domenica 28 giugno 2015

INFERNO E PURGATORIO



Molte volte la Sacra Scrittura dice che gli uomini che non si pentono dei loro peccati perderanno il "premio eterno” della comunione con Dio, e finiranno invece nella "dannazione eterna”. «Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da Lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “Inferno». 

Questo non vuol dire che Dio abbia predestinato alcuni alla "condanna eterna”; è l’uomo stesso che, cercando il suo fine ultimo al di fuori di Dio e della sua volontà, costruisce per sé un mondo a parte nel quale non può entrare la luce e l’amore di Dio. L’ “inferno” è un mistero, il mistero dell’Amore respinto, e sta anche a indicare quale sia il potere distruttore della libertà umana quando si allontana da Dio. 

Inferno è il termine con il quale si indica il luogo di punizione e di disperazione che, secondo molte religioni, attende, dopo la morte, le anime degli uomini che hanno scelto in vita di compiere il “male”. L' “Inferno” è un concetto presente in un gran numero di culture precristiane, cristiane e non cristiane. È solitamente identificato con un mondo oscuro e sotterraneo, collegato all'operato del Dio e della "creatura superiore" che ha originariamente introdotto nella Creazione l'errore, la menzogna, il peccato, e, in definitiva, il principio distruttivo dell'ordine delle cose; tale "creatura superiore" si identifica nel “diavolo”, nella divinità del male o nell'ebraico/cristiano Satana”, a seconda delle culture. In tal senso il concetto di "tentatore", o "demonio", e il concetto stesso di "male" sono intrinsecamente legati. Il "tentatore" della religione cristiana, o divinità negativa, solitamente genera, con il suo operato, tanto l' “Inferno”, quanto le condizioni che vi trascinano i viventi abbruttendo le loro scelte “morali”. 

È tradizionale distinguere, per ciò che riguarda l’ “Inferno”, tra la “pena di danno”, la più fondamentale e dolorosa, che consiste nella separazione perpetua da Dio, sempre anelato dal cuore dell’uomo, e la “pena dei sensi”, alla quale si allude spesso nei Vangeli con l’immagine del fuoco eterno. 

La dottrina sull’ “Inferno è presentata nel Nuovo Testamento come un richiamo alla responsabilità nell’uso dei doni e dei talenti ricevuti, e alla conversione. La sua esistenza fa intravedere all’uomo la gravità del peccato mortale, e la necessità di evitarlo con tutti i mezzi, sopratutto, com’è logico, mediante la preghiera fiduciosa e umile. La possibilità della condanna richiama ai cristiani la necessità di vivere una vita interamente apostolica.

Indubbiamente l’esistenza dell’ “Inferno” è un mistero: il mistero della giustizia di Dio nei confronti di quelli che si chiudono al suo perdono misericordioso. Alcuni autori hanno pensato alla possibilità dell’annichilimento del peccatore impenitente al momento della morte. Questa teoria è difficile da conciliare con il fatto che Dio ha dato per amore l’esistenza – spirituale e immortale – a ogni uomo. «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro "salvezza eterna”, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo». 

Si può pensare che molti uomini, pur non avendo vissuto una vita santa sulla terra, non si siano neppure chiusi definitivamente nel peccato. La possibilità, dopo la morte, di essere mondati dalle impurità e dalle imperfezioni di una vita più o meno vissuta male si presenta allora come ulteriore manifestazione della bontà di Dio, come la necessaria preparazione per entrare in intima comunione con la santità di Dio. «Il “Purgatorioè una misericordia di Dio, per purificare i difetti di quanti vogliono identificarsi con Lui». Anche l’Antico Testamento parla della purificazione ultraterrena (cfr. 2 Mac 12, 40-45).


Secondo la Chiesa Cattolica, nell'ambito del Cristianesimo, il “Purgatorio”, insieme ad “Inferno e  Paradiso”, è uno dei possibili luoghi o condizioni ai quali vengono destinate le anime dei defunti. Il “Purgatorio” è considerato un elemento importante della dottrina escatologica della Chiesa cattolica romana. Di carattere temporaneo, il “Purgatorio” si potrebbe immaginare come una sorta di "anticamera" del "Paradiso" per la maggior parte di coloro che, pur essendo in "stato di grazia", necessariamente devono transitarvi per perfezionare la loro purificazione morale e spirituale prima di accedere al "Paradiso" e alla comunione perfetta con Dio. 

Secondo questa concezione, infatti, si suppone che essi, benché oggetto della redenzione operata da Cristo, ancora debbano espiare personalmente, in un luogo di sofferenza, parte delle pene meritate dai loro peccati e soddisfare così la giustizia divina. A differenza dall' “Inferno però, il “Purgatorio” non è inteso, dalla dottrina cattolica-romana, come una punizione crudele ma come espressione dell'amore di Dio. Un'anima imperfetta, si dice infatti, non potrebbe stare al cospetto di Dio senza soffrire immensamente per la propria miseria, perciò il “Purgatorio” viene concepito come uno "stato" dell'anima (e non necessariamente "un luogo"), qualcosa di necessario alla beatitudine delle anime peccatrici. Secondo questa stessa concezione, la permanenza delle singole anime in “Purgatorio” sarebbe abbreviabile mediante l'esecuzione in loro nome, da parte dei viventi, di particolari opere meritorie precisate della Chiesa. La fondatezza biblica e teologica del "Purgatorio", però, è respinta dalla maggior parte delle altre confessioni cristiane. 

Nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 3, 10-15) San Paolo presenta la purificazione cristiana, in questa vita e in quella futura, attraverso l’immagine del "fuoco"; un "fuoco" che in qualche modo emana da Gesù Cristo, Salvatore, Giudice e Fondamento della vita cristiana. l’antichissima e unanime pratica di offrire suffragi per i defunti, specialmente mediante il Sacrificio eucaristico, è un chiaro indizio della Fede della Chiesa nella purificazione ultraterrena. Infatti non avrebbe senso pregare per i defunti se si trovassero o salvati nel “cielo o condannati nell’ “Inferno”. 

La maggioranza dei protestanti nega l’esistenza del “Purgatorio”, perché la ritengono frutto di una fiducia eccessiva nelle opere umane e nella capacità della Chiesa di intercedere per quelli che hanno lasciato questo mondo. Più che un luogo, il “Purgatorio” deve essere considerato uno stato di temporanea e dolorosa lontananza da Dio, nel quale si perdonano i "peccati veniali", si purifica l’inclinazione al male che il peccato lascia nell’anima e si soddisfa la “pena temporale” dovuta al peccato. 

Il peccato non solo offende Dio e danneggia lo stesso peccatore, ma, mediante la comunione dei santi, danneggia la Chiesa, il mondo, l’umanità. La preghiera della Chiesa per i defunti ristabilisce in qualche modo l’ordine e la giustizia: soprattutto per mezzo della Santa Messa, delle elemosine, delle indulgenze e delle opere di penitenza. I teologi insegnano che nel “Purgatorio” si soffre molto, a seconda della situazione di ciascuno. Tuttavia si tratta di un dolore che ha un significato, di «un dolore beato». Per questo i cristiani sono invitati a cercare la purificazione dei peccati nella vita presente mediante la contrizione, la mortificazione, la riparazione e la vita santa.


mercoledì 24 giugno 2015

LA VITA ETERNA: UNA CERTEZZA ASSOLUTA



Quello che ci aspetta dopo la morte è la «Vita Eterna», ma cos’è questa «Eternità»? Il concetto terreno che abbiamo di «Eterno» è di cosa che non ha principio né fine, cioè di cosa che dura indefinitamente. Sembra, perciò, che tutto sia immobile. Parlare di cosa succeda nella «Vita Eterna» dopo la morte è sempre problematico perché non abbiamo documentazione e neppure testimonianze dirette, e dobbiamo sempre rifarci alle parole evangeliche, a San Paolo, ecc. 

Prima di tutto «Eterno» non è solo ciò che non ha principio né fine (ossia il necessario), ma anche ciò che una volta venuto all’esistenza più non ne esce (come il contingente). E gli uomini sono di questo secondo aspetto. Quanto non ritorna nel "nulla" è «Eterno», e questa è la rivelazione e la promessa di Gesù agli uomini, quando dice che va a preparare i posti per i suoi discepoli, perché siano anch’essi dove lui è (Gv 14,3). 

Che cos’è dunque la «Vita Eterna»? Non è un luogo dove siamo tutti raccolti insieme a giocare, banchettare, a sorriderci. La «Vita Eterna» è uno «stato» di comunione, un «contatto» dell’uomo con Dio, visto faccia a faccia, come esso è (1Gv). La persona umana entra nel vivo dell’essere di Dio e ne viene travolto dall’amore e dalla gioia senza fine. L’amore divino e umano, che si fondono, producono nell’uomo un effetto talmente grande di gioia e piacere, che nessuno se ne vorrà più privare. È la testimonianza di quasi tutti i santi, che sostengono che il momento più tragico per l’anima è al termine dell’estasi, ossia dal contatto con Dio. 

Santa Teresa diceva: muoio perché non muoio. In altri termini, l’amore non è uno stato in cui i due amanti si scambiano di tanto in tanto un sorrisino. L’amore è la più grande, la più elevata, la più dignitosa attività che un uomo possa fare, amare significa conoscere l’altro nella sua pienezza e nel mentre l’altro viene conosciuto come altro, uno impara a conoscere se stesso. I Santi dicono che quando s’incontra Dio, nella luce di Dio, vedono se stessi e si rendono conto di chi sono, dei peccati e di quanta distanza c’è tra essi e Dio, al punto che la luce divina, mentre li fa brillare di conoscenza, disvela anche tutti i difetti dell’anima, che diventa trasparente all’amore divino. Bello è l’esempio di S. Giovanni della Croce che a contatto di Dio la sua anima disvelava tutti i minimi difetti, come quando un bicchiere d’acqua apparentemente cristallina sotto l’azione di una luce brillante disvela la presenza di infinite scorie. 

Ecco perché non ci si annoia ad amare Dio per l’«Eternità»: la nostra conoscenza non potrà mai percorrere il suo essere totalmente, e amandolo sempre più profondamente noi lo scopriamo nella ricchezza della sua vita trinitaria, e questa intimità con Dio è l’attività più elevata dell’uomo, quello che l’uomo aspira e brama, e che mai viene meno, perché il piacere (sia spirituale che fisico, quando riavremo il nostro corpo) sarà talmente elevato che nessuno oserebbe rinunciarci. E questo in un certo senso è visibile nell’amore che abbiamo verso noi stessi, che non cessa, non viene meno nel tempo, e così amare Dio è l’amore più grande che possiamo esprimere per noi stessi. Amare è dunque l’attività, il lavoro, l’azione, l’impegno più oneroso che la «Vita Eterna» comporta, perché l’ingresso nella vita divina è un’attività infinita. 

L’uomo storico, forse condizionato dalla presenza del «peccato», ha ridotto l’amore a un dominio sull’altro, a un possesso, facendo dell’altro un "oggetto per sé stessi", per questo si è incapaci di sentire e capire la valenza eterna dell’amore. Dovremmo perciò educarci ad amare gli altri, ad esprimere il massimo amore verso chiunque, essendo questa l’unica via per voler bene a se stessi, per riuscire a conoscerci e per comprendere quale ruolo nella vita abbiamo. E,pensandoci, questi sono i problemi più grossi che agitano il cuore dei giovani, che non sanno per qual motivo sono nel mondo e che ruolo in esso debbono avere, problemi che si risolvono solo in ragione di una comprensione piena dell’amore nella loro vita. 

Una riflessione sulla «Vita Eterna» ci illumina sull’ordine logico della nostre attività terrene: primo è amare, secondo è il lavoro che fluisce come conseguenza di quella attività. Infatti un uomo è tale qualsiasi lavoro faccia, ma se non ama abbrutisce se stesso e si rinnega come essere umano. Dunque l’amore verso gli altri è il necessario, ed è la ragione della «Vita Eterna». Le altre attività sono secondarie e non necessarie. Eppure noi vediamo che si passano anni e anni per imparare un mestiere, e non ci sono insegnamenti per imparare ed educarsi ad amare. 

La «Vita Eterna» ci dice infine che nella luce divina, noi siamo aperti sugli altri. Nell’amare Dio non solo siamo in relazione con lui, ma anche con tutti gli altri esseri umani che finalmente saremo capaci di amare, di apprezzare e di valorizzare, cose queste che forse nella nostra vita terrena non siamo stati in grado di praticare. Dunque mi sembra che di cose da fare ne avremo nonostante l’«Eternità», anche perché l’«Eterno» non ha un prima e un dopo (tempo), ma è una vita vissuta nell’attimo (tota simul) e in piena perfezione (perfecta possessio). 

Non c’è problema più importante dell’esistenza della «Vita Eterna». Problema drammatico! Eppure molti non se lo pongono e tanti lo negano. Pascal afferma: «Quella trascuratezza (di non pensare all’esistenza dell’al di là), in un affare in cui si tratta di loro stessi, della loro “eternità”, del loro tutto, mi irrita più che mi commuova; mi stupisce e mi spaventa; è un mostro per me». Dante Alighieri (nel Convivio) grida: «Fra tutte le bestialità ve n’è una stoltissima, vilissima e dannosissima ed è questa: credere che dopo questa vita non ve ne sia un’altra». Se non ci fosse la vita futura, questa mia vita terrena non avrebbe alcun significato, poiché io sono sulla terra unicamente per conoscere, amare Dio, far la sua volontà, e così raggiungere la felicità “eterna”. 

La Ragione esige una vita ultraterrena in cui si faccia giustizia: Ora, se non ci fosse un’altra vita in cui si faccia piena giustizia, Dio o non esisterebbe o non sarebbe Dio. Ma Dio esiste ed è Dio, cioè è giustizia infinita. C’è, dunque, un’altra vita in cui Dio farà perfetta giustizia. Perfino Rousseau esclamava «Se non avessi altra prova dell’immortalità dell’anima che il trionfo dei malvagi e l’oppressione dei buoni in questo mondo, ciò solo basterebbe ad impedirmi di metterla in dubbio». 

C’è un consenso universale sull’esistenza dell’«al di là»: è criterio di verità ciò che sempre, ovunque e da tutti è stato creduto. Tale è il problema dell’esistenza di una vita oltre le soglie della morte. L’hanno creduta tutti i popoli e tutte le religioni di tutti i luoghi e in ogni tempo; come risulta da rigorose indagini. Inoltre quasi tutti gli uomini più intelligenti dell’umanità (sommi filosofi, sommi scienziati, e artisti e letterati, ecc.) hanno creduto nella vita ultraterrena. Noi credenti siamo in compagnia dei sommi geni dell’umanità e di tutti i Santi che sono le persone più sagge e più sapienti. Omero dice: «Gli uomini pii vivono beati nell’altra vita». Shakespeare afferma: «Raccomando la mia anima al mio Dio Creatore, sperando e fermamente credendo che io sarò ammesso a partecipare alla vita immortale». Goethe ammonisce: «Coloro che non sperano una vita futura, sono morti anche per la vita presente». Victor Hugò esclama: «Io non cesserò mai di ripeterlo: la morte non è la notte, ma la luce; non è la fine, ma il principio; non è il niente, ma l’eternità». Perfino Mazzini parla di un’altra vita oltre la morte nella quale rivedremo per sempre i nostri cari defunti: «La verità della nostra fede mi è balzata agli occhi nei momenti i più solenni, i più terribili della vita: io so che ci rivedremo. La riunione delle nostre anime avrà luogo sotto l’ala di Dio. Vedrete tutti quelli che avete amato. Soffrite, dunque, mia buona madre e amica, soffrite rassegnatamente e con gli occhi fissi in quell’avvenire. Dio vi destina fuori di questa terra. Questa non è vita, abbiamo l’altra. Guai se questa fede mi mancasse. Ma la ho fermissima». 

Emanuele Severino, nei suoi scritti, ha sempre indicato la «Necessità» che non solo l' uomo, ma tutte le cose siano «Eterne» (Vedi Post marzo 2013 Il Filosofo della Verità). Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, e il comparire e lo scomparire degli eterni. 

La verità assolutamente innegabile esiste e tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è «Eterno», ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato «nulla» e che sia travolto nel «nulla». Certo, la più sconcertante delle affermazioni. L'esito del destino della verità deve dunque ritornare ad essere, per l'uomo, la consapevolezza dell'«Eternità» di tutti gli “enti” e quindi dell'inesistenza del “Divenire”, suo presupposto, la cui evocazione, avvenuta per la liberazione della potenza dell'uomo, è pura follia, in quanto, come diceva Parmenide, «l'essere è e non può non essere». Le determinazioni dell’essere sono Immutabilità, Eternità, Incorruttibilità, Ingenerabilità, Unicità e Necessità. 

La Bibbia ci dà la “certezza assoluta” della «Vita Eterna»: ecco qualche affermazione, fra tante: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (Sap 2,23) «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero...; per una breve pena riceveranno grandi benefici» (Sap 3,1-5) «Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo. Divenuto caro a Dio, fu amato da Lui, e poiché viveva tra i peccatori, fu trasferito. La sua anima fu gradita al Signore, perciò Egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio» (Sap 4,7-14). «Gli empi che deridevano il giusto, quando compariranno al Giudizio di Dio riconosceranno di essere stati stolti e che per loro ci sarà la perdizione eterna, mentre i giusti andranno tra i Santi a ricevere una meravigliosa corona dal Signore» (Sap 5,1-16). 

Giovanni Paolo II per confermare in questa fondamentale verità coloro che sono nel dubbio, ha fatto emanare dalla "Congregazione per la difesa della fede" una “dichiarazione sull’esistenza della vita eterna” (nel 1979) in cui ci ricorda che l’anima è “spirituale” e quindi non morirà mai, e, con la “morte corporale” l’anima entra nell’«eternità». Alla fine del mondo ci sarà certamente la risurrezione dei corpi. Siamo certi che esiste il purgatorio e l’inferno ("ove una pena eterna attende per sempre il peccatore"), e il paradiso ove "noi saremo con Cristo e vedremo Dio", partecipi per sempre della sua gloria. 

Molti sono venuti dall’altra vita! Soprattutto è venuto Gesù!... Non possiamo non rispondere a una obiezione che tanti ripetono: Non esiste l’«al di là» perché nessuno dei morti o degli angeli è venuto a dircelo. Questa è una obiezione tanto vecchia quanto insensata; infatti la nostra partenza per l’«eternità» è irreversibile e nessuno può ritornare sulla terra, se Dio, nella sua infinita potenza e misericordia, non lo permette. Ebbene Dio ha permesso che tante persone venissero dall’altro mondo, prendendo forme visibili. Molte apparizioni sono riportate dalla Bibbia e moltissime altre sono attestate da documenti e testimonianze sicurissime e irrefutabili. Anche una sola apparizione documentata sarebbe sufficiente per darci la certezza dell’esistenza della «Vita Eterna»! 

I Morti sono apparsi frequentemente: A Gesù sul Tabor apparve Mosè ed Elia. Quando Gesù spirò sulla croce, molti morti uscirono dai sepolcri e si fecero vedere per le vie di Gerusalemme. A S. Tommaso apparvero due anime del purgatorio: una sorella e un Frate domenicano (Romano). A S. Perpetua apparve il fratellino Dimocrate; a S. Vincenzo Ferreri, la sua sorella Francesca; a S. Caterina da Siena, il suo padre; a S. Giovanni Bosco, la sua mamma. A Roma, in Via Lungotevere Prati, c’è un museo del Purgatorio in cui si conservano oggetti diversi (tavolette, coperte, libri) sui quali sono delle impronte che i defunti, apparendo, lasciarono. 

Anche i Demoni sono apparsi, prendendo forme diverse: sono apparsi ai nostri progenitori, a Gesù nel deserto, a S. Antonio Abate, a S. Francesco, al S. Curato d’Ars, a P. Pio da Pietrelcina, a moltissimi altri. 

I Santi sono apparsi numerosissime volte: molte di queste apparizioni sono narrate da Santi, come S. Bonaventura che racconta tante apparizioni di S. Francesco d’Assisi dopo la sua morte; moltissime altre sono state attestate con giuramento da persone oneste e spesso scrupolose in occasione dei processi di beatificazione e di canonizzazione. 

Gli Angeli sono apparsi molte volte: S. Gabriele apparve alla Vergine. S. Raffaele apparve a Tobiolo e lo accompagnò nel suo viaggio. S. Michele apparve più volte nelle vicende del popolo ebraico. Ci sono altre innumerevoli apparizioni di angeli. 

È apparsa la MADONNA molte volte, in tante località della terra; e sono numerosi i Santuari mariani che testimoniano tali apparizioni. Ricordiamo in particolare le celebri apparizioni a Lourdes, a Fatima, e ancor oggi, dopo più di trent’anni, a Medjugorje. "Le testimonianze di tante apparizioni di anime purganti (o dannate o felici in Cielo) ormai sono una realtà scientifica anche per gli scienziati miscredenti". 

Soprattutto è venuto GESU’ dall’altra vita ed è venuto specialmente per assicurarci che esiste la vita oltre la morte. Nel suo insegnamento, contenuto nel vangelo, ad ogni passo parla della «Vita Eterna»; sovente parla del “premio eterno” e del “castigo eterno” e della “risurrezione dei corpi”. 

Dunque certamente esiste la «Vita Eterna»; ma c’è "un’eternità di gioia", e "un’eternità di tormenti". Affinché possiamo conquistare una "eternità di gioia", tutto in noi – pensieri, parole, opere, desideri, affetti, azioni – tutto deve essere orientato verso Gesù, tutto illuminato dalla fede in Lui, tutto animato dall’amore a Gesù e al prossimo. Così l’anima nostra, insieme al nostro corpo risuscitato, vivrà con Gesù, con la Madonna, con tutti i santi nell’«eternità» beata. 

ESEMPIO. Il Servo di Dio Papa Giovanni XXIII con la sua dolorosa e santa agonia commosse tutto il mondo; ripeteva ai suoi fratelli e alle sorelle: non piangete; sono alla vigilia di una grande festa (alludeva al suo ingresso nel Cielo). E soggiungeva: la vera vita non è questa “vita terrena”, la quale passa tanto velocemente, ma è quella che c’è dopo la morte del corpo, poiché quella è «Eterna», non avrà mai fine. E si preparava sempre meglio all’ingresso alla «Vita Eterna» con frequenti invocazioni alla Madonna: ripeteva: "Mater mea, fiducia mea!" E continuò a ripetere questa invocazione fino all’ultimo respiro, quando aggiunse le parole: "Gesù! Maria!" e dolcemente spirò. 

È con questa grande fiducia nella Madonna che anche noi potremo scorgere nella morte non il termine, non il "nulla" (come dicono gli stolti), ma la "culla" ossia l’inizio di un avvenire meraviglioso.


venerdì 19 giugno 2015

LA NOSTRA DIMORA: UNA CASA ETERNA


"Quando verrà dissolta la nostra «casa terrena», cioè la tenda del nostro corpo, avremo da Dio una dimora, sarà una «casa eterna», non edificata da mani d’uomo, celeste." (2 Corinzi 5,1)
Siamo «abitatori di case d’argilla, cementate nella polvere, e che si sfasciano come carie... Le corde della tenda sono strappate e moriamo senza capire». Le parole amare e realistiche del libro di Giobbe (4,19-21) dipingono la radicale fragilità della creatura umana che un altro sapiente biblico, l’autore del libro della Sapienza, tratteggerà con un linguaggio desunto dalla cultura classica greca che marcava la tensione tra «anima spirituale» e «corpo materiale»: «Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri » (9,15). 
È, questa, un’esperienza che tutti proviamo quando, attraverso una malattia, sentiamo ramificarsi in noi la mano gelida della "morte" che crea un disfacimento della «tenda del nostro corpo» in cui sembra accampata la nostra anima. Questa immagine nomadica della «tenda» è cara naturalmente alla Bibbia che si rivolge a un popolo di pastori. 
Ecco come il re di Giuda, Ezechia, contemporaneo di Isaia (VIII secolo a.C.), descriveva la sua situazione di malato grave: «La mia tenda sta per essere divelta e scagliata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore tu, o Dio, hai arrotolato la mia vita e stai per recidermi dall’ordito» (Isaia 38,12). 
Anche San Paolo ricorre a queste immagini per descrivere la nostra "morte": parla, infatti, di «tenda», ma rimanda pure all’emblema del sedentario, l’oikía in greco, ossia la «casa». Tuttavia, il suo sguardo va oltre questa dissoluzione che per molti è il tragico approdo ultimo e unico della nostra esistenza. E lo fa sulla base della “Fede” nella «risurrezione di Cristo». Nello sfacelo della "morte" è, infatti, passato lo stesso Figlio di Dio, che di sua natura è «Eterno»: in quell’ammasso di argilla sfatta che è il cadavere ha deposto un germe di «Eternità», vi ha immesso il principio della nostra riedificazione gloriosa. 
Ecco, allora, la nostra nuova dimora che, come il corpo risorto di Cristo, non è «edificata da mani d’uomo». Gesù stesso l’aveva indirettamente affermato per sé e annunciato davanti ai giudici del Sinedrio quando non aveva smentito l’accusa dei testimoni che affermavano: «Lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio eretto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non eretto da mani d’uomo» (Marco 14,58). Infatti, un giorno, dopo aver cacciato i mercanti dal tempio, aveva dichiarato: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». E l’evangelista Giovanni aveva commentato: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (2,19.21). 
L’apostolo Paolo agli stessi cristiani di Corinto aveva descritto così la «risurrezione» che ci attende: «Si semina un corpo corruttibile e risorge incorruttibile; si semina un corpo animato, risorge un corpo spirituale» (1Corinzi 15,42-44). 
Significativa è l’ultima frase nell’originale greco: ciò che ora noi siamo è un «corpo animato», ossia congiunto e reso vivo e operante dalla psyche, l’“anima”; ma l’attesa è per un «corpo animato» dallo pneuma, cioè posseduto e trasformato dallo “Spirito di Dio”, «un corpo spirituale», pervaso dalla stessa vita divina,la «casa eterna, non edificata da mani d’uomo e celeste», di cui parla San Paolo nella nostra riflessione. 

sabato 13 giugno 2015

LA RISURREZIONE DELLA CARNE, LA VITA ETERNA


Il Fedele, recitando il “Credo Apostolico”: «Credo nella Risurrezione della carne, la Vita Eterna. Amen». La Chiesa ha avuto molte occasioni per proclamare la sua Fede nella «Risurrezione» di tutti i morti alla fine dei tempi. Si tratta in qualche modo della “estensione” della «Risurrezione» di Cristo, «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29) a tutti gli uomini, vivi e morti, giusti e peccatori, che avrà luogo quando Egli verrà alla fine dei tempi. 

Con la morte l’anima si separa dal corpo; con la «Risurrezione» corpo e anima si ricongiungono, e per sempre. Il dogma della «Risurrezione» dei morti, mentre parla della pienezza della «immortalità» alla quale è destinato l’uomo, ci ricorda la sua grande dignità, anche del suo corpo. Ci parla della bontà del mondo, del corpo, del valore della storia vissuta giorno dopo giorno, della vocazione eterna della materia. Per questo, contro gli gnostici del II secolo, si è parlato della «Risurrezione» della carne, vale a dire della vita dell’uomo nel suo aspetto più materiale, temporale, mutevole e apparentemente caduco. 

San Tommaso d’Aquino pensa che la dottrina sulla «Risurrezione» è naturale in ciò che riguarda la causa finale (perché l’anima è fatta per stare unita al corpo, e viceversa), però è soprannaturale in ciò che riguarda la causa efficiente (che è Dio). Il corpo risuscitato sarà reale e materiale; però non terreno, mortale. 

San Paolo si oppone all’idea di una «Risurrezione» come trasformazione che avviene all’interno della storia umana, e parla del corpo risuscitato come “glorioso” (cfr. Fil 3,21) e “spirituale” (cfr. 1 Cor 15, 44). La «Risurrezione» dell’uomo, come quella di Cristo, avverrà, per tutti, dopo essere morti. 

La Chiesa non promette agli uomini, in nome della «Fede» cristiana, una vita di successo su questa terra; non ci sarà un mondo “utopico, perché la nostra vita terrena sarà sempre segnata dalla Croce. Allo stesso tempo, avendo ricevuto il Battesimo e l’Eucaristia, il processo della «Risurrezione» è già cominciato in qualche modo. 

Secondo San Tommaso, nella «Risurrezione» l’anima informerà il corpo così profondamente che in esso saranno riflesse le sue qualità morali e spirituali. In questo senso la «Risurrezione» finale, che avrà luogo con la venuta di Gesù Cristo nella “gloria”, renderà possibile il giudizio definitivo dei vivi e dei morti. Riguardo alla dottrina della «Risurrezione», si possono aggiungere quattro riflessioni:
Primo, la dottrina della «Risurrezione» finale esclude le teorie della “reincarnazione, secondo le quali l’anima umana, dopo la morte, emigra verso un altro corpo, ripetute volte se occorre, fino a rimanere definitivamente purificata. A tal riguardo il Concilio Vaticano II ha parlato de «l’unico corso della nostra vita», perché «è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta» (Eb 9, 27); secondouna manifestazione chiara della «Fede» della Chiesa nella «Risurrezione» dei corpi è la venerazione delle reliquie dei Santi; terzoanche se la «cremazione» delle salme non è illecita, a meno che non sia fatta per motivi contrari alla fede, la Chiesa consiglia vivamente di conservare la pietosa consuetudine di seppellire i morti. Infatti, «i corpi dei defunti devono essere trattati con rispetto e carità nella “Fede” e nella “Speranza” della «Risurrezione». La sepoltura dei morti è un’opera di misericordia corporale; rende onore ai figli di Dio, tempi dello Spirito Santo»; la «Risurrezione» dei morti concorda con quello che la Sacra Scrittura chiama la venuta dei «nuovi cieli e una terra nuova» (Ap 21, 1). Infine, non solo l’uomo raggiungerà la “gloria”, ma l’intero universo, in cui l’uomo vive e agisce, sarà trasformato. «La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità – leggiamo nella Lumen Gentium (n. 48) –, non avrà il suo compimento se non nella “gloria” del cielo, “quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose” (At 3, 21), e quando col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo». Certamente ci sarà una certa continuità tra questo mondo e il mondo nuovo, ma anche una grande discontinuità. L’attesa della definitiva instaurazione del Regno di Cristo non deve indebolire, bensì ravvivare per la virtù teologale della “Speranza”, l’impegno per promuovere il progresso di questo mondo. 

L’enigma della morte dell’uomo si comprende soltanto alla luce della «Risurrezione» di Cristo. Infatti la morte, la perdita della vita umana, si presenta come il male più grande nell’ordine naturale, proprio perché è qualcosa di definitivo, che sarà superato in modo completo solo quando Dio risusciterà gli uomini in Cristo. Per un certo verso, la morte è naturale nel senso che l’anima si può separare dal corpo. Da questo punto di vista la morte segna il termine del pellegrinaggio terreno. Dopo la morte l’uomo non può più meritare o demeritare. «Con la morte, la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva». Non avrà più la possibilità di pentirsi. Subito dopo la morte andrà in paradiso, all’inferno o in purgatorio. Per questo, c’è ciò che la Chiesa chiama il “giudizio particolare. Il fatto che la morte segna il termine del suo periodo di prova serve all’uomo per indirizzare la propria vita, per utilizzare bene il tempo e gli altri talenti, per comportarsi con rettitudine, per spendersi nel servizio agli altri. La Scrittura insegna che «la morte è entrata nel mondo a causa del peccato originale» (cfr. Gn 3, 17-19; Sap 1,13-14; 2,23-24; Rm 5,12; 6,23; Gc 1,15;). 

Ad opera di un uomo, dice Paolo, entrò nel mondo il «Peccato», e ad opera del «Peccato» la «Morte». Ma ecco il centro di quanto va soprattutto pensato: che non è che la «Morte» sia entrata nel mondo ad opera del «Peccato», ma, all'opposto, che il «Peccato» è entrato nel mondo ad opera della «Morte»; e cioè che il vero «Peccato» è la «Morte» (Vedi post Ago. 2014 Il vero peccato, la Morte) . Pertanto dev’essere considerata come un castigo: l’uomo che voleva vivere facendo a meno di Dio, deve accettare il dolore della rottura con la società e con se stesso come frutto del suo allontanamento. 

Tuttavia Cristo «assunse la morte in un atto di totale e libera sottomissione alla Volontà del Padre suo». Con la sua obbedienza vinse la morte e ottenne la «Risurrezione» per l’umanità. Per chi vive in Cristo grazie al battesimo, la «Morte» continua ad essere dolorosa e ripugnante, però non è più una conseguenza del «Peccato», ma una preziosa possibilità di essere corredentori con Cristo, mediante la mortificazione e la donazione agli altri. «Se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui» (2 Tm 2, 11). Per questa ragione, «grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo». 

Nel creare e redimere l’uomo, Dio lo ha destinato all’«eterna» comunione con Lui, a quella che San Giovanni chiama la “Vita Eterna” o a quello che si suole chiamare “il Paradiso”. Così Gesù comunica ai suoi la promessa del Padre: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21). La “Vita Eterna” non è «un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia». 

La “Vita Eterna è ciò che dà un «senso» alla vita umana, all’impegno etico, alla donazione generosa, al servizio abnegato, allo sforzo per comunicare la dottrina e l’amore di Cristo a tutte le anime. La "Speranza" cristiana nel cielo non è individualistica, ma si riferisce a tutti. In base a questa promessa il cristiano può essere fermamente convinto che “vale la pena” vivere pienamente la vita cristiana. «Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva»; così ne parla Sant’Agostino nelle Confessioni: «Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te». La “Vita Eterna”, in definitiva, è l’oggetto principale della "Speranza" cristiana. «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono “così come Egli è” (1 Gv 3, 2), “faccia a faccia” (1 Cor 13, 12)». 

La teologia ha denominato questo stato “visione beatifica”. «A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando Egli stesso apre il suo Mistero alla contemplazione immediata dell’uomo e gliene dona la capacità». Il paradiso è la massima espressione della grazia divina. D’altra parte il paradiso non consiste in una pura, astratta e immobile contemplazione della Trinità. In Dio l’uomo potrà contemplare tutte le cose che in qualche modo si riferiscono alla sua vita, godendo di esse, e in particolare potrà amare quelli che ha amato nel mondo con un amore puro e perpetuo. «Non dimenticatelo mai: dopo la morte vi accoglierà l’Amore. E nell’amore di Dio ritroverete tutti gli amori limpidi che avete avuto sulla terra». 

Il godimento del paradiso raggiunge il culmine pieno con la «Risurrezione» dei morti. Secondo sant’Agostino, la “Vita Eterna” consiste in un riposo eterno e in una deliziosa e suprema attività. Che il paradiso duri eternamente non vuol dire che là l’uomo non è più libero. Nel cielo l’uomo non pecca, non può peccare, perché, vedendo Dio faccia a faccia, vedendolo fra l’altro come sorgente viva di tutta la bontà creata, in realtà non vuole peccare. Liberamente e filialmente, l’uomo salvato resterà in comunione con Dio per sempre. Con ciò, la sua libertà ha raggiunto la sua piena realizzazione. 

La “Vita Eterna è il frutto definitivo della donazione divina all’uomo. Per questo ha qualcosa di infinito. Tuttavia la «grazia» divina non elimina la natura umana, né nel suo essere né nelle sue facoltà, né la sua personalità, né quello che ha meritato durante la vita. Per questo c’è distinzione e diversità fra quelli che godono della visione di Dio, non in quanto all’oggetto, che è Dio stesso, contemplato senza intermediari, ma in quanto alla qualità del soggetto: «chi ha più carità partecipa di più della luce della gloria, e più perfettamente vedrà Dio e sarà felice».



martedì 9 giugno 2015

IL SENSO DELLA VITA ETERNA


La Fede cambia la percezione della vita. Senza Cristo tutto sfocia nel nulla. In Lui invece, si conquista tutto. Ci dona la “Vita Eterna”. E’ ciò che la Chiesa proclama. senza sosta da due millenni. (Dal libro di Benedetto XVI “La gioia della fede”). 

Dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la Fede cristiana è anche per noi oggi una “Speranza” che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta partiamo dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l’accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?». Risposta: «La Fede». «E che cosa ti dona la Fede?» «La Vita Eterna». 

Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla Fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella Fede la chiave per «La Vita Eterna». Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che «la Fede», di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – «La Vita Eterna». «Fede» è sostanza della “Speranza”. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano «la Fede» semplicemente perché «La Vita Eterna» non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto «La Vita Eterna», ma quella presente, e «la Fede» nella «Vita Eterna» sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. 

La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio. A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia». Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza...». Qualunque cosa Sant’Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole, è vero che l’eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l’umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. 

Ovviamente c’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «Vita»? E che cosa significa veramente «Eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «Vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «Vita», in verità non lo è. 

Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità». Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di San Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. «C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza» (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. 

Pensiamo che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell’uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa «cosa» ignota è la vera «Speranza» che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo. 

La parola «Vita Eterna» cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. «Eterno», infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; «Vita» ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’«Eternità» non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. 

Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la “Speranza” cristiana, che cosa aspettiamo dalla «Fede», dal nostro essere con Cristo.

Nota Finale

"Questa è la Vita Eterna: che conoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo". (Giovanni 17,3)

Conoscere significa amare: «Chi non ama non ha conosciuto Dio» (1Giovanni 4,8). Questa concezione è presente anche in San Paolo: «Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Corinzi 13,12); e poco prima l’Apostolo aveva cantato il suo celebre inno sulla carità. La meta finale del cristiano è, dunque, un «conoscere-amare», come preannunciava il libro della Sapienza: «Conoscere la tua potenza è radice di immortalità» (15,3). Questo, però, non esclude la dimensione intellettiva, cioè la conoscenza delle verità di Fede a partire dalla divinità di Cristo: «L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio... Chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre» (1Giovanni 2,22-23).