domenica 27 settembre 2015

DIO E’ AMORE


La “benedizione” del Salmo 103 sembra essere un’anticipazione del «Dio è amore» della prima lettera di Giovanni (4,8): «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». Inno di celebrazione a Dio, canto di ringraziamento, meditazione sapienziale sulla caducità umana, comparata all’eterna misericordia di Dio, si fondono armonicamente in questo canto che è ordinato in «due» grandi momenti. Nel primo (versetti 4-10) si esaltano l’«amore» e il «perdono» di Dio. Il suo volto è quello della tenerezza e della pietà e i suoi “nomi” sono: colui che perdona, che guarisce, che salva, che corona di grazia, che sazia di beni, che rinnova la vita, che opera la salvezza e la giustizia per gli oppressi, che si rivela, che è buono, pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. 

La seconda parte del canto (versetti 11-19) accosta amore eterno di Dio e fragilità umana. Tre paragoni parlano della tenerezza del Signore (il vocabolo ebraico parla delle “viscere” materne di Dio). I primi due definiscono le dimensioni dello spazio, la verticale e l’orizzontale, come avvolte dalla misericordia divina (versetti 11-12). La terza immagine rimanda alla profondità psicologica dell’amore paterno (versetto 13). Appare, così, l’idea della paternità di Dio anche nei confronti del singolo e non solo di tutto Israele. 

Due sono,invece, i paragoni usati per descrivere la fragilità creaturale dell’uomo. Innanzitutto si ricorre all’immagine classica della creta plasmata dal vasaio (versetto 14), usata anche nella creazione dell’uomo (Genesi 2,7). Nota è anche  la seconda comparazione, già incontrata nel Salmo 90,5-6: «sono come l’erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia». Un fiore meraviglioso è sbocciato in un campo verdeggiante. Il vento del deserto gli piomba addosso col suo soffio infuocato e il fiore si dissecca  riducendosi a un po’ di polvere irriconoscibile. Dio, però, si china su questo essere caduco che è l’uomo e lo avvolge con la sua benignità che «dura in eterno per quanti lo temono» (versetto 17). Fondandoci sulla fede in Dio – suggerisce il salmista –, noi usciamo dal limite creaturale e ci immergiamo nell’«infinito» e nell’«eterno».    

La nostra riflessione, ora, si concentra sulla Prima Lettera di Giovanni che proprio nell’’«amore» ha il filo d’oro che intesse quasi tutti i suoi cinque capitoli. Il testo dei versetti 7-12 del capitolo 4 è una vera e propria guida dell’amore cristiano. Il verbo «amare» e i suoi derivati risuonano tredici volte in poche righe quasi come un ritornello musicale e spirituale. L’amore nella visione di Giovanni si presenta con due dimensioni intimamente intrecciate. 

La prima è quella «verticale» ed è la fondamentale: «L’amore è da Dio», anzi per definizione «Dio è amore». L’azione essenziale di Dio è l’amore. E il suo amore precede ogni altro amore, è lui che ama per primo e questo suo amore è visibile, sperimentabile, palpabile (1Giovanni 1,1-2), si è fatto persona nel Figlio Gesù. Commentando questa Lettera, sant’Agostino afferma: «Se niente altro a lode dell’amore fosse stato scritto nel resto della Lettera, o meglio nel resto della Scrittura, e noi avessimo udito dalla bocca dello Spirito di Dio solo quella dichiarazione “Dio è amore”, non dovremmo cercare nient’altro». 

Questo amore viene rivelato nel Figlio di Dio. Questo non significa che in Dio non vi fosse amore prima della venuta del Cristo in mezzo a noi. Dio è sempre amore, ma nell’incarnazione di Gesù Dio rivela in modo diretto ed esplicito ciò che sempre egli è, era e sarà. 

La seconda dimensione dell’amore è «orizzontale» e nasce dalla precedente. Chi ama rivela di essere stato amato da Dio ed è come se fosse stato da lui generato, è suo figlio, è in un rapporto di intimità. E chi è amato, a sua volta ama: «Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri». L’amore di Dio incarnato in Gesù deve incarnarsi anche nei cristiani. L’apostolo non si accontenta di chiudere il cerchio dell’amore in Dio («Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amare Dio») ma lo apre verso nuovi orizzonti, quelli dei fratelli. In questo senso c’è perfetta armonia con le parole del testamento lasciatoci da Gesù nell’ultima sera della sua vita terrena: «Questo è il mio comandamento: amatevi l’un l’altro come io vi ho amati» (Gv 15,12). 

L’amore così descritto può essere rappresentato simbolicamente come una grande croce. L’asse verticale ha la cima nei cieli di Dio, si perde nell’infinito ma l’altro estremo è piantato nella terra, sul Calvario: l’amore divino discende nell’umanità, nello spazio e nel tempo e dimora in Gesù. L’asse orizzontale ha due bracci che abbracciano tutto il nostro orizzonte: è l’amore per i fratelli senza limiti, distinzioni, riserve. 

Anche l’amore nuziale partecipa di questa croce gloriosa: è scintilla accesa da Dio nel cuore umano ed è comunione concreta di cuori, di esistenze, di destini terreni. Ancora una volta l’amore umano è paradigma per conoscere Dio, e Dio sceglie l’amore umano, visibile e sperimentabile nel Figlio come perfetta definizione di sé. Isaia cantava: «Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore; come gioisce lo sposo con la sua sposa, così il tuo Dio gioirà con te» (62,5)



venerdì 25 settembre 2015

LA CARTA D’IDENTITA’ DI DIO


"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà.”  (Esodo 34,6)

Quelle sopracitate sono solo le prime parole di un passo biblico che è stato definito da un esegeta francese, André Gelin, «la carta d’identità di Dio». Prima di scorrere queste righe, ricostruiamo la scena che funge da fondale. È l’alba. Mosè si è arrampicato lungo le pendici erte e pietrose del monte Sinai, reggendo tra le mani le due tavole marmoree che dovranno accogliere il nuovo Decalogo, dopo che le precedenti erano state spezzate di fronte all’idolo del vitello d’oro eretto dal popolo (Esodo 32,19-20). La vetta della montagna sacra è immersa nelle nubi. Mosè le varca e si trova nell’oscurità che all’improvviso è squarciata da una voce possente. È Dio stesso che si autopresenta con le parole che abbiamo evocato. 

È un autoritratto sorprendentemente dolce che si modella sulla promessa che il Signore stesso aveva fatto a Mosè quando costui gli aveva chiesto di poter vedere il suo volto. «No, tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Tuttavia, uno svelamento ci sarà: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te... Ti porrò poi nella cavità di una rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai solo le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere!» (Esodo 33,18-23).

Ora Mosè sa che il Dio invisibile è là, davanti a lui, perché sta proprio proclamando il suo nome “Signore”, in ebraico il nome sacro e impronunciabile Jhwh. Ma subito dopo Dio aggiunge quattro attributi che completano la sua “carta d’identità”. Il primo è in ebraico rahûm, che la versione “misericordioso” rende solo in modo pallido perché il termine originale allude alle viscere materne, a una sorta di affetto “viscerale” appunto, totale e assoluto come è quello di una madre o di un padre. Il secondo aggettivo è hanûn e anche qui la traduzione “pietoso” è esangue e debole, perché l’originale rimanda alla “grazia”, al dono, alla gratuità di un rapporto d’amore.


La terza qualità divina è la sua paziente attesa che l’umanità si converta, prima che egli debba intervenire con la sua “ira”, che in ebraico è curiosamente (e antropomorficamente) raffigurata con le “narici” sbuffanti (appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio di parole che sono quelle tipiche per definire l’alleanza tra il Signore e Israele. In ebraico sono “hesedemet, «amore» e «fedeltà», coppia di termini destinati a esprimere quella ricca trama di relazioni, di sentimenti, di affetti che intercorrono tra due persone che sono legate tra loro da un vincolo d’amore e da un patto di fedeltà. 

A questo punto il nostro frammento si allarga in un canto dell’amore, hesed, di Dio. Esso è modulato su due simboli numerici, il 1000 e il 3+4 (allusione al 7). La giustizia divina è, certo, perfetta perché adotta il 7, che in Oriente è segno di pienezza; l’amore, però, usa il 1000, che è invece indizio di infinito. Ascoltiamo, allora, le ultime parole che in quell’alba nebbiosa, sulla cima del Sinai, Dio proclamò a Mosè: «Il Signore conserva il suo amore per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato; ma non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7).




lunedì 21 settembre 2015

L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE


"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male." (Genesi 3,5)

Nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ’es da’at tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse qualcuno è convinto che si tratti di un «melo», ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco di parole, possibile però soltanto in latino. In quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus (melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al «male» che ne è seguito.

Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore della morale. Innanzitutto l’immagine vegetale è per la Bibbia segno di sapienza, indica un sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta il giusto come un albero radicato nei pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono e i cui frutti sono gustosi e costanti. C’è, poi, la “conoscenza”, la «da’at» che, nella cultura biblica, non è solo intellettuale, ma è anche un atto globale della coscienza che coinvolge volontà, sentimento e azione. È, pertanto, una scelta radicale di vita. Infine, ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono i due perni della morale. 

A questo punto siamo tutti in grado di identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione della morale nella sua pienezza, che proviene da Dio, colui che pianta nel cuore di ogni creatura umana questa realtà viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati, non possono essere sottratti. L’uomo e la donna sono là, con la loro libertà, sotto l’ombra di quell’albero e compiono una scelta drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema del tentatore che scuote la nostra libertà, essi strappano il frutto, ossia – fuor di metafora – vogliono decidere in proprio quale sia il bene o il male, rifiutando di riceverli come codificati da Dio.


Si comprende, allora, il significato profondo dell’invito del tentatore: strappare quel frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori ») del bene e del male, artefici autonomi della morale, creatori di ciò che è giusto e di ciò che è perverso a proprio piacimento. È appunto «diventare come Dio». È, questa, la radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza ultima di ogni peccato. È un po’ quello che i Greci definivano come «hybris», ossia la sfida che il ribelle lancia contro la divinità. Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato da Adamo ed Eva e fatto balenare loro dal serpente come la grande illusione; si precipita, invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso del peccato e della colpa. 

Detto in altri termini, l’anima oscura del peccato è la «superbia», non per nulla considerata come il primo dei vizi capitali: è la folle aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente il bene e il male. La storia umana è l’amara documentazione dei risultati ottenuti, una volta imboccata questa via. Risuona, allora, il monito di un sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti: l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà… Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).


giovedì 17 settembre 2015

I «4» PECCATI CHE GRIDANO VENDETTA AL COSPETTO DI DIO


































Questi peccati gridano vendetta al cospetto di Dio, perché lo dice lo “Spirito Santo” e perché la loro iniquità è così grave e manifesta che provoca Dio a punirli con più severi castighi. Questi peccati, nel loro insieme o contesto, sono ritenuti molto gravi, sia per quanto ne dica la Bibbia, che la Chiesa di Cristo. Oltre ad offendere Dio, che è nostro Padre, Creatore ed Amore Infinito, questi peccati hanno anche tutte le carte in regola o le prerogative (facoltà – diritti) per chiedere al Signore che giustizia sia fatta. E sono:
  1. Omicidio volontario
  2. Atto impuro contro natura
  3. Oppressione dei poveri
  4. Frode nella mercede agli operai

Il primo: “Non uccidere è il comandamento di Dio, ed è precisamente il quinto, come si legge nel libro dell’Esodo (20,13). Questo vale per coloro che credono nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quindi per noi cristiani. Lo stesso comando però è stato profondamente inciso dal Creatore nella mente e nel cuore di ogni creatura umana di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Il titolo di questo articolo, “omicidio volontario”, vuole fermare la nostra attenzione non tanto sull’omicidio in generale, quanto sulla sua volontarietà, come espressione di un vero atto libero, un atto di piena avvertenza e di deliberato consenso. 
La vita umana non è opera del caso, come del resto non è opera del caso tutto ciò che ci circonda. Tutto è stato da Dio messo nelle mani dell’uomo ma non la vita del nostro simile. La vita dell’uomo appartiene a Dio, dal suo concepimento fino alla morte naturale. È Dio che ha creato l’uomo! A sua immagine e somiglianza Egli lo ha creato! 
Per questo la vita umana è sacra e appartiene a Dio in assoluto, dall’alba della vita al suo tramonto. Nessuno e in nessun caso uno può rivendicare a se stesso la proprietà di una vita umana. Nessuno al mondo ha il diritto di distruggere una vita umana. Tanto è vero che nostro Signore Gesù Cristo, parlando di questo comandamento, lo ha confermato senza fronzoli: non uccidere e chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Poi ha incluso d’autorità, in questo comandamento, anche le offese, come: stupido, pazzo. 
Commettono “omicidio volontario” anche coloro che procurano volontariamente l’aborto, l’eutanasia. Si tratta sempre di interruzione violenta della vita umana, sacra a Dio. Su tutto ciò il Papa e i Vescovi non finiscono di parlarne e in tutti i toni. 
Il perdono di Dio; All’alba della storia umana ecco il primo terribile avvenimento: Caino uccide suo fratello Abele. Spuntano i primi fiori e un’improvvisa tempesta recide il più bello. Il peccato originale ha già affondato le sue radici nefaste, quali la cupidigia, l’invidia, la gelosia, la collera, in uno dei primi due nati: una catena che non finirà mai, e che arrecherà un dolore acutissimo al cuore di Dio nostro Padre. 
Il fratello nemico del fratello, è la negazione assoluta dell’amore, la negazione di Dio, la pretesa di non dipendere da lui e anzi di prendere il suo posto, e per questo il sangue ingiustamente sparso continua a gridare vendetta al suo cospetto. “Che hai fatto?”, dice Dio a Caino, “la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. Ora sii maledetto, lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello”. Riprese Caino: “Chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”. Il Signore gli disse: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte” (Gn 4). Questa è dunque la volontà di Dio: Non uccidete Caino! 
E allora questi peccatori potranno salvarsi? Certamente sì, perché nulla è impossibile a Dio. Gesù, incarnandosi, ha proclamato: “Io sono venuto per i peccatori, sono venuto per salvarli”. Come si possono salvare? 
Dio è amore, misericordia, compassione e perdono. Per salvarsi bisogna entrare nella sfera dell’amore, è necessario riconoscere di avere sbagliato, è bello soprattutto rivolgersi a Dio e dire di cuore: Padre, abbi pietà di me peccatore. Non temere di convertirti, né per il tuo orgoglio, né per quello che dirà la gente. È Gesù che bussa al tuo cuore e ti viene incontro e ti butta le braccia al collo. Tu stringiti, in pianto, al suo petto squarciato, e digli: Signore Gesù, abbi pietà di me. Se è possibile riconciliati con la Chiesa per testimoniare a tutti la tua adesione a Cristo. 

Il secondo: In che consiste questo peccato? Questo tema, conosciuto e dibattuto oggi con il suo nome proprio di “omosessualità”, suscita grossi dibattiti e differenti soluzioni nelle varie religioni e nelle molteplici tendenze politiche degli Stati. Un campo molto vasto e minato. Il nostro compito è conoscere che cosa dice la Bibbia su questo argomento e quali sono gli insegnamenti dei successori degli Apostoli di Gesù Cristo: il Papa e i Vescovi. Partiamo della creazione dell’uomo. Nel primo libro della Bibbia, e nelle primissime battute troviamo scritto: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”». La volontà di Dio è chiara: i due formeranno una carne sola per la contentezza dell’unità e per la gioia di dar vita a nuove creature. Splendida l’esclamazione di Adamo quando si vide davanti la sua donna: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa” (cf Gn 2-3). 
Un episodio narrato in questo stesso libro della Bibbia, Dio colpisce l’abominio delle due città, Sodoma e Gomorra, perché i suoi abitanti si erano pervertiti seguendo l’unione tra persone dello stesso sesso (Gn 18-19). II peccato di Sodomia viene descritto come “omosessualità” (Gn 19,5), come autogiustificazione (Is 3,9) e anche come orgoglio e comportamento poco sociale (Ez 16,49). 
Possiamo dunque affermare che secondo la Bibbia la tendenza omosessuale non è condannata in se stessa, ma vi è condannato l’«atto» omosessuale che è decisamente un «abominio» davanti a Dio, perché contrario alla legge naturale, infatti sbarra la via alla vita e al vero profondo amore. 
Anche la Chiesa cattolica ha sempre dichiarato che gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso sono intrinsecamente disordinati, cioè contrari alla legge naturale. 
Come comportarci con gli omosessuali? Una distinzione necessaria. 
Tutte le volte che ci troviamo di fronte a un’infrazione, più o meno grave, della legge di Dio, dobbiamo fare una netta distinzione tra il peccato e il peccatore: il primo va condannato a differenza del secondo. Noi infatti non conosciamo quale grado di responsabilità ha colui che infrange la legge. 
La stessa distinzione dobbiamo tenere nel valutare il comportamento omosessuale o, come scriveva il Catechismo di Pio X, il «peccato impuro contro natura». In questo caso noi dobbiamo sempre stabilire una netta e doverosa differenza tra il giudizio di un’azione cattiva in se stessa, da condannare, e il giudizio morale sulla persona che la commette, giudizio che deve essere molto cauto, perché nessuno può valutare il grado di responsabilità della persona che ha compiuto quell’azione. 
Gesù ordina senza mezzi termini: non giudicate e non condannate, perdonate, la stessa misura che usate con gli altri, sarà usata con voi. Certo l’inclinazione omosessuale costituisce per la persona umana una dura prova. Essi vanno accolti con rispetto, con delicatezza, senza ingiusta discriminazione, dice il Catechismo della Chiesa Cattolica. Per conservarsi casti essi devono attingere con fede alla preghiera e alla grazia sacramentale. 

Il terzo: chi sono i poveri? Nella seconda parte della preghiera che il Signore ci ha insegnato, noi diciamo: Padre nostro, dacci oggi il nostro pane quotidiano. Gesù ci mette nel cuore e sulle labbra la richiesta più umana di tutte, quella degli affamati: Abbiamo fame, chiediamo un boccone di pane. È il grido dei bambini: Mamma, ho fame. In questa supplica al Padre, il Signore mette l’accento su ciò che è essenziale alla vita dell’uomo sulla terra: il pane, che comprende anche il companatico e l’acqua, il vestito e le medicine, il lavoro e la casa, senza dimenticare l’istruzione e la sicurezza. Queste sono le cose necessarie per vivere e coloro che, in parte o tutte, non le hanno, sono poveri. 
Dunque noi ci rivolgiamo a Dio come figli. Diciamo infatti: Padre nostro. E osiamo dirgli con molta confidenza: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, quel pane che ci è dovuto da un Padre buono come sei tu. Questa richiesta rivolta a Dio, viene ribaltata, in ogni famiglia, sul padre e sulla madre. A loro infatti i figli chiedono il cibo quotidiano. Il dramma scoppia quando essi non hanno nulla da dare ai loro figli. Ricordo: eravamo bambini e più di una volta in casa nostra, a mezzogiorno, il fuoco era spento e la tavola spoglia e noi ci guardavamo in faccia, silenziosi. Ma a sera abbiamo sempre trovato, appesa al portone, una sporta con il necessario per quel giorno. 
Dio bussa con insistenza al cuore di chi ha in abbondanza, perché doni il superfluo a chi non ha. Siamo tutti responsabili, gli uni gli altri, infatti preghiamo così: dacci il nostro pane. Allarghiamo l’orizzonte: coloro che hanno fame si rivolgono ai responsabili della cosa pubblica. A loro la richiesta pressante di pane e di lavoro e anche della casa, perché gli affitti sono troppo cari. Questa non è prepotenza ma giustizia e quanti non fanno di tutto per alleviare la condizione dei poveri, meritano il nome di oppressori della gente. 
Oggi un grosso rischio colpisce la nostra terra: all’interno di molte nazioni si stanno evidenziando regioni ricche, molto industrializzate e quelle povere. La stessa cosa avviene a raggio mondiale: nazioni ricche e ben sviluppate e nazioni sottosviluppate, quasi o del tutto ridotte alla fame. 
Il grido dei poveri sale al cielo e le loro rivendicazioni toccano la coscienza dei ricchi, dei responsabili delle grandi concentrazioni del potere economico, senza mancare di scuotere i capi delle nazioni industrializzate. Bisogna fare giustizia, perché avvenimenti irreparabili non avvolgano la nostra terra. Noi invochiamo Dio: “Padre nostro”, e non “Padre mio”, così chiediamo il “pane nostro” e non il “pane mio”. 
Dio non ci ha creati come tante isole, ma ci ha legati insieme, l’uno all’altro. Così non posso pensare solo a me stesso, egoisticamente, dicendo: “oggi ho mangiato e tutto va bene, gli altri s’arrangino”. Chi ha pane in abbondanza deve in coscienza pensare concretamente alla condivisione. San Giovanni Crisostomo dice che ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone di quel pane che appartiene a tutti. Che cosa dice la Bibbia? 
Opprimere i poveri è un peccato gravissimo di fronte a Dio. Un peccato che grida vendetta, come si esprime il Catechismo di Pio X: Un peccato che è un abominio al cospetto del Creatore, il quale offre i prodotti della terra a tutti gli uomini. La difesa dei poveri e la condanna di ogni oppressione stanno sommamente a cuore al Dio d’Israele. Lo dimostra la visione del Roveto ardente. Mosè si prostrò a terra e udì una voce che diceva: “Ho udito il lamento degli Israeliti asserviti dagli Egiziani e mi sono ricordato della mia alleanza. Per questo di’ agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi” (Es 6,5-6).
Il Profeta Isaia (6,17) usa parole chiare e forti in favore dei poveri: “Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. 
Dice ancora Isaia che l’oppressione del forestiero, della vedova e dell’orfano provoca l’ira di Dio e attira la sua punizione (cf Is 1,10-17). Credenti e non credenti, tutti i responsabili della cosa pubblica devono prendersi cura, prima di tutto e in modo pratico e serio, dei poveri, dei senza lavoro, dei senza tetto, degli anziani e dei bambini, dei malati, delle famiglie che non sanno come arrivare alla fine del mese: si tratta sempre di oppressione dei poveri: un grido che dalla terra sale verso Dio. 

L’ultimo: se il lavoro è l’esercizio di un’arte, di un mestiere, possiamo dire che il primo lavoro al mondo è stato l’esercizio dell’amore, quando, sospinto dal suo grande amore, Dio creò il cielo e la terra. E Dio fece quanto aveva in mente di fare. E così avvenne e vide che era cosa bella. Dicendo una parola sola, tutto fu fatto e tutto dal nulla. 
A prima vista sembrerebbe che Dio sia rimasto fuori e distaccato dal mondo che creò. Ma nel libro della Genesi notiamo altri interventi, come se Dio fosse sceso in terra a lavorare. Egli separò il cielo dalla terra, fece brillare il sole di giorno e la luna di notte. 
E poi eccolo intervenire in tutti i particolari: la terra produca germogli, erbe e piante; le acque brulichino di esseri viventi; gli uccelli volino per l’aria e sulla terra vivano bestiame, rettili e bestie selvatiche. 
E poi quando si trattò di creare l’uomo, l’azione di Dio è stata come quella di un padre e di una madre che vogliono dare tutto, anche se stessi ai loro figli. Egli disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci, sugli uccelli e su tutto il bestiame”. E aggiunse: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela”. 
E ora notiamo l’insistenza dello scrittore sacro. Egli non si accontenta del “facciamo”, ma descrive Dio che con le sue stesse mani, al pari di un grande artista, modella e “plasma l’uomo con polvere del suolo e soffia nelle sue narici un alito di vita”. Questa scena graziosa la troviamo in una formella del portale di Nôtre Dame di Parigi. Nella sua bontà Dio non volle che Adamo fosse solo e da una sua costola “plasmò” anche Eva perché fossero una carne sola. Per sei giorni Dio lavorò alla creazione e nel settimo si riposò. 
Dio creò l’uomo per amore e volle essere ripagato solo con amore. Ma un brutto giorno il suo capolavoro amò se stesso e volle essere un “qualcuno”, per competere con il suo creatore... e si trovò nudo. Allora Dio annunciò al Serpente Antico la venuta e la vittoria del Salvatore, e all’uomo disse: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Gn 1-3).
Il lavoro;
Il lavoro è l’azione e l’effetto del lavorare. È l’esercizio di un’arte, di un mestiere. Uno vive del lavoro delle sue braccia, della sua mente. Tutte le famiglie cercano pane e lavoro. Una buona occupazione e la giusta mercede realizza l’animo umano e fa crescere la compagine familiare. 
Lavorare vuol dire fare, impiegare le proprie forze, usare il proprio ingegno, vuol dire produrre, commerciare. Sarà un’arte, una professione. Senza dimenticare il significato della parola latina “laborare” che vuol dire “faticare”, proprio come dice la Bibbia: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane». 
Fatto a immagine di Dio, l’uomo considera il lavoro come un punto fondamentale della sua vita. Dio stesso infatti gli ha dato questa consegna: «Soggiogate la terra».
Soggiogate la terra: un comando dalla portata quasi infinita: i primi strumenti di lavoro, la ruota, la scrittura, una scoperta dopo l’altra, fino al viaggio sulla Luna e oltre. Ogni traguardo diventa un punto di partenza. Il lavoro, in tutte le sue svariate dimensioni, ha soprattutto lo scopo di produrre beni materiali e culturali per la crescita umana, nella libertà e nella pace, perché ogni persona possa vivere e realizzarsi pienamente. 
Il giusto salario; «Se uno ha ricchezze in questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?» (1 Gv 3). Ogni creatura umana dal suo concepimento fino alla morte naturale ha il diritto sacrosanto a vivere e vivere dignitosamente. Con il sudore della tua fronte mangerai il tuo pane che ti mantiene in vita. Dunque per vivere è necessario lavorare: lavoro del braccio e lavoro della mente, con forte volontà e intelligenza. 
Il lavoro del braccio e della mente può essere esercitato in proprio oppure sotto un datore di lavoro. Oggi, nell’era della globalizzazione la più alta percentuale di lavoro avviene sotto padrone. In questo caso l’operaio ha diritto a una retribuzione che rispecchi la giustizia di un dignitoso mantenimento della sua famiglia. Parliamo dunque dei doveri che ogni datore di lavoro ha verso gli operai e gli impiegati. Vanno stipulati i contratti che si devono rinnovare a ogni loro scadenza, perché l’inflazione è sempre in agguato. 
Ogni contratto deve rispettare la giustizia che riguarda prima di tutto il dare a ogni dipendente il giusto compenso secondo il caro vita. La giustizia chiede inoltre di non pesare sull’operaio, di non opprimerlo per l’utile proprio. Bisogna avere un’attenzione particolare ai più bisognosi, ai meno dotati, agli sfortunati: siamo tutti egualmente figli di uno stesso Padre, sebbene di lingue e religioni diverse e tutti dobbiamo vivere. Non bisogna guadagnare sulla pelle degli altri. 
Defraudare la dovuta mercede agli operai è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio (cf Gc 5,4). Sappiamo bene che Dio si è sempre impegnato a difendere i deboli e gli oppressi. La società e lo Stato devono assicurare all’operaio un livello salariale adeguato al mantenimento sia del lavoratore che della sua famiglia. 
E sorvegliare per stroncare ogni sfruttamento, in questo e in altri casi particolari sarà sempre decisivo l’intervento dei sindacati addetti al controllo dei contratti, della sicurezza e del trattamento. Fa parte della giusta ricompensa all’operaio e all’impiegato, il comportamento dei padroni e dei dirigenti verso i loro subalterni. Essi non devono ridurre i loro collaboratori a puri esecutori materiali, perché non sono macchine, ma persone intelligenti, con sicura esperienza, capacità, competenza e vanno ascoltati per il bene dell’azienda stessa. 





sabato 12 settembre 2015

IL PECCATO IMPERDONABILE


«Qualunque peccato e bestemmia saranno perdonati agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata» (Matteo 12,31)
«In verità io vi dico: “Ai figli degli uomini saranno rimessi tutti i peccati e qualunque bestemmia avranno proferita; ma chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ha remissione in eterno, ma è reo d’un peccato eterno”. Or egli parlava così perché dicevano: “Ha uno spirito immondo”» (Marco 3,28-30).
E: «A chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi bestemmierà lo Spirito Santo, non sarà perdonato» (Luca 12,10). 

Questa frasi di Gesù, già di loro natura sorprendenti, si fanno quasi sconcertanti nel loro prosieguo che suona così: «A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata, né in questo mondo né in quello futuro» (Matteo 12,32). 

Per sciogliere l’imbarazzo di queste dichiarazioni partiamo innanzitutto dalla realtà della «bestemmia» che, nel linguaggio biblico, ha un’accezione differente da quella comune per noi. Il famoso comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano», certo, indirettamente può essere applicato alla «bestemmia» come imprecazione infamante contro la divinità, ma il suo valore primario va in ben altra direzione, marcata da quell’ “invano”. 

In ebraico il termine rimanda alla “vanità dell’idolo"; quindi in causa è la degenerazione della religione e l’arrogarsi da parte dell’uomo di decidere a suo piacimento quale sia il vero Dio, modellandolo a proprio vantaggio e appropriandosi, così, di una tipica qualità divina. Perciò la «bestemmia contro lo Spirito» è un peccato superiore a una semplice parolaccia o insulto contro la divinità. È un attacco radicale e consapevole alla realtà intima e profonda di Dio rappresentata dal suo Spirito. Non è un peccato di debolezza come quello dell’adultera che può pentirsi ed è perdonata da Cristo (Giovanni 8,1-11). È, invece, una sfida cosciente scagliata contro Dio. È a questo punto che dobbiamo interpretare l’applicazione successiva. 

Da un lato, si afferma la possibilità di remissione del peccato di negazione nei confronti del Figlio dell’uomo. La giustificazione è nel fatto che la sua dignità è per così dire velata dalla sua apparenza umana che può generare incertezza, sospetto o reazione negativa. Si ricordi, per esempio, la replica di Natanaele all’apostolo Filippo che lo invitava a conoscere Gesù di Nazaret: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?» (Giovanni 1,46). 

D’altro lato c’è, invece, l’atteggiamento soprattutto degli scribi e dei farisei che vedono gli atti gloriosi di Cristo, i suoi miracoli, le liberazioni dal male demoniaco, ma chiudono coscientemente gli occhi della mente e del cuore, perché il riconoscimento di questa “diversità” di Gesù infrangerebbe il loro sistema di potere e le loro elaborazioni teologiche. 

Essi, dunque, negano l’evidenza delle opere che lo Spirito di Dio manifesta in Cristo: la «bestemmia contro lo Spirito » è, allora, il rifiuto consapevole della verità conosciuta come tale, è il rigetto cosciente della parola e dell’opera di Gesù, pur sapendola vera e santa, per proprio interesse “blasfemo”. 

In questa luce, è comprensibile la conclusione logica: a costoro non è possibile concedere il perdono «né in questo mondo né il quello futuro», perché manca il presupposto fondamentale del pentimento e della confessione della colpa. Essi si mettono fuori dell’orizzonte della salvezza di propria scelta. Il commento ideale a tale dichiarazione di Gesù è in queste parole di quella grandiosa omelia che è la Lettera agli Ebrei: «Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per quel peccato, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli» (Ebrei 10,26-27). 

I miracoli compiuti da Gesù provavano che in lui agiva la potenza di Dio, cioè la forza dello «Spirito». Attribuire, invece, ciò alla potenza di Satana è quanto Matteo 12,31 chiama «Bestemmia contro lo Spirito». Chi valuta in questo modo l’opera di Gesù si chiude alla salvezza. «Né in questo mondo, Né in quello futuro» significa “Mai”. 

Facciamo un esempio: affermare che «Medjugorie è un fenomeno assolutamente diabolico, intorno al quale girano numerosi interessi sotterranei» equivale ad un giudizio senza appello: sono 30 anni che la Madonna si manifesta a Medjugorje compiendo miracoli (riconosciuti e documentati ufficialmente anche dalla Scienza) per opera della potenza di Dio, cioè la forza dello «Spirito» e riconoscere in tutto questo l’opera del «Demonio» equivale a “Bestemmiare lo Spirito” e a comportarsi proprio come gli “Scribi e i Farisei” ai tempi dei miracoli di Gesù. 

Questo peccato, essendo dichiarato «imperdonabile» dal Signore, dev’essere senz’altro il più tremendo fra quelli che un uomo possa mai commettere. Poiché in molte delicate coscienze il solo dubbio d’averlo commesso sveglia una sensazione di terrore, il primo passo è certamente l’accertamento della vera natura di tale trasgressione. 

Nell’interpretazione di questi brani, si fa bene a tener sempre presente le circostanze e le persone che diedero luogo a una così solenne dichiarazione di Gesù.
Costoro avevano disonorato il Padre, poiché stavano rigettando il Figlio. Così facendo, incominciavano a resistere allo Spirito Santo, attribuendo l’opera di Gesù alla potenza di Satana. Il Signore non li accusò d’aver già effettivamente commesso tale terribile peccato, ma li avvertì del pericolo in cui si trovavano: persistendo in quella via, lo Spirito avrebbe cessato di fare in loro la sua opera d’illuminamento e convincimento, i loro cuori si sarebbero induriti, rischiando così di non poter mai più credere. 

Ora chi non credeva in Gesù quale Messia, non poteva essere perdonato dai suoi peccati. La bestemmia significa diffamazione, maldicenza, parlare a danno d’una persona e quindi ingiuriarla. Nel Nuovo Testamento questo vocabolo s’applica all’arroganza e al disprezzo diretti contro Dio, come pure contro l’uomo, e in questo senso è una forma di peccato assai grave.

Notiamo che in Marco 16,16, il Signore medesimo indicò l’unico principio essenziale, invariabile, della salvezza o della dannazione d’ogni anima: «Chi avrà creduto e sarà battezzato, sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato» «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui» (Gv 3,36). 

Nessuna eccezione, nessun caso particolare sfugge a questo gran principio dell’Evangelo, incluse tutte le persone che gli uomini possano ritenere detentori di particolari meriti. Qualunque sia la natura e la gravità del peccato di un uomo, sarà liberalmente e pienamente perdonato, se egli credendo nel Figlio di Dio, si ravvede e accetta la giustizia di Cristo. 

Dall’altro lato, però, diventa chiaro che lo Spirito Santo è il solo che possa agire nel cuore del peccatore e mettere in lui la fede salvatrice, che gli permetterà di essere unito a Cristo. Pertanto, chi respinge sistematicamente e coscientemente gli appelli dello Spirito Santo, resistendo alla sua influenza e persistendo nella miscredenza, pone se stesso deliberatamente fuori d’ogni speranza di perdono. 

Bisogna tener conto che fu ai Farisei e alle guide del popolo giudaico, ai quali il nostro Signore diresse primieramente quelle parole. Perciò il contrasto fra «una parola detta contro il Figlio dell’uomo» e «la bestemmia contro lo Spirito» può riferirsi al disprezzo gettato da loro contro la persona di Gesù, quando la sua vera condizione di Messia era ancora velata e la sua opera incompiuta; la loro «bestemmia» divenne però persistente, quando conobbero pienamente la sua rivendicazione di essere il Messia e videro come lo Spirito Santo confermava ciò mediante la sua presenza nella persona di Gesù e nelle sue opere miracolose. 

Una prima «bestemmia» fu perdonata a Saulo di Tarso perché operava — come in seguito ammise — «ignorantemente, non avendo la fede» (1 Tm 1,13); quando incontrò Gesù nella sua gloria, capitolò. Una seconda «bestemmia» non gli sarebbe stata perdonata, perché avrebbe significato nutrire contro la luce sfolgorante un odio crescente e fuggirla deliberatamente; ciò sarebbe equivalso a precludersi la via della salvezza. 

Da quanto abbiamo detto fin qui diventa chiaro che questo terribile peccato consiste nel resistere in modo cosciente, deliberato e pienamente deciso allo “Spirito”, il quale intende rivelare Gesù Cristo all’uomo. Stando così le cose, il peccatore impenitente viene abbandonato a se stesso. Da una parte, chi crede viene «suggellato con lo Spirito Santo della promessa, il quale è la caparra della nostra eredità» (Ef 1,13s); dall’altra, chi rifiuta di credere costringe lo Spirito a ritirarsi, e il peccatore impenitente rimane sotto l’ira di Dio e, per così dire è suggellato per la perdizione. 

Ora, però, se tutti i mezzi di grazia, coi i quali egli circonda e stimola il peccatore, vengono rigettati, ostacolati e soffocati, non resta più alcun rimedio per un peccato del genere. Non vi è altra persona che possa intervenire a favore del peccatore. E perché un tale rimedio non esiste, il peccato di colui che resiste allo Spirito Santo (e fintantoché durerà questa resistenza), sarà tale da escludere per lui ogni perdono; anzi, come dice Marco, è «colpevole d’un peccato eterno» (Marco 3,29). 

Le parole di Gesù, secondo cui tale peccato d’incredulità «non sarà perdonato né in questo mondo né in quello a venire» (Matteo 12,32), non lasciano nessuna scappatoia né danno appiglio alla sedicente dottrina del "Purgatorio", poiché non è mai in mano dell’uomo la capacità d’espiare i propri peccati. Chi è nemico della luce dell’Evangelo e della bontà divina e resta tale, non ha possibilità d’essere perdonato né in questo né nell’altro mondo.