venerdì 29 maggio 2015

PIRANDELLO E L’UMORISMO


Nel suo saggio "L'umorismo" Pirandello ci spiega la differenza tra «comicità', ironia e umorismo». Il comico e l'ironia generano o sono generati da situazioni di una chiarezza assoluta; il comico, definito come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. L'umorismo nasce invece quando in un'opera accanto al sentimento, che organizza idee e immagini in una forma armoniosa, resta attiva la riflessione, che ne prende coscienza, la critica, la scompone, la analizza. L'umorismo e' perciò' quel processo della riflessione critica che consente di analizzare e di comprendere ciò che si nasconde dietro un fatto o un atteggiamento a prima vista comico. 

In questo saggio Pirandello si definisce come uno scrittore umorista, e definisce l’umorismo come il “sentimento del contrario”, spiegando che esso implica la compresenza di sentimento e riflessione. Generalmente, quando l’artista crea, la riflessione è assente, ed egli si lascia guidare dal sentimento; ma nell’opera umoristica la riflessione si para davanti al sentimento, lo giudica e lo scompone. 

Scrive Pirandello che gli uomini tendono a camuffarsi, a indossare delle «maschere», per apparire diversi e migliori di quello che sono: lo scrittore umorista riflette, giudica queste «maschere», questi atteggiamenti, e le strappa dal volto dei suoi personaggi, compatendoli. Pirandello stesso fornisce l’esempio illuminante della vecchia signora che si abbiglia e si trucca come una ragazza, suscitando ilarità. Questa prima reazione viene definita “l’avvertimento del contrario” ed è ciò che dà vita al comico. Lo scrittore umorista, invece, fa intervenire la riflessione, e allora pensa che quella signora si abbiglia e si trucca in quel modo perché forse ha un marito giovane e teme di perderlo se non sembra giovane anche lei; la vecchia signora è consapevole di essere ridicola, e soffre della situazione: ecco il “sentimento del contrario”, per cui si può affermare che l’umorismo di Pirandello può muovere, sì, al riso, ma si tratta di un riso amaro, pieno di pena, compatimento, sofferenza. 

Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L'umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera immediata. 
  • Comicità; capacità di provocare il riso, implicita in una situazione fortuita o combinata, relativa alla "commedia", sul piano della creazione o dell’interpretazione scenica. 
  • Ironia; alterazione spesso paradossale di un riferimento, allo scopo di sottolineare la realtà di un fatto mediante l’apparente dissimulazione della sua vera natura o entità, per esempio attraverso diverse gradazioni o qualità di riso: fare dell’ironia, parlare con ironia. Secondo la tradizione, il procedere speculativo del celebre filosofo “Socrate” , che, dichiarandosi ignorante, chiede lume (consiglio, schiarimento che aiuti a intendere, a sciogliere dubbi) all’altrui sapienza, per mostrare come quest’ultima si chiarisca in effetti come inferiore al suo stesso sapere di non sapere (ironia socratica). 
  • Umorismo; capacità di rilevare e rappresentare il ridicolo delle cose, in quanto non implichi una posizione ostile o puramente divertita, ma l’intervento di un’intelligenza arguta e pensosa e di una profonda e spesso indulgente simpatia umana. 
Pirandello svolge una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia le relazioni che intrattiene con gli altri. Influenzato dalla filosofia irrazionalistica di fine secolo, in particolare di Bergson, Pirandello ritiene che l'universo sia in continuo «divenire» e che la vita sia dominata da una mobilità inesauribile. L'uomo è in balia di questo flusso dominato dal «Caso», ma a differenza degli altri esseri viventi tenta, inutilmente, di opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi riconoscere ma che finiscono con il legarlo a «maschere» in cui non può mai riconoscersi o alle quali è costretto a identificarsi per dare comunque un senso alla propria esistenza. Se l'essenza della vita è il flusso continuo, il perenne divenire, quindi fissare il flusso equivale a non vivere, poiché è impossibile fissare la vita in un unico punto. Questa «dicotomia» (divisione di un'entità in due parti - che costituiscono una diade - che non necessariamente si escludano dualisticamente a vicenda ma che possono essere complementari) tra «vita e forma», accompagnerà l'autore in tutta la sua produzione evidenziando la sconfitta dell'uomo di fronte alla società, dovuta all'impossibilità di fuggire alle convenzioni di quest'ultima se non con la «follia». Solo il "folle", che pure è una figura sofferente ed emarginata, riesce talvolta a liberarsi dalla «maschera», e in questo caso può avere un'esistenza autentica e vera, che resta impossibile agli altri in quanto non è fattibile denudare la «maschera o le maschere», la propria identità ("Maschere nude" è infatti il titolo della raccolta delle sue opere teatrali). 

Dal contrasto tra la «vita e la forma» nasce il "relativismo psicologico" che si esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto interpersonale, e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha con se stessa. Gli uomini nascono liberi ma il «Caso» interviene nella loro vita precludendo ogni loro scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi.  Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l'io vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del «Caso» può accadere di liberarsi di una «forma» per assumerne un'altra, dalla quale non sarà più possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de "Il fu Mattia Pascal". L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno se stesso, poiché ognuno vive portando - consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente - una «maschera» dietro la quale si agita una moltitudine di personalità diverse e inconoscibili. Queste riflessioni trovano la più esplicita manifestazione narrativa nel romanzo "Uno, nessuno e centomila"
  • Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari; 
  • Centomila perché l'uomo ha, dietro la «maschera», tante personalità quante sono le persone che ci giudicano; 
  • Nessuno perché, paradossalmente, se l'uomo ha 100.000 personalità invero non ne possiede nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo vero "io". 
Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa il pensiero di Pirandello si scontra con il conseguente problema dell'incomunicabilità tra gli uomini: poiché ogni persona ha un proprio modo di vedere la realtà, non esiste un'unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante sono le persone che credono di possederla e dunque ognuno ha una propria "verità". L'incomunicabilità produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla società e persino da se stessi, poiché proprio la crisi e frammentazione dell'io interiore crea diversi io discordanti. Il nostro spirito consiste di frammenti che ci fanno scoprire di essere "uno, nessuno, centomila". 

I personaggi dei drammi pirandelliani, come il “Vitangelo Moscarda” del romanzo "Uno, nessuno e centomila" e i protagonisti della commedia "Sei personaggi in cerca di autore", di conseguenza avvertono un sentimento di estraneità dalla vita che li fanno sentire «forestieri della vita», nonostante la continua ricerca di un senso dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la «maschera», o le diverse e innumerevoli maschere, con cui si presentano al cospetto della società o delle persone più vicine. 

L'uomo accetta la «maschera», che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono a identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una nuova maschera, si rassegna. Vive nell'infelicità, con la coscienza della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che gli altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla fine passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa è la reazione tipica delle persone più deboli come si può vedere nel romanzo "Il fu Mattia Pascal"

Il soggetto non si rassegna alla sua «maschera» però accetta il suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. L'uomo, accortosi del relativismo, si renderà conto che l'immagine che aveva sempre avuto di sé non corrisponde in realtà a quella che gli altri avevano di lui e cercherà in ogni modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io. Vuole togliersi la «maschera» che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strapparsela ed allora se è così che lo vuole il mondo, egli sarà quello che gli altri credono di vedere in lui e non si fermerà nel mantenere questo suo atteggiamento sino alle ultime e drammatiche conseguenze. Si chiuderà in una solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale sforzo verso un obiettivo irraggiungibile nascerà la voluta «follia». La «follia» è infatti in Pirandello lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza.

Solo e unico modo per vivere, per trovare il proprio io, è quello di accettare il fatto di non avere un'identità, ma solo centomila frammenti (e quindi di non essere "uno" ma "nessuno"), accettare l'alienazione completa da se stessi. Tuttavia la società non accetta il relativismo, e chi lo fa viene ritenuto pazzo. Esemplari sono i personaggi dei drammi "Enrico IV", dei "Sei personaggi in cerca d'autore", o di "Uno, nessuno e centomila".





   

sabato 23 maggio 2015

FRANCESCO PETRARCA


Promotore dell’umanesimo cristiano, che viene a costituirsi con la sua stessa opera, Petrarca, distaccandosi anche dottrinalmente dal Medioevo, tenterà la sintesi del Cristianesimo con l’antichità classica. La Sapienza classica e cristiana – Cicerone e Agostino sono i maestri del Petrarca –  è quella fondata sulla «meditazione interiore», indispensabile all’uomo per conseguire la «pace spirituale» in questa vita e la «beatitudine» nell’altra. 

Nella riflessione morale e letteraria, che, con sorprendente varietà di accenti, il Petrarca condusse nel corso della sua vita, c’è un punto che merita di esser considerato essenziale e, per l’intelligenza del suo pensiero, non meno che della sua personalità, decisivo. 

Con particolare intensità, sebbene, come diceva, fosse di ingegno piuttosto equilibrato che acuto, atto a coltivare la Filosofia morale e le belle lettere in luogo delle ardue questioni della Metafisica, il Petrarca avvertì infatti che fra il mondo intellettuale e morale nel quale amava vivere e ricercare e scrivere, e quello della vera e propria Filosofia s’era spalancato un abisso incolmabile e istituito un insanabile conflitto; e che, qualunque cosa dovesse poi pensarsi dell’uno e dell’altro termine, innanzi tutto convenisse accettarli quali erano, termini di un dissidio che invano si sarebbe sperato di poter comporre in una sintesi. 

A giudizio del Petrarca, e, quel che forse conta di più, nella concretezza delle sue conoscenze, e, addirittura, delle sue emozioni e passioni, mentre il polo filosofico appariva caratterizzato da asprezze di linguaggio, ineleganza, e da una sorta di intima disarmonia intellettuale, l’altro era invece in primo luogo costituito da una sintesi: nel cui interno era bensì possibile sorprendere contrasti non a pieno risolti, e varie disarmonie, ma che non di meno era una sintesi, un’armonia fondamentale, radicata nel convincimento che, con Cristo, fosse assai più facile mettere d’accordo Cicerone che non Aristotele. 

Il polo, insomma, al quale il Petrarca aderiva, che proprio mediante la sua opera era anzi stato costituito, era quello dell’«umanesimo cristiano»: ossia, occorre specificare contro possibili equivoci, di un umanesimo che, nel suo essere tale, e cioè fondato nell’esperienza viva della parola antica, trova il suo accordo con il Cristianesimo, del quale quindi non costituisce che una sorta di dimensione interna. 

E’ un punto, questo, importante, e sul quale è perciò necessario insistere: «umanesimo cristiano» non significa qui che ogni umanesimo è cristiano perché il Cristianesimo stesso è umanesimo. Ma significa bensì che con il Cristianesimo l’antichità classica può trovare un accordo, e che, conservando la sua essenziale caratteristica, può entrare nel suo ambito. 

Le opere nelle quali questo orientamento è espresso sono naturalmente scritte in Latino, non in «volgare». Diversamente da Dante, che del «volgare» si servì per comporre il Convivio, la Vita nova, le Rime, la stessa Commedia, e che il Latino riservò al trattato politico e ad altre minori scritture, al «volgare» il Petrarca non ricorse se non per comporre il Canzoniere, e all’altra lingua affidò il resto, non solo il poema che intitolò Africa, ma anche le sue raccolte di lettere e gli scritti ai quali è riservata l’esposizione del suo pensiero. 

Il posto preminente è tenuto, fra questi, dal Secretum, un’opera di discreta estensione, che, nella forma di un dialogo avente a protagonisti, da un lato, Sant’Agostino e, da un altro, l’autore stesso, svolge, sulla scorta di questo pensatore cristiano prediletto fra tutti, un’analisi assai varia e approfondita della vita interiore, che il Petrarca ripercorre con un senso delle sfumature, dei contrasti e anche delle ambiguità, con una capacità di avvertirle e, nello stesso tempo, di porle in evidenza col non risolverle, che di quest’opera fanno una specie di atto inaugurale, se non, come è stato detto tante volte, della «modernità», almeno di certi suoi essenziali aspetti. Assai meno di questa capacità conta, infatti, nel Secretum, la trama logica dell’argomentazione, o, se si preferisce, la tesi.

La qualità ultima della scrittura morale del Petrarca sta infatti proprio nell’ampio spazio che si apre fra il rigorismo a cui i discorsi agostiniani sono ispirati e le incertezze, vissute come «colpa», che esso suscita, e sembra ingigantire, nell’animo del Petrarca nell’atto stesso in cui le mette a nudo e le condanna: con la conseguenza che anche il maestro finisce, quasi involontariamente, per far risaltare quella tendenza all’autoanalisi perplessa, e incapace di risoluzione, che è tipica in effetti dell’atteggiamento petrarchesco, che non va esente, sotto questo riguardo, da un certo autocompiacimento. E non è vero, dunque, da questo punto di vista, o non è vero nel senso consueto e più ovvio, quel che tante volte è stato detto di questo atteggiamento del Petrarca che, nella sua oscillazione fra gli ideali ascetici e severi della pura contemplazione religiosa e l’inclinazione a dar ascolto alle contrastanti voci delle passioni terrestri, combatterebbe in se stesso la battaglia dell’antico e del nuovo, della «trascendenza» e dell’«immanenza», comparendo, nell’incertezza del risultato, uomo tanto del Medioevo quanto della nuova età.
  • Trascendenza; Il termine indica in primo luogo il carattere essenziale dell’Assoluto, sia nel senso che esso non è soggetto alle condizioni di esistenza del finito, sia nel senso  che esso oltrepassa i limiti della conoscenza umana. 
  • Immanenza; La situazione di una realtà in quanto intimamente legata ad un'altra, di cui generalmente costituisce le premesse e le garanzie di sviluppo e di affermazione. In Filosofia (contrapposto a Trascendenza), di ogni realtà in rapporto di coessenzialità con altre (di una medesima essenza, identico quanto all’essenza, specialmente come termine teologico). 
L’alternativa fra il rigore della vita ascetica e il richiamo della mondanità è per intero interna a questa volontà di autoanalisi, che costituisce, essa, l’autentica realtà del Petrarca, il quale, effettivamente, come non sente il primo valore, così, a rigore, non sente il secondo, e mai sceglierebbe l’uno contro l’altro. E lo si vede con chiarezza quando, ad esempio, si cerchi di indagare il suo pensiero politico: che del vero pensiero politico non ha la concretezza storica, e non ha la passione, e piuttosto è un sentimento generico di pace, di interiore libertà, di equilibrio etico e letterario da conseguirsi nella sicurezza del vivere: un sentimento, dunque, che, a sua volta, torna di continuo a prender la forma introspettiva, dell’introspezione senza fine e mai disposta, come si è detto, a trapassare in un risultato definitivo, che del Petrarca è la fondamentale caratteristica. 

Il consiglio che si fa rivolgere dal filosofo cristiano è che nella solitudine studiosa egli sappia ritrovare la massima morale atta ad illuminare e guidare la sua vita, essendo per altro fuori questione che le voci che, in tale solitudine, parleranno al suo spirito saranno quelle a lui care degli scrittori, non solo cristiani, ma anche, e sopra tutto, classici. 

Grande rappresentante dell’Umanesimo filologico, Petrarca vede negli studia humanitatis uno strumento efficace per creare una nuova cultura e una nuova concezione di vita. La sua biblioteca, ricchissima di codici preziosi, può esser guardata come luogo ideale in cui la filologia moderna nasce, specificandosi non solo come amore per la parola ricercata, ma soprattutto come coscienza della sua concreta storicità. 

E’ ben comprensibile che uno scrittore di questa qualità non potesse nutrire, nei confronti della Filosofia, la passione sperimentatrice che traversa e anima l’opera di Dante, l’ansia di placarla nell’assoluta contemplazione del tutto, che altresì è tipica del poeta della «Commedia». E anche è comprensibile che nella Filosofia il Petrarca avvertisse sopra tutto qualcosa di ostile alla causa, quale egli la intendeva, dell’uomo, e che, anche in questo mostrando la sua straordinaria capacità di anticipare in sé situazioni che sarebbero state al centro di tempi ancora non nati, essa entrasse in contrasto, innanzi tutto nella sua coscienza, con la disposizione a edificare la vita morale in un quadro di valori letterariamente atteggiati, e non privi altresì di un’intrinseca vena «edificante». 

Ad Aristotele, e a quanti ne professavano le dottrine, il Petrarca rimproverava essenzialmente di scrivere male; e di scrivere così, o non bene come accadeva a Cicerone, non perché la natura li avesse privati di questa capacità, ma perché di questa si erano essi privati quando avevano deciso di preferire, all’etica, la logica, le aspre dispute concernenti la fisica e la metafisica a quelle che hanno ad oggetto l’uomo e la sua salvezza in Cristo.



            

mercoledì 20 maggio 2015

DANTE E LA «COMMEDIA»




















Dante Alighieri nasce a Firenze da una famiglia di antica nobiltà «guelfa» decaduta: il che vuol dire nostalgia di un prestigio ormai lontano nel passato e pochi quattrini nel presente. Per alcuni sintesi del Medioevo o coscienza drammatica del suo tramonto, per altri precursore dell’Umanesimo se non del Rinascimento, Dante affermerà sempre con tutta la potenza della sua arte l’esigenza di quel rinnovamento che sarà poi la parola della rinascita. Dante va a lezione di retorica da Brunetto Latini: studia con amore grandissimo Virgilio e con appassionato accanimento gli altri classici. Nella giovinezza entra nel club dei poeti dello «stil novo»; poi si dà una salda formazione filosofica: l’entusiasmo per la Filosofia è tale «che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero». Aristotele, dopo Virgilio, diventa suo Maestro. 

Da ricordare che, come discepolo di Aristotele e dei maestri medievali, Dante concepisce l’universo come un insieme proporzionato di parti gerarchicamente distribuite: ossia ordinate in modo che da Dio, «atto infinito», come ha scritto il Nardi, «senza ombra di imperfezione e di passività», scende di grado in grado su «una materia tenebrosa e indeterminata» la pura luce intellettuale che al supremo vertice divino appartiene per essenza. 

La perfezione dell’universo è perciò da intendere in senso specifico; perché, per un verso, perfezione autentica è quella di Dio, e, per un altro (ma, appunto, in senso diverso), è quella del «sistema» che ne discende: un «sistema» che, in se stesso, è perfetto solo in questo ulteriore significato, che i gradi discendenti dal vertice divino alla materia informe costituiscono la necessità del suo ordine, che non può essere mutato e, in questo senso specifico appunto, può dirsi «perfetto» e «non mutabile». 

Rimarrebbe, senza dubbio, da chiarire, in questo quadro, l’ardua questione della «Creazione» e della «Eternità» o «non Eternità» dell’universo che consegue al suo atto; rimarrebbe altresì da chiarire in che senso la perfezione di Dio stia al di fuori dell’universo che ne dipende e se ne distingue come il transeunte (ciò che essendo soggetto al divenire è destinato a finire) dall’eterno, e in che senso, invece, per ciò stesso che lo costituisce, lo renda, nell’intrinseco, partecipe di sé e della sua «Eternità». 

Questioni, e l’una e l’altra, assai complesse. E sebbene, posta dai filosofi antichi, almeno la prima fosse stata al centro del grande dibattito sulla Filosofia di Aristotele, che traversa il XIII secolo, e fosse ancora assai viva al suo tempo, Dante tuttavia si astenne dal renderla esplicita e dal trattarla; perché, diverso in questo da Sigieri e dallo stesso Tommaso d’Aquino, che vi si travagliò potentemente, egli mostrò di condividere, senza discussione e, per così dire, «ex silentio», il dettato della «catholica fides». 

Comunque sia di ciò, nel quadro concettuale che Dante condivise, precisa è la «posizione» dell’uomo; che egli considerò intermedio fra Dio e la materia, immerso in questa per via dei sensi, ma capace tuttavia di pervenire a quello per la via dell’«intelletto possibile», che è la facoltà di raccogliere in sé le forme universali e individuali, rispecchiando l’universo. Era questa, che Dante seguiva, una linea concettuale che, con i già notati apporti platonici o, piuttosto, neoplatonici, risaliva ad Aristotele e a coloro che sopra tutto fra XIII e XIV secolo, ne avevano divulgato o fatto conoscere il pensiero. 

La vita di Dante è scandita da un prima e da un poi: un «prima» in Firenze e un «poi» in esilio. Così è della sua vita pubblica, come della sua vita interiore, dominata per intero, questa, dall’immagine di Beatrice, la «gentilissima», dalla quale viene «ogne dolcezza» e «ogne pensero umile». Dante respira a Firenze un’aria ricca di fermenti culturali diversi: e nelle sue «Rime» giovanili ripropone infatti i temi della poesia didascalica di Brunetto, suo maestro, come i temi della poesia cortese di Guittone o della poesia «comica» di Cecco Angiolieri. L’incontro più importante rimane tuttavia quello con i poeti dello «stil novo». 

Muore la «gentilissima» e ogni legame mondano con lei cade per sempre: Dante, dopo un periodo di traviamento, ha la visione della sua donna ora tutta splendente di gloria celeste. Questa visione lo sconvolge e lo porta a una «intelligenza nova»: a un’ansia di conoscenza della verità, di appagamento nella contemplazione del divino. Sarà da questo punto d’arrivo della «vita nova» che scaturirà, più in là negli anni, la concezione grandiosa della «Commedia».  

Fra il 1304 e il 1307, Dante dà corpo ad un progetto grandioso: vuole scrivere, tutto da solo, un’enciclopedia assai vasta, vuole raccogliere l’intero scibile dell’uomo. E’ come se volesse invitare a un gran banchetto di dottrina i suoi lettori: perciò quest’opera s’intitola «Convivio». E’ una compilazione dotta, dovrebbe quindi essere scritta in latino. Invece Dante usa il «Volgare», perché gli invitati al suo banchetto sono coloro che, pur dotati di spirito «gentile», non hanno potuto dedicarsi allo studio, per «cure familiari e civili». Questo è in realtà ciò che conta di più nel «Convivio»: il suo proporsi appunto come strumento di lavoro per uomini «volgari», cioè «non letterati», il suo adoperarsi volenteroso a suscitare l’entusiasmo del sapere, il culto dell’intelligenza. 

Negli stessi anni Dante tuttavia s’occupa anche d’altro. Per gli uomini di dottrina questa volta, e perciò in latino, scrive il «De vulgari eloquentia»: cioè un trattato nel quale vuole dettare norme precise per l’arte dello scrivere in «Volgare». Con il trattato Dante vorrebbe soprattutto convincere i dotti della necessità dell’uso della nuova lingua. Anche questo è un progetto molto ambizioso che s’interrompe: dei quattro libri concepiti, ne verrà scritto soltanto uno e mezzo. Un'«Utopia» impossibile, dunque, un disegno astratto che non può trovare riscontro alcuno nella realtà. 

Un’altra splendida «Utopia»viene disegnata in un trattato in tre libri, nel «Monarchia» in cui Dante scrive che la necessità dell’Impero universale, unico fondamento della felicità che quaggiù «havere si puote», trova la sua autentica radice nell’intelletto. Qui Dante studia la nascita e la funzione storica dell’Impero; ma soprattutto affronta un problema di grande attualità nei primi anni del Trecento: quello cioè del rapporto fra Chiesa e Impero. C’era chi sosteneva che il primato spettasse all’impero e che da esso venisse la podestà della Chiesa, così come la luna riceve luce dal sole; ma c’era invece chi sosteneva tutto l’opposto. Contro questa e quella concezione si pone Dante, che avanza invece la «Teoria dei due soli»: autonomo è il potere dell’imperatore, come autonomo e quello della Chiesa , perché l’uno e l’altro derivano da Dio direttamente. Così la loro funzione è diversa: l’impero ha come fine il raggiungimento della «felicità» in questa vita, la Chiesa ha come meta la «beatitudine per l’Eternità». Ed è davvero un bel sogno: un sogno che abolisce con un sol colpo d’intelligenza ingenua tutti i conflitti di potere. Di sole nell’universo invece ce n’è uno solo. 

L’ampia dottrina, il sogno magnifico di rifare il mondo, il vizio candido dell’«Utopia» trovano finalmente una via espressiva , che tutto riesce a comprendere e quadrare, nella tensione profetica della «Commedia», dove Dante si figura (e si riconosce) predestinato da Dio a un viaggio mistico. Enea, il «pio» eroe di Virgilio, fu chiamato a dare fondamento all’Impero romano e a portare nel mondo la civiltà. San Paolo fu eletto a diffondere nel mondo la «Verità cristiana». Dante, terzo, si sente scelto per salvare il mondo dal baratro di corruzione in cui è caduto. Davanti a lui c’è lo spettacolo turpe di tanti errori e fallimenti; c’è lo squallore di una rovina a precipizio dei valori antichi: l’imperatore ha dimenticato la sua funzione più importante, di garantire ai sudditi giustizia e pace; la Chiesa ha smarrito il «senso» della propria missione di carità. Il mondo è fatto brutto dall’ansia dei «subiti guadagni», che genera altri vizi: «orgoglio a dismisura», invidia e prepotenza. 

La «Commedia» nasce, appunto, in questo clima di profezia, ma anche d’invasamento: c’è un’analisi lucidissima, all’interno della storia, di un destino universale, ma c’è anche una visione allucinata, che si pone al di là del tempo. Il pellegrinaggio nell’«oltretomba», in cui viene analizzato il male, la corruzione orrenda del mondo, il cammino per cui, attraverso l’espiazione, si giunge alla «Gloria» del Paradiso, vuole comunque essere il viaggio di una redenzione individuale e insieme di un riscatto universale: di una rigenerazione insomma che, attraverso il destino del poeta, si trasmetta a tutta l’umanità, che in una storia d’anima coinvolga il mondo intero. 

Nel poema, quella che i posteri chiameranno la «Divina Commedia», Dante raduna l’intero sapere di una civiltà e insieme le aspettative e le paure di questa civiltà: nella raffigurazione di quello che è un viaggio mistico confonde «Scienza e Fede». Ed eccolo Dante nel suo viaggio. Si trova da principio smarrito in una «selva oscura», vede un «dilettoso» colle che splende al sole: si trova cioè in uno stato d’animo d’ignoranza ed errore e vede la possibile redenzione. Da sé non può darsi salute: occorre per lui un aiuto sovrannaturale. E giunge perciò Virgilio, «Ragione e Amore». Virgilio sarà guida a Dante, nel viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio. Poi, nel Paradiso, la «Ragione» dovrà farsi “Fede” e l’«Amore» “Grazia”: allora al buon Virgilio si sostituirà Beatrice. 

Dante, grazie alla riflessione filosofica acquisita dalla "Summa Theologiae" di S. Tommaso, comprende che non sempre e comunque il sentimento amoroso ingenera un'elevazione dell'animo, perché se tale sentimento “amoroso” stravolge l'aspetto razionale dell'uomo - vera peculiarità dell'essere umano che lo differenzia dagli altri esseri - non può configurarsi come atto positivo, come azione nobilitante e quindi strumento per arrivare a Dio. Al contrario, quando si trasforma in «appetito di fera» (è l'espressione che usa Dante nella canzone CVI «Doglia mi reca ne lo core ardire» delle Rime in vrs. 143), è un sentimento negativo, che inchioda l'uomo alla sua animalità e quindi lo allontana ovviamente da Dio: è per questo che Francesca è all'Inferno ed è consapevole della giustizia di Dio nel porla in quel luogo per l'eternità. Sotto questo aspetto il "quinto canto" dell'Inferno è emblematico del passaggio fra le due concezioni. Nella prima parte troviamo, infatti, l'esaltazione dell'amore da parte di Francesca secondo le dinamiche classiche del Dolce Stil Novo: «amor, ch'a nullo amato amar perdona...» (vrs.103). Ma, nei versi successivi, Dante, attraverso le parole di Francesca che descrivono il tradimento, esplicita la sua nuova concezione d'amore che prevede il passaggio attraverso la componente razionale: «ma solo un punto fu quel che ci vinse...» (vrs.132). Il «ci vinse» rappresenta l'abdicare della ragione rispetto all'«appetito di fera» e quindi segna l'impossibilità di amare Dio da parte dei due amanti. Tale concetto è, del resto, esplicitato all'inizio dello stesso canto, quando Dante spiega l'applicazione della legge del contrappasso, che per i lussuriosi si concreta nella bufera infernale: «che la ragion sommettono al talento...» (vrs.39). Lì dove «talento» è sinonimo di "piacere" e "desiderio", capace di sottomettere la "ragione" e quindi trasformare l'uomo in "animale". Tutta questa "teoria d'amore" è spiegata da Dante nel XVII (vv. 85 - 139) e in particolare nei versi 1 - 39 e 46-75 del XVIII del Purgatorio.

Come si comprende si può affermare che, in rapporto a quest'argomento, Dante scopre il "libero arbitrio", la "libertà" innata della nostra capacità di amare che può orientarsi al bene come al male, ma che, comunque resta libera. In relazione a tale riflessione Dante, come si è detto, molto deve a San Tommaso d'Aquino, che parla molte volte dell'amore nella sua opera fondamentale, la "Summa Theologiae", mettendolo ovviamente in relazione alla sua visione antropologica. Interessante infine sottolineare che per Dante non esiste una reale differenza - a livello di dinamiche interiori e di manifestazioni esteriori - fra l'amore umano e quello divino. Basta leggere le parole con cui S. Francesco nell'"undicesimo" canto del Paradiso parla del proprio rapporto con "Madonna Povertà", che si configura - addirittura a livello linguistico - come un perfetto rapporto uomo-donna (vrs.57-87).


Dante arriva a Dio attraverso l'amore umano, interpretandolo come reale ed efficace strumento di elevazione verso Dio.

Dante con Virgilio entra dunque nell’Inferno; varca la fatale porta, attraversa l’antinferno, dove stanno gli «ignavi»: gli spiriti negativi che non seppero fare né bene né male in vita. Passa il fiume d’Acheronte e arriva al «limbo»: qui c’è il nobile castello dei poeti e dei filosofi, che non poterono conoscere la «verità», perché vissuti prima della discesa in terra di Gesù Cristo. Il «limbo» è il primo cerchio dell’Inferno dove sono i «non battezzati»; nel secondo ci sono i «Lussuriosi», nel terzo i «Golosi», nel quarto gli «Avari e Prodighi»,  nel quinto gli «Iracondi e Accidiosi», nel sesto gli «Eretici», nel settimo cerchio i «Violenti» suddivisi in tre gironi (Omicidi, Suicidi – nei primi due –  e  nel terzo girone i Bestemmiatori, Sodomiti, Usurai). Nell’ottavo cerchio i «Fraudolenti» suddivisi in dieci Bolge: Seduttori, Adulatori, Simoniaci, Indovini, Barattieri, Ipocriti, Ladri, Consiglieri fraudolenti, Portatori di Discordia e Falsari. Infine il Nono e ultimo cerchio dove ci sono i «Traditori» suddivisi in quattro zone: Caina (Traditori dei parenti),  Antenora (Traditori della patria), Tolomea (Traditori degli ospiti), Giudecca (Traditori dei benefattori). 

L’Inferno è una voragine scavata sotto Gerusalemme: questa voragine si fa sempre più stretta nei suoi cerchi concentrici e ha forma dunque d’un «cono» capovolto. Al vertice del «cono» c’è una distesa plumbea di ghiaccio, dove stanno confitti i «Traditori» e in mezzo a loro, ridotto a mostro, «Lucifero» che tradì Dio. 

Il viaggio nell’Inferno termina. Dante e Virgilio passano attraverso un cunicolo molto stretto e tornano a «riveder le stelle». Ora sono agli antipodi di Gerusalemme, sulla spiaggia di un’isola perduta nell’oceano. Cala la notte, il silenzio è immenso, profonda e dolcissima è la quiete. Quando s’alza il sole, appare una montagna che sale su su verso il cielo: è il monte del «Purgatorio», dopo il regno del peccato, quello del pentimento e della speranza. I due poeti sulla spiaggia incontrano "Catone l’Uticense", colui che ad una servitù infamante preferì la morte: è un simbolo di libertà che interpreta appunto l’ansia di liberazione dalla schiavitù del male. 

Il nuovo percorso del viaggio dantesco, dopo la discesa nel regno del male, è dunque un percorso di lenta e faticosa risalita. Dante scalerà le nove cornici che cingono la montagna del «Purgatorio»: dove si dispongono le anime, via via sempre più in alto, a seconda della maggiore o minore gravità del loro peccato. E c’è un «antipurgatorio», dove stanno le anime di coloro che tardarono a pentirsi e poi le cornici, con i Superbi, gli Invidiosi, gli Irosi, gli Accidiosi, gli Avari e i Prodighi, i Golosi, i Lussuriosi. 

In vetta al monte fa spettacolo la foresta leggiadra del «Paradiso Terrestre». Qui Dante incontra Beatrice, che d’ora innanzi gli sarà guida, qui si congeda quindi da Virgilio. Il «Paradiso» è pura luce. Dante gli dà figura di «nove sfere» concentriche, incorruttibili e cristalline, nelle quali sono incastonati, come pietre preziose, i «Pianeti». C’è il cielo della Luna, poi di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove e di Saturno, fino al primo mobile, attorno a cui ruotano gli altri. 

La luce si fa tanto più intensa, quanto più ci s’avvicina a Dio. Dante incontra le anime di coloro che per violenza altrui vennero meno ai loro voti, poi quelle di coloro che fecero il bene per desiderio della «Gloria», quindi gli spiriti amanti,i sapienti, i guerrieri della fede, i principi giusti, i contemplativi. Queste anime scendono nei diversi cieli solo per indulgere benevolmente ai limiti delle  umane possibilità di percezione del poeta. E si dispongono solo per questo in una scala gerarchica, la quale dice del loro maggiore o minore grado di perfezione nella grazia, ma non indica in nessun modo una differenza, anche minima, di felicità. Le anime dei beati infatti dimorano al di là dei nove cieli, intorno a Dio, nell’«Empireo», che non fa parte dello spazio, ma comprende tutti gli spazi. 

Nell’Inferno trionfa la materia: la pena non cancella infatti il peccato, lo perpetua. E la materia per Dante è turpe: ciò che è terrestre al poeta appare anche contaminato. Il viaggio nell’Inferno è viaggio nella degradazione. Questa degradazione trova immagine, prima di tutto, in un paesaggio rotto, sconvolto, oppure desolato: compaiono perciò precipizi e strapiombi, rocce selvagge e dirupi, fiumi rossi di sangue, paludi coperte di vapori spessi, foreste spettrali fitte di alberi contorti, deserti sterminati di sabbia, immense distese di ghiaccio. Su tutto grava un «aria morta»: un buio greve e perpetuo che cancella il tempo. L’orrido spettacolo dell’Inferno riproduce quello della terra: riproduce però una natura orbata della sua vita, spogliata della sua bellezza, privata della sua malinconia. 

Il clima tetro in cui si cala il racconto del viaggio nell’Inferno non esclude tuttavia pause narrative di una drammaticità intensa, umanissima: sono gli episodi più famosi della «Commedia» come quello dell’amore di "Paolo e di Francesca", come le storie della propria sciagura o le difese del proprio operato, via via narrate o proclamate dall’eresiarca "Farinata" o dal suicida "Pier delle Vigne", da "Ulisse" fraudolento o dal conte "Ugolino" traditore. Severa rimane, inflessibile, la condanna morale di Dante: la partecipazione umana si fa però evidente. E proprio questa complicità impaurita dà all’Inferno quell’andamento narrativo molto drammatico, che non si ripeterà più nel Purgatorio e nel Paradiso. 

Ognuna delle tre cantiche in cui è scandita la «Commedia» ha una propria forma di poesia: ed è l’insieme di queste diversità che dà valore e significato al poema intero. All’«aria morta» del mondo infernale si sostituisce, nel Purgatorio, un’aria tersa e pura. Qui infatti le anime riconquistano la libertà dal peccato e quindi a loro viene concessa la vista della luce. Così, se l’atmosfera dell’Inferno era «sanza tempo tinta», qui invece torna l’alternanza del giorno e della notte; anzi proprio il trascorrere delle ore segna il crescere della tensione delle anime verso la purezza e il loro avvicinarsi progressivo alla meta celeste. 


La struttura narrativa della seconda cantica muta profondamente. Nell’Inferno il viaggio era una discesa in un abisso di conoscenza del peccato sempre più spaventata; nel Purgatorio, invece, il viaggio si configura come un’ascesa, come una liberazione progressiva da tutto ciò che è corporeo. Non ci sono più scontri, ma solo incontri: e i colloqui sembrano tramutarsi in un monologo continuo di un’anima che interroga se stessa. Nel Purgatorio rimane tuttavia una traccia ancora visibile di drammaticità narrativa. Le anime sono consapevoli del loro prossimo destino di beatitudine, sanno di salire verso la verità: e tuttavia insieme a questa certezza hanno anche la coscienza di doversi conquistare il loro futuro di serenità beata, lottando ancora con il peccato, attraversando duri contrasti e tormenti aspri. 

Dante, lo abbiamo detto, incontra Beatrice in cima al monte del Purgatorio e con lei passa nel Paradiso. L’esperienza di questo passaggio non è esprimibile: Dante dice che è un «trasumanar», un andar oltre alle possibilità umane. E del resto tutta l’esperienza del viaggio nel Paradiso rimane ineffabile (che non può essere espresso adeguatamente a parole), non si può «dir per verba»: perché è l’esperienza dell’anima che si annulla dolcemente nella contemplazione della verità. Questa verità è luce, una luce che si fa più intensa via via che l’anima si avvicina a Dio: Beatrice, che accompagna Dante nel suo cammino, è simbolo insieme della grazia e della verità rivelata; perciò la sua bellezza tanto più sfolgora quanto più procede questo viaggio, quanto più s’affina la capacità di vedere del poeta. 

L’immagine della grande croce in cui si raccolgono le luci dei beati nel cielo di Marte, oppure quella dell’aquila che si disegna nel cielo di Giove, fino a quella della candida rosa dell’Empireo, non costituiscono in nessun modo un motivo paesaggistico, né tanto meno una realtà fisica: diventano puri simboli, metafore quasi spontanee della verità, di fronte a cui s’incanta l’anima. Alla conclusione del proprio viaggio, Dante, di fronte a Dio, rinuncia ad esprimere ciò che a lui si rivela e che è al di sopra delle possibilità del dire umano; ma non rinuncia a raccontare – proprio attraverso questa confessione di impossibilità – lo smarrimento dolce dell’anima. Nel Paradiso diventa fondamentale questo atteggiamento: la poesia della terza cantica sta soprattutto nell’umanissimo struggimento dell’ineffabile, nella rassegnata disperazione per il limite invalicabile della parola umana. 

Dante riassume nella «Commedia» tutta la cultura del Medioevo. Il poema è un mirabile intreccio, un groviglio in cui è difficile districarsi, dove possono convivere il sublime e l’orrido, il tragico e il Malinconico, triste, il nobile ed il plebeo,il grottesco e il drammatico: in un labirinto fitto di linguaggi, di toni, di temi e motivi narrativi, nel quale bisogna sapersi perdere, se ci si vuol stare. La materia della «Commedia» è sterminata ed eterogenea: ma Dante è un architetto che ha il gusto della geometria, nel costruire la propria cattedrale di parole. Il numero «tre» era simbolo, nella mistica del Medioevo, della «trinità»; il numero «dieci» della perfezione. 

Questi due numeri regolano l’impalcatura più visibile della «Commedia». Il poema è scritto infatti in «terzine». Le cantiche sono «tre»: ognuna d’esse si suddivide in «trentatré» canti: ai novantanove se ne aggiunge uno che fa da proemio. I canti diventano perciò «cento», che è «dieci volte dieci». Il «tre» con il multiplo di nove e il «dieci» ricorrono poi all’interno di ciascuna cantica. 

L’«Inferno» è suddiviso in «nove» cerchi, ad essi si aggiunge l’antinferno; i dannati sono spartiti in «tre» categorie principali, a seconda che abbiano peccato per incontinenza, violenza o frode. «Nove» sono le cornici del «Purgatorio»: e anche qui le anime sono raggruppate a seconda che l’amore loro sia stato diretto al male, oppure, se al bene, con troppo o con troppo poco vigore. Infine ai «nove» cieli del «Paradiso» s’assomma a fare «dieci» l’«Empireo»: (nella cosmologia e teologia medievale, decimo e ultimo cielo, sede di Dio e dei Beati) e i Beati sono distinti a seconda che la loro devozione per il Signore fosse mescolata ad interessi mondani, o si manifestasse in vita attiva oppure contemplativa. 

Questo rigore architettonico trova riscontro nelle continue corrispondenze interne tra le cantiche, in una simmetria complessa di riferimenti oppure di situazioni narrative: ed è un’esattezza di geometrie, quasi una griglia d’ordine sovrapposta che imbriglia il caos del mondo. L’ordine dell’architettura cancella il caos. Del caos del mondo rimane traccia tuttavia nella composizione dello stile, nel complesso impasto linguistico della «Commedia» che al gioco (nell’Inferno) delle rime difficili, dei suoni stridenti, delle parole crudemente dialettali sostituisce (nel Paradiso) l’uso prezioso dei latinismi, dei francesismi o l’invenzione di parole assolutamente nuove. La lingua di Dante si fa perciò assai espressiva: tradisce la tensione interna tra caos e ordine, tra storia e profezia; ma insieme apre una strada nuova alla poesia futura. Di lì a poco verrà lo stile tutto decoro raffinato, persino schifiltoso, tutto armonia ed eleganza di Petrarca: questo stile si farà modello per secoli alla poesia italiana.

Nota Finale

Pur essendo essenzialmente poetiche, tutte le opere di Dante, da quelle latine a quelle volgari, rientrano a vario titolo ma con piena legittimità nel quadro della Filosofia. Esemplare in questo senso la «Commedia», insuperabile testo poetico, ma dove tutto trova posto: dalla questione del destino individuale e universale dell’uomo, alle più sottili dispute filosofiche e teologiche, dalla teoria politica alle indagini sulla struttura fisica e metafisica del cosmo. "Aristotele e Tommaso", "Averroè e Sigieri" convergono in funzione di una visione cristiana integrale che abbraccia e valorizza l’uomo, il cui compito supremo resta sempre la visione beatifica di Dio.