali «Cose» escano dal «Nulla» e vi ritornino seguendo o non seguendo un percorso inevitabile indica due prospettive che per quanto fortemente opposte hanno tuttavia in comune la convinzione decisiva e abissale: che le «Cose» del mondo sono «Nulla».
La stessa convinzione che accomuna nell'essenziale le esperienze in cui, lungo la storia dell' Occidente, si pone un Dio alla guida della produzione e distruzione delle «Cose» e le esperienze dove invece si ritiene che tale produzione-distruzione non abbia bisogno di alcun Dio


NOTA FINALE
La verità assolutamente innegabile esiste e tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è «Eterno», ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato «Nulla» e che sia travolto nel «Nulla». Certo, la più sconcertante delle affermazioni.
Dunque, la sconcertante affermazione  che tutto ciò che esiste è «Eterno», non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muore». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che, affermando la sua capacità di attestare l’annientamento degli uomini e delle cose, vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi, Non importa. Anche quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati (Vedi Post. Marzo 2013 E. Severino Il Filosofo della verità).


martedì 20 gennaio 2015

L'EQUIVOCO DI MAX WEBER E MICHAEL NOVAK


Sostiene Max Weber che La nascita del Capitalismo dipende dal Cristianesimo: un certo tipo di uomo protestante si convince che il proprio «Benessere Economico» sia una conferma di essere predestinato da Dio alla «Salvezza Eterna»; e pertanto si da' da fare per ottenere quel «Benessere»; risparmia, forma un capitale, lo investe oculatamente nella produzione di beni di consumo e lo accresce ricavandone un «Profitto» per poi reinvestirlo. Si arricchisce per salvare l'«Anima» (o almeno per essere certo della sua salvezza). 
Sino a quando ci si arricchisce e si persegue il «Profitto» per salvare l' «Anima», sino a quando cioè lo «scopo» dell' Economia e' questa salvezza, il Capitalismo non esiste ancora, anche se esistono già certe tecniche di produzione della ricchezza che poi troveranno il maggiore sviluppo nell'intrapresa capitalistica. E viceversa il Capitalismo c'e' già anche quando ci si serve ancora di forme feudali della produzione di ricchezza, ma lo scopo dell' intrapresa economica e' il «Profitto». 
E' infatti lo scopo di un'azione a determinare ciò che essa e' . Arricchire per salvare l' «Anima» non e' un' azione «Economica», ma «Religiosa» (anche se essa include procedure di carattere economico). E, viceversa, essere virtuosi per arricchire (a questo mira ogni "business ethics", "etica degli affari" o "etica dell'impresa") non e' un' azione «Morale», ma «Economica» (anche se essa include a sua volta procedure di carattere morale o religioso). 
Il Capitalismo nasce quando l'imprenditore non pensa più all'accumulazione del «Profitto» per salvar l' «Anima» (come sostiene Max Weber ), ma …. impiega il proprio capitale per incrementare il «Profitto». L' «Equivoco» di Weber consiste nel confondere questi due opposti processi. (Vedi tutti i Post su Capitalismo Giu-lug.-Ago. 2013
Analogo all' «Equivoco» di Weber, nello stesso «Senso», è quello che sostiene Michael Novak: la convergenza di Cattolicesimo e Capitalismo egli intende, al seguito della dottrina sociale della Chiesa, che lo scopo ultimo del Capitalismo non debba essere il «Profitto», ma il «Common good», il «Bene Comune», che per la Chiesa e' l' insieme delle condizioni della vita sociale che consentono all'uomo di raggiungere la propria «Perfezione» (cristiana). Ma come non sono Capitalismo, e nemmeno Azione Economica, le pratiche che nel protestantesimo perseguono il «Profitto» per esser certi della propria predestinazione alla «Vita Eterna», così non lo sono le pratiche che nel cattolicesimo perseguono il «Profitto» per la realizzazione del «Bene Comune»
Il camminare per strada (che fuori di metafora corrisponde alla realizzazione del «Bene Comune») prevede l' uso delle scarpe (che corrisponde alla produzione del «Profitto»); ma il camminare per strada non e' una scarpa. Proprio perché tali attività assumono il «Profitto» come mezzo e non come scopo , e dunque sono attività «non profit», esse non sono attività capitalistiche.  Ma per la Chiesa l'intera attività economica deve diventare «non profit». E ciò significa che per la Chiesa il Capitalismo deve cessare di esistere. 
Il rovesciamento che la Chiesa pretende dal Capitalismo e' tanto maggiore se si tiene presente che per essa la «Carità» non può essere più, oggi, soltanto una virtù privata, affidata alla buona volontà degli individui; non può più esserlo, perché la virtù privata richiede la «Bontà» delle strutture pubbliche. 
La Chiesa, oggi, vede nel Capitalismo la forma migliore di produzione della ricchezza, ma ritiene che la distribuzione della ricchezza debba essere operata innanzitutto dallo Stato, in cui deve innanzitutto prender corpo la virtù della «Carità». Le leggi dello Stato devono regolare quella distribuzione; e la loro violazione deve essere accompagnata da sanzioni (innanzitutto terrene). Anche per questo lato (come per la scuola, la morale sessuale, ecc.) la Chiesa progetta lo Stato come Stato cristiano; a loro volta Capitalismo e Democrazia progettano lo Stato, rispettivamente, come custode della dominazione del capitale sulla società e come custode del «Senso» moderno della «Libertà». E si continua a non percepire la profondità dello «Scontro Politico» a cui questi progetti conducono. 













venerdì 16 gennaio 2015

PASCAL E LA SCOMMESSA DEL CRISTIANESIMO


Osservava Nietzsche, «il Cristianesimo, come drammaticità, quale veniva pensato da Pascal, nella nostra società borghese è diventato un tranquillante che deve avere l'effetto di placare la Coscienza». 
Per Pascal il discorso era un altro: se questa «Cosa» «Terribile» che è il Cristianesimo fosse vera? Che cosa devo fare, in vista di questa possibilità? L' atteggiamento di Pascal non era accomodante, ma corrispondeva a questa «Cosa» «Terribile»; a questa «Cosa» che, se presa sul serio, porterebbe a un modo di vivere sostanzialmente diverso da quello che realizziamo, e che realizziamo proprio perché siamo noi i primi a non prendere sul serio il Cristianesimo
Il passo è operato dalla Fede: «L’uomo senza la Fede non può conoscere il vero bene, né la giustizia». E la sicurezza della Fede non mi viene dalla ragione, ma dal sentimento, dall’istinto, dal «Cuore»: «E’ il «Cuore» che sente Dio, e non la ragione. Ecco che cos’è la Fede: Dio sensibile al «Cuore», non alla ragione». 
Dunque Per Pascal La «Fede in DIO», di cui egli stesso sperimentò l’intensità, non può essere garantita dalla «Ragione», né sorge dallo «Spirito Geometrico»: è qualcosa di rischioso che affonda le radici nel «Cuore» e spinge l’ Uomo alla «Scommessa» che altro non è se non la possibilità della «Speranza». «La Fede è un dono di Dio» ci ricorda Pascal, e non possiamo trasformarla in argomento nei confronti di chi non crede. Ed è per questo - precisa ancora Pascal - che quelli a cui Dio ha dato la religione per sentimento del Cuore, sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a quelli che non l’hanno, noi non possiamo darla che per mezzo del ragionamento, nell’attesa che Dio gliela doni per sentimento del Cuore, senza di che la Fede è solamente umana e inutile per la salvezza. 
Ma quale ragionamento può essere offerto dopo il riconoscimento più volte manifestato dell’impotenza della ragione? Pascal non ha dubbi al riguardo: «Se vi è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Noi siamo dunque incapaci di conoscere ciò che egli è, né se è». Non possiamo dunque rimproverare ai Cristiani di non esibire le prove della loro Fede: «Se essi ne dessero le prove, mancherebbero di parola; solo mancando di prova essi non mancano di senso». La mancanza di prove, tuttavia, non costituisce in ogni caso un motivo. «Esaminiamo dunque questo punto e diciamo: Dio esiste o non esiste. Ma da quale parte inclineremo? La ragione non vi può determinare nulla». 
Non resta che Scommettere. «Si gioca un gioco, all’estremità di questa distanza infinita, in cui uscirà o Testa o Croce. Su cosa scommetterete? Con la ragione voi non potete fare né l’una né l’altra scelta; con la ragione, non potete sostenere nessuna delle due». L’alternativa è secca: o Dio esiste, o non esiste. La «Scommessa» è inevitabile. E Pascal compie la propria scelta: «Pesiamo il guadagno e la perdita, puntando Croce, che Dio Esiste. Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto, se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, che Dio esiste, senza esitare». 
Ma Pascal aveva anche detto che «La conoscenza della propria miseria senza la conoscenza di Dio genera la disperazione». L’alternativa è allora tra la «Felicità e la Disperazione». Il gioco manifesta qui il suo insuperabile carattere tragico: se si vince, se Dio esiste, si vince tutto, certamente; ma se si perde – ed è possibile perdere – si perde veramente tutto. E all’uomo rimangono «la Solitudine e la Disperazione». La «Scommessa, alla fine, è solo la possibilità della «Speranza». 
Noi oggi abbiamo rovesciato completamente la posizione Pascaliana, non ci preoccupiamo più di vivere come se questa cosa terribile fosse vera, ma diciamo che, se fosse falsa, è comodo, dà tranquillità vivere cristianamente. Non comprendiamo niente di ciò che è l' «Essenza del Cristianesimo». 
Pascal dice: proviamo a vivere come se questa «Cosa» «Terribile» fosse vera; oggi si dice: viviamo cristianamente anche se il Cristianesimo è una cosa falsa. Infatti è utile vivere cristianamente. Si dà prova di «Buon Senso», credendo nel Cristianesimo. Invece il Cristianesimo non è mai stato una faccenda di «Buon Senso», a cominciare da quella «Cosa» così talmente priva di «Buon Senso» che è stata la «Morte di Cristo», una cosa che il benpensante contemporaneo di Cristo certamente considerava una pazzia. 
Infatti i Greci, che erano i benpensanti del tempo, quando sentivano parlare di un uomo che diceva di essere «Dio» e che si era fatto uccidere da uomini che non gli credevano, gli davano del pazzo. Questa era la reazione del benpensante rispetto a quella vicenda «Drammatica» che è il Cristianesimo. 

domenica 11 gennaio 2015

IL «FIRMAMENTO» : OLTRE PARMENIDE


Tra i primi pensatori Greci, Parmenide occupa una posizione centrale che divide quanti lo precedono da quanti lo seguono, non solo nella storia della Filosofia antica, ma lungo l’ intera storia del pensiero filosofico. Egli porta alla luce un «Problema» che impegnerà tutta la Filosofia antica, per cui con ragione Platone lo nomina «Venerando e Terribile»
La «Via della Verità» è tracciata dal principio che dice: l'«Essere è ed è Impossibile che non Sia». Il contrario di questo principio è l’ impercorribile assurdo che la «Verità» proibisce di affermare. Se l'«Essere è», prosegue Parmenide, non può venir generato né andar distrutto, perché altrimenti prima di esser generato e dopo esser distrutto, «Non sarebbe», e affermare che l'«Essere Non è» è proibito dalla «Verità». Quindi l'«Essere è Immutabile ed Eterno», e la Giustizia proibisce che in qualsiasi modo divenga. 
Fin dall’inizio la Filosofia pensa che l’ambito di ciò che nasce e che muore non nasce e non muore, è cioè «Eterno». A questo ambito la Filosofia ha dato il nome di «Phýsis». La parola «Phýsis» appartiene al linguaggio prefilosofico, ma con l’ avvento della Filosofia acquista quel nuovo significato che è l'«Essere» nel suo illuminarsi. Forse anche per questo Parmenide chiama la «Via della Verità», ove si dice che l'«Essere» è, «Sentiero del Giorno». Lungo questo «Sentiero» ciò che si fa luminoso è che l'«Essere» si oppone al «Niente» e che questa opposizione è «Eterna». 
Ma sia l’«Opposizione» sia l’«Unità» sono solo delle proprietà, sia pure essenziali, dell’elemento unificatore del molteplice che Parmenide nomina «Essere». L'«Essere», infatti, è Ciò che è identico in ogni «Cosa» che è, è ciò che, opponendosi al «Nulla», esprime il significato supremo dell’ «Opposizione» e, per effetto dell’ «Opposizione», si costituisce come «Unità». Si tratta di un’ «Unità» che non ospita né il «Divenire» delle «Cose», né la loro molteplicità. 
Dire, infatti, che una «Cosa» diviene significa dire che passa dall’«Essere» al «Non- Essere», e quindi significa affermare che il «Non-Essere è»; dire infine che ci sono molte «Cose» diverse: albero, stella, animale, terra, acqua, aria, fuoco significa dire che ciascuna di esse «Non è Essere», e quindi di nuovo che il «Non-Essere è». 
Parmenide, portando alla luce la «Phýsis» come «Essere», e riflettendo sul «Senso» dell’ «Essere» (che non può Non-Essere) è costretto a negare che la «Phýsis» sia l’elemento unificatore (Stoichéion) del molteplice e il principio (Arché) del «Divenire Cosmico». L'«Essere» è assolutamente indifferenziato, indeterminato, l’ assolutamente semplice e puro, mentre il mondo che ci sta dinnanzi nella sua incessante mutazione e varietà è «Dóxa», ossia apparenza illusoria in cui i mortali pongono fiducia. 
Parmenide mostra che Ciò che è, l' «Essente», non può provenire dal «Non Essente» e nel «Non Essente» non può dissolversi; e poiché il mondo è l'apparire dell'incominciare ad «Essere» e del cessare di «Essere», da parte delle «Cose», le «Cose» del mondo non possono essere degli «Essenti» e il loro apparire è solo illusione. Il pensiero essenziale , è quello in cui appare l' impossibilità che l'«Essente» esca dal «Niente» e vi faccia ritorno: quello in cui appare il perché di questa impossibilità. 
Possiamo indicare anche semplicemente che: se l' «Essente» provenisse da un passato in cui esso «Non è» (ossia è Niente) e andasse in un futuro in cui esso torna a «Non Essere», allora, in assoluto, l' «Essente» sarebbe «Non Essente» cioè non sarebbe «Essente». Stando al comune modo di pensare possiamo affermare che, in assoluto, la casa non è casa, la stella non è stella, l' albero non è albero? No , si risponde subito. Ma allora non si può nemmeno affermare che l' «Essente» non sia «Essente» , anche se in questo modo ci si avvia lungo un cammino che porta molto lontano dal comune modo di pensare, cioè al luogo i cui appare che l' «Essente» è «Eterno». 
La fretta con cui si risponde No alla domanda se la casa sia non casa, o la stella sia non stella, è soltanto la «Volontà» che le cose stiano così. All'interno di quella fretta, il «Principio di non Contraddizione» (che appunto afferma in generale l' opposizione tra ogni cosa e ciò che è altro da essa) è soltanto la «Volontà» che la realtà non sia contraddittoria. Se ci si ferma a questa «Volontà» si capisce perché Nietzsche giunga ad affermare che i supremi principi della conoscenza umana (quale, appunto, il Principio di non Contraddizione) sono soltanto degli imperativi che, certo, servono a vivere, ma che certamente non sono «Verità Innegabili». Dunque l' opposizione tra l'«Essente» e il «Non Essente» è come una stella che stia al centro del cielo, che però non ha il buio attorno a sé, ma brilla insieme alle altre stelle. 
Per restare in questa metafora (che dunque dice ben poco intorno a ciò a cui essa accenna), solo guardando il «Firmamento» , cioè andando «Oltre Parmenide» in modo essenzialmente diverso da come il pensiero dell' Occidente ha creduto di andare oltre di lui , è possibile vedere che l' opposizione tra l'«Essente» e il «Non Essente» non è semplicemente un Postulato, un Dogma, una Fede, un Imperativo. Il «Firmamento» corrisponde, al di fuori della metafora, a ciò che nei scritti di E. Severino è chiamato «Struttura Originaria del Destino della Verità». 
Questa «Struttura Originaria» del 1958 (che costituisce il fondamento del pensiero di E. Severino (Il Filosofo della Verità, vedi pubbl. Marzo 2013) mostra che le «Cose» del mondo non possono essere illusione, ma sono «Essenti», e dunque sono «Eterne», «Tutte»; sì che il loro variare non può essere inteso come il loro provvisorio sporgere dal «Nulla», ma come il «Comparire e lo Scomparire degli Eterni». 
La «Struttura Originaria» non è l’ Essere, dunque, non è l’ Immutabile: è l’ apertura di un «Senso», preso nel significato che tutto ciò che appare è un «Senso» (la Pianta, Il Tavolo, Hegel, ecc. ecc.), il quale «Senso» è l’ unico rispetto a cui ogni «Negazione» è impossibile. Dunque l’apertura di un «Senso» all’ interno del quale appare l’impossibilità di «Negare» che l’ «Ente» sia ciò che appare, e che ciò che appare sia, come ogni «Ente», «Eterno». 
Il Destino della «Verità» sta al di là di tutto ciò che si è pensato intorno alla «Verità» e al Destino: è il «Firmamento» del Destino che brilla e da sempre appare nel più profondo Cuore di ognuno di noi. Vicinissimo e insieme lontanissimo da esso, Parmenide lo chiama il Cuore, Non Tremante, della ben recintata «Verità». 
Con Parmenide la Filosofia si presenta come sfida al comune modo di pensare degli uomini e, contrapponendo La «Via della Verità» (Alétheia) alla «Via dell’ Opinione» (Dóxa), apre quell’antitesi tra «Ragione ed Esperienza» che Empedocle, Anassagora e Democrito tenteranno, in modi diversi, di risolvere .

venerdì 9 gennaio 2015

SENSO DEL TUTTO E PROBLEMA DEL «NULLA»


La Filosofia greca scorge nella vita stessa il pericolo estremo: l'annientamento delle cose che peraltro provengono dal «Nulla». Sperimenta l'angoscia estrema. Con la Filosofia l'uomo vuole quindi veramente salvarsi, avere cioè quella vera «Potenza» che manca al mito e che vive solo in quanto unita alla «Ragione». La «Ragione» svela l' «Ordinamento Immutabile e Divino», adeguandosi al quale l'uomo e lo Stato sono veramente potenti. Già in Eschilo questo discorso è esplicito. E si estende man mano, producendo la tradizione europea che culmina nel pensiero di Hegel. Cultura, Cristianesimo, Impero romano, Chiesa, Sviluppo economico e giuridico, Rinascimento, Stato nazionale moderno, Riforma, Scienza moderna, Illuminismo, Democrazia, Capitalismo, Comunismo, rispecchiano in sé, in modi diversi e spesso opposti, quel discorso originario. Ma dopo Hegel l' unità di «Potenza» e «Ragione» tramonta: in quanto conoscenza della «Verità incontrovertibile», la «Ragione» è respinta e l' Europa concepisce e realizza se stessa come pura «Potenza»
Se l' Europa è dapprima unità di «Potenza» e «Ragione», e poi rimane pura «Potenza», l' Europa è allora una frattura, non un' «identità». Due, non un' unico spazio in cui crescano le differenze e le opposizioni. E invece non è così: lo spazio è unico. La «Potenza» si unisce alla «Ragione» per salvare l' uomo dal «Nulla» da cui le cose sporgono provvisoriamente. È questo modo di intendere l' «Esser cosa» delle cose e innanzitutto dell'uomo, a costituire lo spazio-unico in cui crescono sia la tradizione europea, sia la sua distruzione. 
Prima, a proteggere le cose minacciate dal «Nulla» c' è Dio (o quella sua versione laica che è lo Stato moderno di diritto); poi si crede che a proteggere uomo e cose non vi sia altro che l'agire dell'uomo. Ma resta identico il modo in cui l' «Esser cosa» è concepito e vissuto. Ed esso finisce per esser presente e attivo non solo nei filosofi, nei giuristi, negli uomini di Stato, negli storici, eccetera, ma nell'uomo comune, nel taglialegna, nel pescatore, nell'artigiano, nel padrone e nel servo, nel capitalista e nell' operaio. 
In ambito scientifico cresce l’insofferenza per la Filosofia. Vi sono buone ragioni. Quanto vi è oggi di decisivo nel pensiero filosofico, infatti, tende a rimanere sullo sfondo. Accade anche, però, che insieme all’insofferenza cresca anche, nella Scienza, l’interesse per i problemi che sono sempre stati propri del pensiero filosofico. Relativamente ai quali essa crede di poter andare molto più a fondo. Ad esempio, la Scienza si propone di giungere finalmente a una «Teoria del Tutto». Connesso alla quale è il problema del «Nulla». Il «Tutto» è infatti la regione al di là della quale resta, appunto, «Nulla». 
Il problema è presente in ogni ambito della Scienza e della Cultura. E innanzitutto nella vita dell’uomo; egli desidera la vita e teme la morte. In che rapporto sta la morte col «Nulla»? La morte è l’annullamento di ogni nostra esperienza? Per vivere occorre cibo e riparo. Per ottenerli si sono sperimentate diverse tecniche e forme economiche. 
Il Capitalismo è divenuto quella dominante. L’economista Joseph Schumpeter ha definito il Capitalismo «distruzione creatrice». (Crea nuovi mezzi di produzione, quindi nuovi rapporti sociali, e distrugge i vecchi. Ma poi ogni tecnica è distruzione creatrice). E in che rapporto stanno la «distruzione» e la «creazione» col «Nulla»? Hanno «Senso» queste parole se non si pensa il «Nulla»? Per le religioni monoteistiche, le «religioni del libro», il mondo è creato «dal Nulla», ex nihilo, dice la teologia cristiana. 
Il Cristianesimo perderebbe gran parte della propria anima e del proprio significato se volesse prescindere dal «Nulla» che tutte le cose sono prima della loro creazione. 
Assenza, privazione, mancanza, vuoto, perdita, estinzione, silenzio: non sono forse essi gli stati in cui il mondo si trova quando i suoi contenuti e le sue forme diventano «Nulla»? Diciamo continuamente che «qualcosa non esiste ancora» e «non esiste più». Lo si dice ovunque, in ogni campo. Ovvio che queste espressioni siano presenti nella Biologia, nella Paleontologia, nella Storia; la stessa Biologia molecolare parla di «storicità» dei fenomeni, nella fisica e così via. Ma quelle due espressioni non significano forse, rispettivamente, che qualcosa è ancora «Nulla» ed è ormai «Nulla»? 
Della filosofia non c’è bisogno di parlare: è essa a portare alla luce il significato radicale del «Nulla»:  il «Nulla come Nulla» assoluto, l’assolutamente altro dalla totalità degli enti, e a continuare a rivolgersi ai problemi suscitati da tale significato. Il rivolgersi ad esso è l’inizio della storia dell’Occidente, ossia di ciò la cui essenza domina il Pianeta. Il fisico Luke Barnes, delle tesi del collega Lawrence Krauss, ha criticato soprattutto quella per la quale, essendo pensabile che l’universo provenga da uno stato privo di materia, di particelle, di spazio, di tempo, di leggi, è possibile pensare che esso e le cose in esso contenute provengano dal «Nulla». Barnes obbietta che se si può concedere che le particelle provengano da stati senza particelle, esse però non provengono dal «Nulla». Lo stesso si dica per lo spazio e il tempo. 
Aristotele l’aveva detto più di duemila anni fa: all’inizio del generarsi delle cose non c’è il «Nulla», ma «qualcosa»; «le cose si generano da qualcosa a qualcosa». Ma chiediamoci: ammesso che una casa sia costruita col materiale di costruzione, col progetto dell’architetto e il lavoro degli operai, tutte cose che esistono già prima della casa, questo vuol forse dire che tutto ciò che la casa ora è preesisteva alla sua costruzione? No! altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di costruirla. C’è dunque un «residuo» che prima della costruzione della casa non esisteva ancora. E che significa questo suo non essere ancora? Diciamolo: questo «residuo» era «Nulla». Non in qualche «Senso» «Nulla» e in qualche altro no, ma era assolutamente «Nulla». Se le particelle provengono da stati senza particelle, ossia da qualcosa, ciò non significa che tutto ciò che le costituisce esisteva già, prima della loro esistenza; quindi c’è un «residuo» che prima che esse incominciassero ad esistere era «Nulla», assolutamente «Nulla». Che le cose vengano da qualcosa e che, insieme, vengano dal loro «Nulla» non sono dunque affermazioni incompatibili, ma l’una implica l’altra. Appunto perché all’inizio del «divenire» c’è il loro «Esser Nulla», non la nullità di tutte le cose
Ma una volta detto che l’uomo continua a pensare al «Nulla» e a parlarne, il problema del «Nulla» si presenta in tutta la sua potenza. Il «Nulla» è la fonte dell’angoscia più profonda dell’uomo. (Agostino è arrivato a dire che gli uomini preferirebbero la dannazione eterna al loro definitivo annullamento). Tuttavia, sin dall’inizio del pensiero filosofico si sa che, proprio perché pensiamo il «Nulla» e ne parliamo, proprio per questo il «Nulla» ci sta dinanzi e ci dà da fare, così potente da esser la fonte della nostra angoscia. Accade cioè che il «Nulla» sia qualcosa. Ciò che non è un «qualcosa» è «qualcosa». E poiché ovunque noi abbiamo a che fare col «Nulla», ovunque noi ci troviamo nell’oscurità più profonda, giacché la più profonda radice di ogni oscurità è credere, appunto, che il «Nulla», l’assolutamente «Nulla», sia qualcosa, e vivere conformemente a questa convinzione. 
L’intero universo è sbilanciato, spaesato, sfigurato e noi viviamo in esso, sbilanciati, spaesati, sfigurati, per quanto grandi e belle e potenti siano le cose da noi fatte e pensate. Nell’oscurità, che «Senso» possono avere la salvezza, la felicità, il piacere? Infatti, anche se non vogliamo riconoscerlo, noi, in fondo, un fondo che spesso si lascia vedere, siamo sempre scontenti di ciò che siamo ed abbiamo. Ma non è questa l’ultima parola. L’assurdo non ha partita vinta. Bisogna, però saperla giocare. La si gioca male quando, ad esempio, si crede di vincerla decidendo che la parola «Nulla» è assolutamente priva di «Senso». Qui si gioca male, perché l’espressione «ciò che è assolutamente privo di Senso» è un sinonimo della parola «Nulla». Gettato dalla finestra, il «Nulla» rientra dalla porta. «l’ultimo orizzonte», come chiamarlo altrimenti, ci rende liberi dalla minaccia e dall’assurdo del «Nulla». E’ inevitabile che, qui, il discorso sul «Nulla» rimanga in sospeso, e forse fin troppo pericolosamente in sospeso. Si tratta di scorgere il «Senso» autentico dell’ambiguità del «Nulla». Giacché soprattutto di esso è necessario dire: Nec tecum , nec sine te (Né Con Te, Né Senza Te).


domenica 4 gennaio 2015

IL RIFIUTO: ORIGINE E FONDAMENTA DELLA VITA UMANA


La vita dell'uomo incomincia con un «Rifiuto». La vita cosciente , cioè quella in cui il Mondo si manifesta. Tale «Rifiuto» nega che il giorno sia notte, l'acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione è presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Tale «Rifiuto» sta all'«origine e alle fondamenta della vita umana», la domina e la comanda: tutte parole, queste, che corrispondono all'antica parola greca «Arché», che viene tradotta anche con Principio. 
Già per la Filosofia Greca il «Rifiuto» che qualcosa sia altro da sé è «l'Arché» di tutta la conoscenza. Ma la Filosofia intende il «Rifiuto» originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il «Rifiuto» è un voler negare che il giorno sia notte, l'acqua pietra, e così via. La Filosofia sostiene che queste negazioni non sono semplicemente un volere, ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la «Verità originaria». 
Aristotele dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un'unica «Arché», che è la più salda di tutte le conoscenze. Più tardi questa «Arché» sarà chiamata «Principio di Non Contraddizione». Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo Principio dalla «Volontà», facendone la suprema «Verità incontrovertibile», è destinato a fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Giacomo Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della Filosofia contemporanea. 
Per Popper tale Principio è sì il fondamento dell'atteggiamento razionale: senza di esso crollerebbe l'intero edificio della scienza; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una Fede irrazionale ; e quindi è innanzitutto il «Principio di Non Contraddizione» ad esser dominato e guidato da una «Volontà» (Fede) senza «Verità». 
Al di sotto della propria maschera tale Principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la «Volontà» che le cose stiano nel modo da esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato l'unico grande tentativo, compiuto da Aristotele, di sottrarre quel Principio all'arbitrio della «Volontà»). Tale Principio serve certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera. 
Ma tutta questa vicenda , la storia cioè del «Rifiuto» originario , copre e nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il «Rifiuto» autentico, ossia l'autentica negazione che le «Cose» siano altro da ciò che esse sono: il «Rifiuto» che dunque non è né «Volontà», né il fallito tentativo filosofico di liberare il «Rifiuto» dalla «Volontà». Dall'altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna «Cosa» può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni «Cosa» è se stessa), proprio per questo ogni «Cosa» è «Eterna». Ogni «Cosa» , dunque ogni stato di «Cose», ogni stato del mondo e dell'anima, ogni situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo. 
La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è «Eterno», ma non lo afferma perché ogni «Cosa» non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il «Rifiuto» autentico, sia l'«Eternità» (anch'essa da intendere autenticamente, cioè in «Senso» essenzialmente diverso da quello che le compete lungo tale vicenda). 
La consistenza del passato è implicata dall'«Eternità» di ogni «Cosa» , non nel «Senso» che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel «Senso» che il fluire del tempo non porta via con sé, nel «Nulla», questa luce, che invece è, «Eterna» , e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.