giovedì 29 ottobre 2015

INTELLETTO


Dopo aver preso in esame la «Sapienza», come primo dei sette doni dello Spirito Santo, puntiamo l’attenzione sul secondo dono, cioè l’«Intelletto». Non si tratta qui dell’intelligenza umana, della capacità intellettuale di cui possiamo essere più o meno dotati. È invece una grazia che solo lo “Spirito Santo” può infondere e che suscita nel cristiano la capacità di andare al di là dell’aspetto esterno della realtà e scrutare le profondità del pensiero di Dio e del suo disegno di salvezza. 

L’apostolo Paolo, rivolgendosi alla comunità di Corinto, descrive bene gli effetti di questo dono - cioè che cosa fa il dono dell’«Intelletto» in noi - e Paolo dice questo: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito» (1 Cor 2,9-10). 

Questo ovviamente non significa che un cristiano possa comprendere ogni cosa e avere una conoscenza piena dei disegni di Dio: tutto ciò rimane in attesa di manifestarsi in tutta la sua limpidezza quando ci troveremo al cospetto di Dio e saremo davvero una cosa sola con Lui. Però, come suggerisce la parola stessa, l’«Intelletto» permette di “intus legere”, cioè di “leggere dentro”:questo dono ci fa capire le cose come le capisce Dio, con l’intelligenza di Dio. Perché uno può capire una situazione con l’intelligenza umana, con prudenza, e va bene. Ma capire una situazione in profondità, come la capisce Dio, è l’effetto di questo dono. 

E Gesù ha voluto inviarci lo "Spirito Santo" perché noi abbiamo questo dono, perché tutti noi possiamo capire le cose come Dio le capisce, con l’intelligenza di Dio. E’ un bel regalo che il Signore ha fatto a tutti noi. E’ il dono con cui lo “Spirito Santo” ci introduce nell’intimità con Dio e ci rende partecipi del disegno d’amore che Lui ha con noi. 

E’ chiaro allora che il dono dell’«Intelletto» è strettamente connesso alla fede. Quando lo “Spirito Santo” abita nel nostro cuore e illumina la nostra mente, ci fa crescere giorno dopo giorno nella comprensione di quello che il Signore ha detto e ha compiuto. Lo stesso Gesù ha detto ai suoi discepoli: io vi invierò lo “Spirito Santo” e Lui vi farà capire tutto quello che io vi ho insegnato. 

Capire gli insegnamenti di Gesù, capire la sua Parola, capire il Vangelo, capire la Parola di Dio. Uno può leggere il Vangelo e capire qualcosa, ma se noi leggiamo il Vangelo con questo dono dello “Spirito Santo” possiamo capire la profondità delle parole di Dio. E questo è un gran dono, un gran dono che tutti noi dobbiamo chiedere e chiedere insieme: Dacci, Signore, il dono dell’«Intelletto». 

C’è un episodio del Vangelo di Luca che esprime molto bene la profondità e la forza di questo dono. Dopo aver assistito alla morte in croce e alla sepoltura di Gesù, due suoi discepoli, delusi e affranti, se ne vanno da Gerusalemme e ritornano al loro villaggio di nome Emmaus. Mentre sono in cammino, Gesù risorto si affianca e comincia a parlare con loro, ma i loro occhi, velati dalla tristezza e dalla disperazione, non sono in grado di riconoscerlo. Gesù cammina con loro, ma loro sono tanto tristi, tanto disperati, che non lo riconoscono. 

Quando però il Signore spiega loro le Scritture, perché comprendano che Lui doveva soffrire e morire per poi risorgere, le loro menti si aprono e nei loro cuori si riaccende la speranza (cfr Lc 24,13-27). E questo è quello che fa lo “Spirito Santo” con noi: ci apre la mente, ci apre per capire meglio, per capire meglio le cose di Dio, le cose umane, le situazioni, tutte le cose. E’ importante il dono dell’«Intelletto» per la nostra vita cristiana. Chiediamolo al Signore, che ci dia, che dia a tutti noi questo dono per capire, come capisce Lui, le cose che accadono e per capire, soprattutto, la Parola di Dio nel Vangelo.


venerdì 23 ottobre 2015

SAPIENZA


Il primo dono dello “Spirito Santo”, è la «Sapienza». Ma non si tratta semplicemente della saggezza umana, che è frutto della conoscenza e dell’esperienza. Nella Bibbia si racconta che a Salomone, nel momento della sua incoronazione a re d’Israele, aveva chiesto il dono della «Sapienza» (cfr 1 Re 3,9). E la «Sapienza» è proprio questo: è la grazia di poter vedere ogni cosa con gli occhi di Dio. E’ semplicemente questo: è vedere il mondo, vedere le situazioni, le congiunture, i problemi, tutto, con gli occhi di Dio. Questa è la «Sapienza». Alcune volte noi vediamo le cose secondo il nostro piacere o secondo la situazione del nostro cuore, con amore o con odio, con invidia. No, questo non è l’occhio di Dio. La «Sapienza» è quello che fa lo “Spirito Santo” in noi affinché noi vediamo tutte le cose con gli occhi di Dio. E’ questo il dono della «Sapienza». 

E ovviamente questo deriva dalla intimità con Dio, dal rapporto intimo che noi abbiamo con Dio, dal rapporto di figli con il Padre. E lo “Spirito Santo”, quando abbiamo questo rapporto, ci dà il dono della «Sapienza». Quando siamo in comunione con il Signore, lo “Spirito Santo” è come se trasfigurasse il nostro cuore e gli facesse percepire tutto il suo calore e la sua predilezione. Lo “Spirito Santo rende allora il cristiano «Sapiente». Questo, però, non nel senso che ha una risposta per ogni cosa, che sa tutto, ma nel senso che «sa» di Dio, sa come agisce Dio, conosce quando una cosa è di Dio e quando non è di Dio; ha questa saggezza che Dio dà ai nostri cuori. 

Il cuore dell’uomo saggio in questo senso ha il gusto e il sapore di Dio. E quanto è importante che nelle nostre comunità ci siano cristiani così! Tutto in loro parla di Dio e diventa un segno bello e vivo della sua presenza e del suo amore. E questa è una cosa che non possiamo improvvisare, che non possiamo procurarci da noi stessi: è un dono che Dio fa a coloro che si rendono docili allo “Spirito Santo”. Noi abbiamo dentro di noi, nel nostro cuore, lo “Spirito Santo”; possiamo ascoltarlo, possiamo non ascoltarlo. Se noi ascoltiamo lo “Spirito Santo”, Lui ci insegna questa via della saggezza, ci regala la saggezza che è vedere con gli occhi di Dio, sentire con le orecchie di Dio, amare con il cuore di Dio, giudicare le cose con il giudizio di Dio. 

Questa è la «Sapienza» che ci regala lo “Spirito Santo”, e tutti noi possiamo averla. Soltanto, dobbiamo chiederla allo “Spirito Santo”. Dobbiamo chiedere al Signore che ci dia lo “Spirito Santo” e ci dia il dono della saggezza, di quella saggezza di Dio che ci insegna a guardare con gli occhi di Dio, a sentire con il cuore di Dio, a parlare con le parole di Dio. E così, con questa saggezza, andiamo avanti, costruiamo la famiglia, costruiamo la Chiesa, e tutti ci santifichiamo. Chiediamo la grazia della «Sapienza». E chiediamola alla Madonna, che è la Sede della «Sapienza», di questo dono: che Lei ci dia questa grazia. 

venerdì 16 ottobre 2015

I SETTE DONI DELLO SPIRITO SANTO (PREMESSA)




















Lo “Spirito Santo è un dono che custodisce altri doni. Come un melograno che ha all’interno tanti semi, così lo «Spirito» porta nuovi doni per spargerli nella nostra vita affinché portino frutti buoni. I doni dello «Spirito» sono tantissimi, la Chiesa ha scelto “sette” (numero che simbolicamente dice pienezza, completezza) doni per ricordarli tutti: «sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio». Sono quelli che si apprendono quando ci si prepara al sacramento della “Confermazione” e che invochiamo nell’antica preghiera detta “Sequenza allo Spirito Santo”.Sette” sono i doni, perché “sette” è il numero della perfezione e della santità. Accogliere e ringraziare per i “Sette doni dello Spirito Santo” significa lasciare che la santità di Dio entri dentro di te e cambi il tuo cuore. Ecco cosa significa accogliere i “Sette doni dello Spirito Santo”: essi ti rendono forte per aiutare gli altri, non per sopraffarli, ti rendono intelligente per scegliere ciò che è giusto e rifiutare cosa non lo è, ti rendono sensibile per vincere l’indifferenza del mondo. 

lo “Spirito Santo costituisce l’anima, la linfa vitale della Chiesa e di ogni singolo cristiano: è l’Amore di Dio che fa del nostro cuore la sua dimora ed entra in comunione con noi. Lo “Spirito Santo” sta sempre con noi, sempre è in noi, nel nostro cuore. Lo «Spirito» stesso è «il dono di Dio» per eccellenza (cfr Gv 4,10), è un regalo di Dio, e a sua volta comunica a chi lo accoglie diversi doni spirituali. 

I doni dello Spirito Santo sono regali che lui ci fa per affinarci di più a sé. Troviamo questi doni enumerati nel Libro del profeta Isaia al capitolo 11 dove parlando del Messia che verrà il profeta dice che sarà ricoperto dello Spirito del Signore che è spirito di Sapienza ecc. ecc.. È interessante notare che nell’originale ebraico erano nominati solo sei doni, mancava la pietà, quando invece è stata preparata la versione greca chiamata dei 70 (circa un secolo prima di Cristo), essi introdussero anche la pietà perché nella lingua greca il termine timore di Dio non rendeva la pienezza di significati del corrispondente ebraico. 

I “sette” doni ci sono dati perché nello Spirito Santo portiamo frutti, noi che ora siamo innestati nella vite vera. I frutti dello Spirito santo li conosciamo da Galati 5,22-23. Nella sequenza allo Spirito Santo diciamo: «Senza il tuo spirito non c’è nulla nell’uomo senza colpa». Il Signore vuole darci questi doni ma tocca a noi aprirci. Gv 7,37: «Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». E diceva questo riferendosi allo “Spirito Santo". Abbiamo dunque la certezza di questi doni. 

La Risurrezione ha realizzato in pienezza il disegno salvifico del Redentore, l'effusione illimitata dell'amore divino sugli uomini. Spetta ora allo «Spirito» coinvolgere i singoli in tale disegno d'amore. Per questo c'è una stretta connessione tra la missione di Cristo e il dono dello Spirito Santo, promesso agli apostoli, poco prima della Passione, come frutto del sacrificio della Croce. «Lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti» (Rm 8,11) deve abitare in noi e portarci ad una vita sempre più conforme a quella del Cristo risorto.

Tutto il mistero della salvezza è evento dell'amore trinitario, dell'amore che intercorre tra Padre e Figlio nello Spirito Santo. La Pasqua ci introduce in questo amore mediante la comunicazione dello Spirito Santo, «che è il Signore e dà la vita». Invochiamo l'intercessione della Vergine Maria perché ci sia dato di comprendere più a fondo i doni dello Spirito Santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio), ricordando con fede che su di lei per prima è sceso lo “Spirito Santo” ed «ha steso la sua ombra la potenza dell'Altissimo» (cfr. Lc 1,35) (Giovanni Paolo II, Regina Coeli, 2 aprile 1989).

sabato 10 ottobre 2015

I DIECI COMANDAMENTI (Dt 5)


Col classico appello del Deuteronomio: «Ascolta Israele!», si apre ora il "secondo discorso" di Mosè che costituirà quasi il corpo centrale di tutto il libro. Infatti al suo interno è contenuto un monumentale codice di leggi che occuperà i capitoli 12-26. Il tono è, però, sempre quello di una predicazione viva e intensa, fatta per coinvolgere l’uditorio nell’adesione alla legge del Signore. Si riprende ancora una volta, con poche pennellate, la Rivelazione dell’Oreb-Sinai e si ripropone il "Decalogo". Sappiamo già che la prima presentazione dei “dieci comandamenti” è avvenuta nel capitolo 20 del libro dell’Esodo. 

Ora cercheremo soprattutto di sottolineare le variazioni che il Deuteronomio introduce rispetto al testo dell’Esodo. La parola di Dio, infatti, non è conservata in modo freddo e ripetitivo ma viene resa sempre viva e attuale. Si comincia col primo comandamento sulla purezza della Fede e contro le tentazioni idolatriche. Questo comandamento, radice degli altri e della stessa alleanza di Israele con Dio, costituirà – come si è già detto – uno dei temi più cari dell’intero libro. Dopo il comandamento sul “nome” divino da non violare “invano”, cioè con un uso magico e offensivo, appare “la prima notevole variante. Essa è nel comandamento sul Sabato. 

Il riposo e il culto del sabato, nel capitolo 20 dell’Esodo (versetti 8-11), erano considerati una celebrazione dell’opera della creazione (Genesi 2,1-4). Ora, invece, il sabato è visto come memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto; è quindi il giorno della libertà, in cui ci si deve ricordare del Signore che vince ogni oppressione e invita Israele a superare ingiustizia e schiavitù. Si passa poi alla serie degli altri comandamenti già noti: il rispetto dei genitori e della famiglia, la condanna dell’omicidio, dell’adulterio, del furto, della falsa testimonianza processuale. 

Con l’ultimo comandamento, che unisce il nono e il decimo sotto l’imperativo del «non desiderare» (cioè del non progettare il male), si ha “la seconda variazione di rilevo. La Donna viene anticipata rispetto alla casa, al campo, agli schiavi, agli animali del prossimo: si tempera, così, la visione arcaica maschilista che riduceva la donna a un bene di proprietà della famiglia. Il Decalogo è sigillato da una nuova descrizione della visione divina del Sinai.Fuoco, nube, oscurità, voce poderosa, tavole di pietra, da un lato, e dall’altro il timore di Israele di fronte a un’esperienza così straordinaria e diretta di Dio, mentre Mosè appare come il mediatore tra il Signore e il popolo: questi elementi vogliono ribadire la grandezza di quell’evento ed esaltare la disponibilità degli Israeliti ad accogliere la missione di popolo eletto. Rimanendo fedeli al Decalogo, essi saranno felici e vivranno a lungo nella terra promessa.  

                  

I DIECI COMANDAMENTI (Es 20)


















Dal monte Dio parla e le sue «dieci parole» - che ritroveremo con lievi varianti anche nel capitolo 5 del Deuteronomio - costituiscono il cuore della Morale e della Religiosità biblica. Chiamate con il termine greco «Decalogo», queste «dieci parole» si distribuiscono lungo due direzioni: le prime tre sono «verticali» perché regolano i rapporti tra Dio e uomo, le altre sette sono «orizzontali» e riguardano i rapporti col prossimo. Anche Gesù, come i profeti prima di lui, amerà il «Decalogo» e lo ricondurrà alla sua essenza di «amore per Dio e per l’uomo» (Marco 10,17-19). Così farà anche Paolo (Romani 13,9). 

La prima parola  «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavitù…» è il sostegno e la base delle altre  ed è sviluppata sullo schema delle alleanze tra un re e il suo vassallo. C’è, infatti, la memoria del gesto benefico dell’esodo fatto da Dio a cui risponde l’impegno della fede da parte d’Israele. «Non avrai altri dèi davanti a me»: è la negazione dell’idolatria e la celebrazione dell’unico Dio. Si proibiscono poi le raffigurazioni divine, causa di idolatria. L’uomo è «L’Immagine e la Somiglianza» di Dio (Genesi 1,27). Infine, solo a Dio dev’essere destinata la “prostrazione” e il “servizio”, cioè il culto e l’adorazione. Se si violerà questo primo comandamento scatterà il giudizio divino perché Dio è “geloso”, cioè, secondo un’immagine nuziale o giuridica di proprietà, è intransigente ed esclusivo, non tollera che la sua «proprietà» (Esodo 19,5) passi sotto altri padroni. Ma se la giustizia divina, che punisce il peccato, permane fino alla terza e quarta generazione, la benevolenza del Signore è infinita e abbraccia mille generazioni. 

La seconda parola «Non pronuncerai inutilmente il nome del Signore, tuo Dio, perché egli non lascia impunito chi pronuncia il suo nome inutilmente» non è tanto una condanna della bestemmia (cosa quasi impossibile in Oriente) ma la riduzione del “nome”, cioè della realtà stessa di Dio, a qualcosa di “inutile”: questo termine indica nella Bibbia l’idolo. E’, perciò, la condanna della religiosità magica, superstiziosa, che riduce il Signore a semplice idolo. 

La terza parola «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo» riguarda il sabato, la giornata del culto che sostiene l’intera settimana, come si era visto nel racconto della creazione (Genesi 2,1-4). Il fedele vive il “riposo” settimanale entrando in comunione con il suo Dio, lui e tutta la sua famiglia, attraverso il culto. 

Con la quarta parola «Onora tuo padre e tua madre…» si entra nella dimensione sociale del Decalogo. Non è solo in causa il rapporto coi genitori, ma con questo comandamento si allude a tutte le relazioni familiari e sociali da vivere con impegno e generosità. Il padre e la madre, infatti, incarnano tutto il clan familiare, fondamento della società. 

Il diritto alla vita è dichiarato nella quinta parola «Non Uccidere» che, come si vedrà, non esclude alcune uccisioni (guerra santa, giustizia sociale del taglione). 

La sesta parola «Non commettere adulterio» ha al centro la fedeltà matrimoniale più che la morale sessuale in genere e sarà regolata da un complesso sistema di leggi distribuite in altri libri biblici. 

Nel suo significato originale la settima parola divina «Non rubare» riguardava la libertà personale, estesa poi alla proprietà familiare dei beni. Si condannava, quindi, la razzia di persone così da ridurle in schiavitù. Si passò poi a proibire anche il furto di beni di proprietà di quelle persone. 

L’ottava parola «Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» tutelava prima di tutto la testimonianza corretta in sede processuale; poi si è estesa all’intera comunicazione umana. 

La nona e la decima parola, infine, «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, il suo servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino, e tutto quello che appartiene al tuo prossimo» esaltano il diritto alla proprietà familiare: il linguaggio è quello antico, secondo cui la donna è considerata solo un bene tribale. Le donne avevano come principale funzione quella di fare figli, preferibilmente maschi, forza della famiglia patriarcale. Di qui l’importanza della verginità delle ragazze e della fedeltà delle spose, che garantiscono la “purezza” del sangue e “l’onore” del Clan. Il verbo ebraico «Hamad» ha un significato assai più forte dell’italiano «desiderare». Non indica infatti soltanto un’attrazione istintiva o superficiale per degli oggetti, ma la volontà precisa di impadronirsene e possederli. Le parole di Dio sono “incarnate” in un tempo e in una cultura. 

Subito dopo il Decalogo il discorso divino rivolto a Israele si allarga in una serie di norme concrete che avrebbero regolato la vita sociale e religiosa del popolo, una volta che fosse entrato nella terra promessa. In pratica si tratta di leggi posteriori che vengono, però, idealmente trasferite nella loro origine alla rivelazione del Sinai così da essere quasi “canonizzate” e consacrate e presentate come manifestazione della risposta fedele di Israele al Dio della libertà e dell’alleanza. Proprio per questa ragione vengono di solito chiamate «Il codice dell’alleanza» sulla base di un’espressione presente in Esodo 24,7 («Libro dell’alleanza»). 

La numerazione dei dieci comandamenti, che è rimasta nella tradizione cristiana occidentale, è diversa da quella ebraica e cristiana orientale. Nella nostra tradizione si considera la proibizione delle immagini come parte del primo comandamento, e si hanno due comandamenti che proibiscono il «desiderare», uno per la donna e uno per la roba. Nella tradizione ebraica e orientale (e anche in alcune Chiese protestanti) la proibizione delle immagini è contenuta in un comandamento a sé stante, e quelli che per noi sono il nono e il decimo vengono considerati uno solo. 


                 

domenica 4 ottobre 2015

I COMANDAMENTI A SIGILLO DELL’ALLEANZA


Tutti i popoli, fin dalla più remota antichità, hanno avvertito l’esigenza di fornirsi di un «codice morale» per dare uno sviluppo ordinato alle relazioni umane. Israele non fa eccezione a questa regola. Il “Decalogo” è infatti la concreta espressione di questa esigenza. La sua elaborazione è frutto di un lento e graduale processo di maturazione. 

Le varie redazioni delle “dieci parole” che ci sono pervenute (e in particolare le due fondamentali di Esodo 20,1-17 e Deuteronomio 5,6-21) rivelano l’esistenza di contesti sociali e culturali diversi. Alcune prescrizioni hanno un sapore assai arcaico: risalgono cioè al diritto tribale di epoca patriarcale. Altre appartengono invece ad epoche più recenti, qualcuna persino al periodo postesilico. 

Notevoli sono le rassomiglianze tra i contenuti del “Decalogo” e quello di altri codici normativi, sviluppatisi soprattutto presso popoli appartenenti all’area geografica dl bacino mediorientale del Mediterraneo. Basti pensare al “Codice di Hammurabi mesopotamico o al “Libro dei Morti della letteratura egizia. Ma l’originalità del “Decalogo” consiste nel suo inserimento vitale nel quadro del patto sinaitico. Le “dieci parole” non rappresentano semplicemente il tentativo di Israele di darsi un ordinamento sociale adeguato. Sono l’ordinamento del popolo dell’alleanza

L’esperienza che Israele fa di Dio come alleato è esperienza di un rapporto di mutua appartenenza: JHWH è il Dio di Israele e Israele il popolo di JHWH. La conservazione e l’approfondimento di questo rapporto esigono da parte del popolo l’osservanza di precise clausole nelle quali è condensata la volontà di JHWH. Il “Decalogo” è la parte più importante delle clausole del patto, quella che riguarda più direttamente la vita morale. La sua stessa codificazione in formule brevi, di carattere imperativo-negativo, evidenzia il dinamismo interpersonale proprio dell’alleanza. JHWH interviene in prima persona rivolgendosi immediatamente al popolo e sollecitandolo ad aderire alla legge. 

Ciò spiega anzitutto la novità delle prescrizioni iniziali – quelle contenute nella prima tavola – che sono tipicamente israelitiche, e giustifica soprattutto la loro radicale priorità. Il riconoscimento dell’azione liberatrice di JHWH, che, sottraendo Israele alla schiavitù dell’Egitto, lo ha costituito come popolo, deve tradursi in un atto di totale sottomissione a lui. Il rifiuto di ogni forma di politeismo idolatrico e la proibizione delle immagini e dello stesso uso del nome stanno ad indicare la sua assoluta sovranità. JHWH è un Dio trascendente che l’uomo non può possedere e manipolare a proprio piacimento. 

Anche i doveri verso il prossimo, che formano il tessuto della seconda tavola del “Decalogo”, acquistano pieno significato dal loro inserimento entro questo orizzontale religioso. Le norme non hanno la pretesa di esaurire l’intero quadro dei valori: sono, più semplicemente, l’indicazione di alcune esigenze etiche minime, tese a garantire la sussistenza del popolo e a favorire l’articolarsi, al suo interno, di una convivenza pacifica. I vari precetti propongono, infatti, altrettante istanze morali, che tutelano i diritti fondamentali della persona, divenendo la base di ogni rapporto umano. 

Il “Decalogo si presenta così come una sorta di piattaforma etica destinata a definire l’identità di Israele e a consentire uno sviluppo ordinato della vita associata. Le “dieci parole” sono perciò lo strumento per la conservazione e l’approfondimento dell’«alleanza». La Legge non è per Israele il fine ultimo della vita morale e neppure la via per l’auto giustificazione. E’ la strada obbligata che occorre percorrere se si vuole entrare sempre più profondamente nella comunione di vita con JHWH. 

Essa non è dunque Legge in senso giuridico, ed è molto più che Legge morale. E’ espressione della confessione di “Fede” in JHWH come liberatore e condizione per il proseguimento del processo di liberazione. La vita morale di Israele è tutta sotto il segno della sua vocazione. Il popolo che Dio ha eletto con un "atto d’amore gratuito" è un popolo sacerdotale, votato al suo servizio e destinato a portare la salvezza all’intera umanità. 

I comandi che Dio imparte sono la diretta conseguenza dei benefici che Egli ha elargito. Il dono di Dio fa appello alla risposta dell’uomo; reclama, in altri termini, una piena assunzione di responsabilità verso gli altri e verso il mondo. La morale dell’ “Antico Testamento” è una morale essenzialmente dialogica, costruita sulla base di una reale reciprocità. L’«alleanza» descrive il cammino che Dio ha fatto per incontrare di nuovo l’uomo; mentre i comandamenti – e in particolare quelli della prima tavola – sottolineano l’infinita distanza che tuttora permane. Il Dio che era lontano si è fatto vicino; ma il Dio vicino ricorda all’uomo che Egli rimane un Dio lontano, altro, inaccessibile, persino innominabile. 

Questa distanza apre lo spazio all’azione dell’uomo nel mondo, sollecitandolo ad esercitare il discernimento nei confronti delle diverse situazioni e ad assumersi responsabilmente il compito di costruire la storia. L’etica, che gli Israeliti si sono dati e che hanno progressivamente arricchito mediante la produzione di norme sempre più dettagliate, garantisce la possibilità di dare concreta attuazione a questo compito. E’ un’etica che fornendo ad Israele una solida base comune cementa la coesione interna e orienta costruttivamente l’impegno verso l’esterno. 

Ma è soprattutto un’etica che, ricevendo il suo ultimo suggello dall’esperienza fondamentale di essere popolo di Dio, alimenta nelle coscienze il senso dell’appartenenza a JHWH e l’esigenza di renderla trasparente nel compimento di una missione, che ha come obiettivo la piena realizzazione del suo disegno di salvezza.

      

giovedì 1 ottobre 2015

L’ALLEANZA CON DIO: PATTO D’AMORE




























La Bibbia descrive la graduale rivelazione di Dio e la risposta dell’uomo all’auto-comunicarsi divino, soprattutto mediante il termine «alleanza», traduzione abituale dell’ebraico “Berît”. Questa parola attestata 287 volte nell’Antico Testamento significa «impegno, promessa» avvalorata da «giuramento», obbligazione che Dio prende con se stesso o richiede all’uomo: solo quando l’obbligazione è reciproca e accettata come vincolante, per cui l’infedeltà di uno libera l’altro dalla promessa fatta, si parla propriamente di «alleanza», cioè di un patto bilaterale condizionato dall’agire dei contraenti. 

Il termine «alleanza» traduce pertanto due diverse concezioni bibliche, quella di impegno unilaterale preso da Dio in favore dell’uomo per sola bontà, per puro dono, e quello di reciprocità, dove la risposta umana all’iniziativa divina è richiesta come condizione vincolante perché il patto continui ad esistere: delineiamo innanzitutto i momenti relativi a questa seconda prospettiva del testo sacro. L’«alleanza» come trattato bilaterale trova la sua realizzazione prima ed esemplare nell’esperienza vissuta al Sinai dal Popolo. 

Questi, uscito dalla schiavitù egiziana e sollevato su ali di aquila (cfr. Esodo 19,4), solo dopo l’accettazione libera e corale (Esodo 19,8; 24,3.7) degli impegni proposti da Dio (decalogo e codice), giunge all’alleanza mediata da Mosè: «Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha contratto con voi in base a tutte queste parole» (24,8). Un accresciuto impegno del popolo è evidenziato in quella meditazione/approfondimento dell’esperienza dell’esodo che è il Deuteronomio: «Egli sarà il tuo Dio, se tu cammini per le sue vie, osservi i suoi comandamenti, i precetti e ascolti la sua voce» (26,17). 

Altri due momenti significativi vedono un simile rinnovamento: all’inizio della monarchia con Davide, sulla base di qualche elemento del patto (cfr. 2Samuele 7; Salmo 89), e verso la fine dell’epoca regia, durante la riforma di Giosia del 622  (cfr. 2Re 22), sulla base dell’osservanza piena di un testo della legge, ritrovato durante gli scavi nel tempio. «Il re concluse alla presenza del Signore l’alleanza che gli imponeva di seguire il Signore, di custodire i suoi comandamenti, le sue leggi e i suoi precetti con tutto il cuore e con tutta l’anima, al fine di attuare le clausole dell’alleanza scritte in questo libro. Tutto il popolo aderì all’alleanza» (2Re 23,3). 

Il rapporto Dio/uomo concepito come patto bilaterale, dove l’agire umano condiziona il rapporto con Dio, è miseramente fallito, poiché è sfociato in quella perdita di tutti i doni divini rappresentata dall’esilio. Eppure i sette secoli di questo regime hanno visto il perdono (Esodo 34,6-7), il sostegno di grazie e di istituzioni (sacerdozio, monarchia, profetismo) e soprattutto lo slancio impressogli da Osea, seguito da altri profeti, di una concezione sponsale (coniugale) dove i rapporti non sono più regolati da rigidi e stereotipati trattati politico-militari, ma vivificati da una tenerezza fedele e creativa. 

La riflessione di Geremia sull’infedeltà secolare del popolo (capitoli 2-3) e approfondita in suggestive pagine da Ezechiele (capitoli 16-20.23) porta a concludere alla necessità di una “Berît” «nuova» (Geremia 31,31). La novità consiste nel primato assoluto attribuito all’agire di Dio impegnato a trasformare l’uomo senza lasciarsi condizionare dalla sua condotta negativa. Così Geremia si riallaccia all’«alleanza» patriarcale, innanzitutto a Noè (Genesi 9,8-17) gratificato di un segno, l’«arcobaleno», con cui Dio si impegna unilateralmente a non mandare più il Diluvio. Mentre si riallaccia ad Abramo, rinnovando l’«alleanza» sinaitica senza abolirla, Geremia annuncia un intervento divino in quella sede dei pensieri, della volontà, in quell’io profondo, singolare e irripetibile che è il cuore umano. 

Qui dove regnava il peccato sarà scritta la volontà divina, capace di trasformare il dovere in bisogno e la legge in desiderio del cuore. La conclusione di Geremia (31,31-34) è l’ultimo momento di una lunga riflessione su che cosa deve accadere nell’uomo, perché non rifiuti ulteriormente («non violi più») la comunione con Dio. 

Il passaggio dalla prescrizione esteriore all’iscrizione interiore implica quella sintonia di «mente» e di «cuore» che è il «conoscere», e l’abbattimento di quella barriera che è il peccato. La «nuova alleanza» è il cambiamento della modalità di conoscenza della volontà divina, capace do donare all’uomo un «cuore nuovo» e di rinnovarlo continuamente con lo «Spirito»: è una proiezione verso quel «compimento» dell’ultima cena dove Gesù si impegna verso l’uomo con il suo sangue, il «sangue della nuova alleanza» (cfr. Luca 22,20).