giovedì 9 aprile 2015

GANDHI E IL SUO PENSIERO



Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma è stato un politico e filosofo indiano. Importante guida spirituale per il suo paese, lo si conosce soprattutto col nome di Mahatma (in sanscrito – una lingua ufficiale dell’ India – «grande anima»), appellativo che gli fu conferito per la prima volta dal poeta Rabindranath Tagore. Un altro suo soprannome è Bapu, che in hindi significa «padre». 


Il messaggio che il Mahatma ci lascia è molto attuale e la storia contemporanea, purtroppo, continua ad essere macchiata dalla guerra e dalla violenza. Gandhi riesce, con le sue sole forze, a sconfiggere il potente Impero britannico e a realizzare il suo grande sogno dell’indipendenza per il suo paese. Come? Con la forza sbalorditiva della «non-violenza», del «boicottaggio pacifico», della «resistenza passiva e della ricerca della Verità (Dio)». Come possiamo rendere attuale Gandhi? Come possiamo essere anche noi portatori di pace?

Gandhi dimostra che la forza di un singolo uomo può diventare la forza di un popolo intero. Con le sue parole, ci incoraggia a «cercare la propria strada e seguirla senza esitazioni» e a «non avere paura». Rivolgendosi a ciascuno di noi aggiunge: «affidati alla piccola voce interiore che abita il tuo cuore e che ti esorta ad abbandonare, tutto, per dare la tua testimonianza di ciò per cui hai vissuto e di ciò per cui sei pronto a morire» (The Bombay Chronicle, 9 agosto 1942).

Il pensiero di Gandhi relativo al «satya» e all’«ahimsa» fu influenzato dalla religione, in parte anche dalla lettura del Vangelo. La «Verità e la non-violenza» costituiscono le colonne portanti dell'intero pensiero gandhiano: intrecciate indissolubilmente, esse sono state le due vie lungo le quali Gandhi ha cercato di condurre la propria vita e diffondere la sua visione della vita. 

Per Gandhi l'uomo nella sua vita terrena deve cercare di avvicinarsi il più possibile alla Verità, che è Dio: «La mia fervente ricerca mi portò alla massima rivelatrice "La Verità è Dio", invece della solita "Dio è la Verità"». La fede nella Verità è il fondamento più solido della ricerca di una vita sociale improntata alla non-violenza, all'amore e alla giustizia. 

Il compito del satyagrahi, cioè del rivoluzionario non-violento, è proprio quello di combattere la «himsa» – il male – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità. Il sentiero che conduce a Dio è dentro ogni uomo, e consiste nel cercare di improntare quanto più la propria vita verso la giustizia e l'amore: «Quanto più l'uomo si conosce, tanto più progredisce.» Il cammino verso la Verità è irto di ostacoli, e colui che lo intraprende deve essere dotato di una grande volontà, oltre ad essere disposto a compiere grandi sacrifici.

L’ahimsa«La non violenza è il primo articolo della mia fede. È anche l'ultimo articolo del mio credo.» Ahimsa è una parola sanscrita (è una lingua ufficiale dell’India) tradotta nelle lingue europee moderne con il termine "non violenza" (a= non, a primitiva; "himsa"= violenza, ingiuria, male, danno). Ahimsa significa non usare violenza, non far del male, amare e anche essere giusti nei confronti degli altri. Per Gandhi l'ahimsa è un atteggiamento etico derivante dalla fede nella Verità "Satya", il fondamento più solido della ricerca dell'ahimsa, cioè di una vita sociale improntata alla non-violenza, all'amore, alla giustizia.  

L'amore per il prossimo: «Se l'amore e la non-violenza non sono la legge del nostro essere, tutta la mia argomentazione cade a pezzi.» L’ahimsa è amore verso il prossimo, sentimento disinteressato di fare il bene degli altri, anche a costo di sacrifici personalisecondo Gandhi tutti gli esseri viventi, in quanto creature di Dio, sono legati tra loro e devono essere uniti da amore fraterno. Seguendo l'insegnamento cristiano dell' "Ama il prossimo tuo come te stesso" Gandhi predica l'amicizia fraterna tra tutti gli esseri umani, musulmani e indù, uomini e donne, paria e brahmini (oppressi e custodi della scienza e sacerdoti) in nome dell'amore e dell'uguaglianza: «Io e te siamo una sola cosa: non posso farti male senza ferirmi.» Ognuno deve essere disposto anche a morire per l'altro, a lottare per le ingiustizie fino in fondo, purché la verità e la giustizia trionfino.

Il rifiuto di ogni violenza: il Pacifismo. «Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere.» Se da una parte l’ahimsa è amore disinteressato d'altra parte essa è anche rifiuto totale di ogni tipo di odio verso gli altri: Gandhi afferma come anche se sottoposti ai più terribili soprusi, alle più gravi ingiustizie, ai più strazianti dolori, mai e poi mai si deve ricorrere alla violenza verso il prossimo. Si tratta di una negazione assoluta e senza appello di ogni forma di violenza, prima fra tutte la guerra: non è con la forza che si risolvono le controversie, ma con la volontà e il coraggio di sopportare il male pur di vincere l'ingiustizia. La «non-violenza» si contrappone alle pratiche di giustizia che avevano regolato per secoli la storia, a partire dalla Legge del taglione ("occhio per occhio, dente per dente"): «Occhio per occhio... e il mondo diventa cieco.» In questo senso Gandhi riveste un ruolo fondamentale nell'evolversi del pensiero pacifista, per il totale rifiuto della violenza e della guerra come strumenti per la soluzione di conflitti: «Non c'è strada che porti alla pace che non sia la pace, l'intelligenza e la verità.»

Come pacifista Gandhi si oppose strenuamente a qualsiasi ipotesi di risoluzione bellica dei conflitti tra stati o interni ad essi: nonostante l'appoggio alla Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale Gandhi cercò sempre di mediare e predicare la fine delle ostilità tra le parti, pur sempre riconoscendo come il nazismo costituisse un pericolo per il mondo intero. A questo proposito Gandhi fu, fin dall'inizio della sua attività politica, un forte sostenitore del «disarmo», che considerava l'unico modo per evitare la catastrofe della guerra; a tal proposito suonano terribilmente profetiche le parole che pronunciò nel 1925 nel corso di una discussione sulle reazioni politiche alla Prima guerra mondiale: «L'ultima guerra è stata una guerra espansionistica, per entrambe le parti. È stata una guerra per spartirsi il bottino dello sfruttamento delle razze più deboli – chiamato eufemisticamente mercato mondiale... Prima che cominci in Europa un disarmo generale –  che prima o poi dovrà essere realizzato, se l'Europa non vuole andare incontro al suicidio – qualche nazione deve avere il coraggio di procedere autonomamente al proprio disarmo, accettando i gravi rischi che ciò comporta.»

Gandhi ha posto la «non-violenza» al centro della sua concezione del progresso umano: l'essere umano è sia animale sia spiritoCome animale l'essere umano basa il suo rapporto col mondo sulla trasformazione materiale dei corpi e dunque sull'uso della forza, sulla himsa (il male )come spirito l'essere umano fonda le sue relazioni col mondo sulla comunicazione verbale e sulla persuasione razionale, dunque sulla ahimsa (amore verso il prossimo ). Il progresso è l'umanizzazione dell'uomo, la graduale affermazione della sua identità specifica, del suo essere spirito. Il progresso è di conseguenza la graduale riduzione del tasso di violenza «himsa» presente nei rapporti umani e la graduale affermazione della Verità e della «ahimsa», cioè della «non-violenza», del bene, della giustizia, nella vita sociale e politica: «Bisogna combattere la violenza. Il bene che pare derivarne è solo apparente; il male che ne deriva rimane per sempre.» Da questi concetti deriva naturalmente come per seguire la via della ahimsa sia preferibile per l'uomo distaccarsi dai bisogni materiali, da cui derivano i concetti sopraesposti di castità, povertà e digiuno.

Secondo Gandhi
 la giustizia risiede nella riduzione del tasso di violenza presente nella società. Se si utilizza la violenza, anche se per un breve periodo, per ottenere giustizia questa porta inevitabilmente a un aumento del tasso di violenza. Il mezzo deve essere coerente con il fine; non si può adottare un mezzo che porta alla negazione del fine. Se il fine della lotta per la giustizia è la «ahimsa», cioè la negazione della violenza nei rapporti umani, non lo si può realizzare facendo ricorso alla violenza.

Secondo Gandhi
 l'unico mezzo con il quale l'uomo giusto può proporsi di affermare la Verità e dunque l’ «ahimsa» nei rapporti umani è la persuasione razionale di coloro che con i loro comportamenti violenti causano ingiustizia: «Bisogna convertire l'avversario ad aprire le sue orecchie alla voce della ragione». I mezzi della persuasione (conversione, non costrizione), per Gandhi, sono essenzialmente due: la discussione e la lotta non violenta. 
  1. La discussione consiste nel battersi contro un'ingiustizia sociale e politica appellandosi alle autorità ingiuste e all'opinione pubblica. 
  2. La lotta non-violenta (satyagraha) è la dimostrazione pratica della Verità; essa dimostra la superiorità morale del ribelle, il suo essere dalla parte della Verità. 
Ed è a questo punto che il pensiero filosofico e morale di Gandhi si unisce con quello politico: la «non-violenza» per Gandhi è un mezzo per trovare la Verità, che è il suo fine, e il satyagraha è l'arma con la quale l'uomo non-violento lotta. La differenza tra questi due metodi di affermazione della Verità sta nel fatto che, mentre la discussione fa appello esclusivamente alla ragione dell'avversario attraverso la dimostrazione teorica della sua ingiustizia, la lotta non-violenta fa appello anche al cuore dell'ingiusto, perché contiene una portentosa dimostrazione pratica della sua ingiustizia.

Gandhi identificò sempre Dio con la Verità, ma la sua idea di Dio non si limitava ad un concetto filosofico, trascendendo essa ogni definizione: «Per me Dio è Verità e Amore; Dio è etica e moralità; Dio è assenza di paura. Dio è la fonte della Luce e della Vita e tuttavia Egli è al di sopra e al di là di queste. Dio è coscienza. È lo stesso ateismo degli atei. Perché, nel Suo infinito amore, Dio permette all'ateo di esistere. Egli è il cercatore di cuori. È un Dio personale per quelli che hanno bisogno della Sua personale presenza. È un Dio in carne ed ossa per quelli che hanno bisogno della Sua carezza. È la più pura essenza. È tutte le cose per tutti gli uomini. È in noi e tuttavia al di sopra e al di là di noi». 

La fede in Dio aveva per lui un'importanza fondamentale: «Sono più sicuro della Sua esistenza che del fatto che voi e io stiamo seduti in questa stanza. E posso anche affermare che potrei vivere senz'aria e senz'acqua, ma non senza di Lui. Potete strapparmi gli occhi, eppure non mi ucciderete. Ma distruggete la mia fede in Dio, e io sono morto.» Gandhi considerava la preghiera un'azione più «reale» di ogni altra: «Quando non c'è più speranza, "quando cessano gli aiuti e manca la consolazione", scopro che l'aiuto mi arriva, non so da dove. Le suppliche, l'adorazione, la preghiera non sono superstizioni; sono azioni più reali che il mangiare, il bere, il sedersi o il camminare. Non è esagerazione affermare che solo esse sono vere e tutto il resto è illusione».

Il programma politico di Gandhi fu rivolto essenzialmente all'indipendenza nazionale dell'India con un'ispirazione democratica e socialista. La sua innovazione riguardò la teoria della rivoluzione, che nell'Europa moderna si era formata con il contributo di quasi tutte le correnti del pensiero politico: quella liberale (Locke, Jefferson e i padri della Rivoluzione americana, Sieyes e i teorici liberali della Rivoluzione francese), quella democratica (Rousseau, Robespierre, Saint-Just e altri teorici giacobini; Mazzini) e quella socialista, anarchica e comunista (Babeuf, Bakunin, Marx, Lenin, ecc.). Nel 1916 Gandhi disse in un discorso: «Io stesso sono un anarchico, ma di un tipo diverso.» Per quanto divergenti nei loro obiettivi politici, le teorie classiche della rivoluzione hanno in comune due componenti fondamentali:
  1. La teoria del "diritto alla resistenza" (Locke), secondo cui è legittimo – se non doveroso – che le masse popolari si ribellino alle autorità sociali e politiche, quando subiscono un'evidente e intollerabile situazione di ingiustizia. 
  2. La teoria della "guerra giusta", secondo cui il popolo ha diritto di ricorrere alla violenza rivoluzionaria, quando questa serve a correggere torti e ingiustizie molto gravi (questa teoria, con origini medievali, giustificava la violenza e le guerre).
Gandhi condivise il primo di questi due principi ma rifiutò il secondo. Anche per lui ribellarsi all'ingiustizia era un diritto ed un dovere dei popoli, ma era sua convinzione che l'unica forma di lotta rivoluzionaria giusta e legittima fosse la rivoluzione non-violenta, da lui battezzata, con un termine derivante dal sanscrito, "satyagraha". 

La parola satyagraha significa "forza della Verità" e deriva dai termini in sanscrito satya (Verità), la cui radice sat significa "Essere", e Agraha (fermezza, forza). Il compito del satyagrahi, cioè del rivoluzionario non-violento, è proprio quello di combattere la «himsa» – la violenza, il male, l'ingiustizia – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità. Egli dà prova di essere dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome della Verità: «La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata da una persona ai danni di un'altra. Soffrire l'offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell'essenza della «non-violenza» e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo». 


L'ingiusto infatti afferma i suoi interessi egoistici con la violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e, nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata sulla «non-violenza» «ahimsa» che la Verità è qualcosa che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte l'istintiva paura della sofferenza e della morte. Rifacendosi alle parole dei Vangeli si potrebbe dire che, di fronte all'ingiustizia perpetrata, il combattente non-violento "porge l'altra guancia", affermando in questo modo la bontà della sua causa, cosa che l'ingiusto non potrebbe mai fare. Come la guerra è l'azione suprema dell'uomo che segue la via della «himsa», della violenza, così il satyagraha è "l'equivalente morale della guerra".

Il combattente non-violento sfida l'ingiusto a mani nude, senza armi, e si espone alle sue rappresaglie opponendo solo la forza della Verità (da cui l'espressione "forza della verità"). È la capacità di soffrire senza offendere, senza imporre con la forza la propria volontà, senza infliggere sofferenza, senza distruggere o uccidere e senza nemmeno difendersi che rappresenta, secondo Gandhi, la più potente dimostrazione pratica della validità della causa del ribelle non-violento, il suo essere dalla parte della Verità. 

La disobbedienza civile è una forma di lotta politica, attuata da un singolo individuo o più spesso da un gruppo di persone, che comporta la consapevole violazione di una precisa norma di legge, considerata particolarmente ingiusta, violazione che però si svolge pubblicamente, in modo da rendere evidenti a tutti e immediatamente operative le sanzioni previste dalla legge stessa. 

L'obiettivo di chi attua questa strategia di lotta è quello di evidenziare, mediante la propria disobbedienza, l'ingiustizia, a suo avviso palese, della norma di legge e le conseguenze che essa comporta. In seguito a un atto di disobbedienza civile, come per ogni violazione di legge, segue il relativo accertamento in sede penale; nell'ambito del processo, gli esponenti di questo tipo di lotta possono perciò proseguire la propria azione politica, denunciando pubblicamente i motivi per cui ritengono errata la legge che contestano. In ogni caso la disobbedienza civile non può considerarsi una motivazione attenuante o esimente rispetto alla sanzione penale, che deve necessariamente seguire l'avvenuta violazione di legge, fino all'eventuale cambiamento della legge stessa; ma ciò solo se si considera la "ragion di stato" come istanza superiore a quella della coscienza dell'individuo. Se invece si parte dal presupposto che lo Stato è una costruzione umana, che non è infallibile, e che è diritto dovere dei cittadini di vigilare affinché esso non abusi del suo potere, allora, in questa prospettiva la disobbedienza civile appare salvifica e meritoria. 

Alcuni esempi sono:
  • non pagare le tasse;
  • praticare l'obiezione di coscienza al servizio militare;
  • violare le norme legislative o gli atti amministrativi che limitano illegittimamente la libertà fondamentali (stampa, manifestazione, sciopero, riunione, ecc. ). 


Per Gandhi la disobbedienza civile rappresentava, insieme al digiuno, la forma culminante di resistenza non-violenta; egli la definì «un diritto inviolabile di ogni cittadino», e affermò che «rinunciare a questo diritto significa cessare di essere uomini».


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