sabato 25 aprile 2015

IL DESTINO DELL’EUROPA: ABBANDONARE LA TRADIZIONE (Cap.2)


Se una volta si pensava che la «preghiera» potesse muovere le montagne, oggi è senz’altro l’agire tecnico guidato dalla «Scienza moderna» a ricoprire questo ruolo. Sono proprio la «Tecnica» e la «Scienza» a rappresentare la forma più radicale dell’agire dei nostri tempi. Ecco emergere così la simbiosi che viene a costituirsi tra il sottosuolo, che distrugge la «Tradizione» (quindi anche la tradizione cristiana) e che dice all’agire «tu non hai limiti», e la «Tecnica», che da questo discorso viene autorizzata a procedere senza limiti verso la realizzazione del suo scopo. 
Queste forze, Capitalismo, Comunismo, Democrazia, Islam compreso, considerano ancora, erroneamente, la «Tecnica» come lo strumento per realizzare un mondo democratico, capitalistico, comunista ecc., tralasciando il fatto che anche la «Tecnica» ha uno scopo. Di per sé la «Tecnica» ha come scopo l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. In questo consiste ormai l’apparato che raccoglie tutte quelle forme di potenza che vanno sempre più omologandosi al tipo di potenza propria del sapere scientifico-tecnologico. 
Tale apparato è un sistema di sottosistemi (l’apparato militare, economico, giudiziario, finanziario, sanitario, scolastico, giuridico…), ognuno dei quali è animato da una logica che va progressivamente assimilandosi a quella delle scienze dure di tipo fisico-matematico. Qui per apparato scientifico-tecnologico si intende il sistema di tutti i sottosistemi che costituiscono ciò che oggi chiamiamo la «Tecnica» (vedi i post Genn- e febbr.2014 in merito alla Tecnica). E dalla «Tecnica» scaturisce la tanto agognata supremazia: le forze che si illudono di servirsi della «Tecnica» per i propri scopi sono in perenne conflitto fra loro e perciò devono potenziare lo strumento di cui si servono per combattere le avversarie. 
A livello macroscopico, questo si è visto nella contrapposizione tra Stati Uniti/Unione Sovietica e si sta riproponendo oggi nella filiera di quelle nazioni atomicamente fornite – la prima filiera vede da un parte Stati Uniti, Francia, Inghilterra; l’altra ha come leader la Russia, in qualche modo l’Iran, verosimilmente la Corea del Nord. Ebbene queste due filiere contrapposte hanno in sostanza ereditato la potenza distruttiva dei duumviri. La conflittualità delle forze oggi in campo è tale per cui ognuna si serve della «Tecnica» nel conflitto con tutte le altre. Ma poiché il conflitto è gestito promuovendo e incrementando il potenziale tecnico, si produce il seguente fenomeno di rovesciamento: ognuna di queste forze, che inizialmente ha come scopo quello che la costituisce per definizione (es. il «capitale», ossia il profitto privato, per il Capitalismo), si vede costretta a potenziare il proprio strumento tecnico e con ciò finisce inevitabilmente con l’assumerlo come scopo. 
In questo modo il potenziamento dello strumento tecnico da mezzo diventa scopo. E qui va fatto il rilievo decisivo: poiché ogni azione è definita dal proprio scopo, se tale scopo cambia, cambia necessariamente anche l’azione «Lo scopo di una certa azione definisce infatti l'essenza stessa di tale azione» (Aristotele). L’azione cioè non è più la stessa. (vedi post Ago.2013 Capitalismo e Chiesa) Se, ad esempio, la Chiesa approva il Capitalismo perché lo considera un sistema di produzione più efficace dell’economia pianificata di tipo sovietico, in realtà chiede al capitalismo niente di meno che di rinunciare al proprio scopo, imponendogli come scopo non il «profitto privato», ma il «bene comune». Si tratta dello stesso tipo di violenza operata ai danni del capitalismo dal sistema comunista che voleva distruggerlo: si distrugge un agire quando si impedisce la realizzazione del suo scopo. 
Quando la «Tecnica» da mezzo (nelle mani delle forze citate) diventa lo scopo del loro agire, si ha la fine di Democrazia, Capitalismo, Islam, Cristianesimo, ecc. La dominazione della «Tecnica» sul pianeta non è altro che la dominazione di un insieme di forze che da scopi sono diventati i mezzi dell’agire tecnologico
La storia d’Europa coincide con la storia del nichilismo, e quando si parla della destinazione della «Tecnica» al dominio si allude al farsi massimamente coerente da parte dell’errore. In altre parole, quanto si è detto fin qui altro non è se non una descrizione di come nasce l’errore, che consiste nel pensare che le cose provengano dal «niente» e vadano nel «niente»
Si tratta dell’alienazione estrema perché si finisce per pensare che tutte le cose siano «niente», dal nostro corpo allo spazio che occupa, all’Italia, all’Europa, al mondo, alle galassie, ai nostri sentimenti. Quando parliamo di dominazione della «Tecnica» parliamo appunto del modo più rigoroso in cui l’errore si può realizzare. All’inizio è un errore incoerente perché, se da un lato affermando il loro oscillare tra l’«essere» e il «niente» si afferma la nullità delle cose, dall’altro si tenta di escogitare un rimedio contro l’«angoscia» provocata proprio dal loro divenire, dalla contingenza. Quando poi si è parlato del «sottosuolo», si è indicata la necessità che l’errore divenga coerente a sé stesso, cioè alla propria «fede nel Divenire» delle cose, eliminando quel Dio che rende appunto impossibile il «Divenire», ovvero la nullità del futuro. 
Quanto detto finora potrebbe sembrare un’apologia della «Tecnica», ma in realtà è un’apologia dell’errore. E non di un errore qualsiasi, bensì dell’errore inteso in senso ancor più radicale di quanto lo si intenderebbe se con errore si indicasse il peccato originale di Adamo. È un’apologia della coerenza dell’errore: il vero «monstrum» del nostro tempo diviene coerente con le sue premesse quando la «Tecnica» prende il sopravvento. Ma la «Tecnica» non ha l’ultima parola, come si vedrà. In tutto questo resta da definire il ruolo dell’uomo e il suo rapporto con la «Tecnica». Per comprendere questo punto è necessario togliersi di torno quell’atteggiamento che, per esempio, è presente in quella che Heidegger (che vuol salvare l’uomo) chiama Gelassenheit, abbandono alle cose in un atteggiamento di pensiero meditante e non calcolante. Qui, invece, si sta dicendo che, quando l’uomo si pone come obiettivo la propria salvezza, non si salva. 
Tornando all’esempio umano-teologico: l’uomo chiede a Dio di salvarlo, quindi la salvezza dell’uomo è lo scopo e Dio è il mezzo. Poi però si accorge che se il mezzo è qualcosa di cui può disporre, qualcosa che tiene in mano, Dio stesso – così declassato a mezzo per salvare l’uomo – diventa incapace, debole. Si costituisce perciò un processo tale per cui, da una situazione in cui l’uomo dice a Dio «salvami» e cioè «fai la mia volontà», si arriva ad un’altra, che rappresenta la maturità dell’errore, in cui l’uomo, conscio del fatto che Dio non lo può aiutare proprio in quanto mezzo nelle sue mani (e pertanto inficiato dalla debolezza costitutiva dell’essere umano), dice a Dio «sia fatta la tua volontà», trasformando la volontà di Dio in scopo. 
La stessa cosa avviene con la «Tecnica»: prima l’uomo le chiede di salvarlo (attribuendole quel ruolo salvifico che un tempo attribuiva alla preghiera), ma nel momento in cui la «Tecnica» diviene un mezzo per la salvezza dell’uomo, tale salvezza è automaticamente inficiata dalla debolezza propria dell’umano. E anche in questo caso, come in quello umano-teologico, accade che l’uomo infine dica alla «Tecnica» «sia fatta la tua volontà». Così l’uomo ottiene la salvezza rinunciando ad essere lui stesso lo scopo del processo salvifico e assumendo invece come scopo quell’incremento infinito della potenza della «Tecnica» che consente, di riflesso, di migliorare sempre di più la condizione umana. 
Un esempio più banale può chiarire questo punto: la critica del Capitalismo nei confronti del Comunismo consiste nell’obiettare che il Comunismo, proponendosi come scopo la società giusta, finisce con il non saper dare ai lavoratori, agli operai, quello che invece il Capitalismo riesce a garantire, assumendo come scopo non il benessere di questi strati sociali ma il profitto privato. Questo a conferma del fatto che l’uomo si salva rinunciando a porsi come scopo. Certamente senza elemento umano non si dà apparato tecnologico; però l’elemento umano è un analogon di quelle forze come la Democrazia, la Religione ecc., destinate a diventare esse stesse mezzi nelle mani della «Tecnica». Ragion per cui, mentre oggi il capitale si serve della «Tecnica» per crescere sempre di più, domani sarà la «Tecnica» a servirsi del capitale per incrementare in modo indefinito la propria potenza. 
Il paradiso della «Tecnica», ovvero la coerenza estrema dell’errore, non è comunque l’ultima parola, perché verrà il tempo in cui i popoli parleranno proprio questo linguaggio, il linguaggio dell’errare estremo, per il quale le cose vengono nel «nulla» e tornano nel «nulla». Questa altro non è se non la forma originaria dell’omicidio, il cui scopo è annientare, eliminare completamente l’avversario, il nemico, in modo che non possa più turbare o ostacolare i progetti dell’agente. L’eliminazione originaria consiste proprio nel pensare le cose come di per sé stesse attraversate, inficiate, inquinate dal «nulla». Questo pensiero (che può turbare la coscienza religiosa) è anche il pensiero del divino, perché il divino realizza la forma di omicidio originario: se il Dio pensa l’uomo come qualcosa che di per sé è «nulla» (Tommaso diceva delle creature che sono "propre nihil"), crea le premesse per cui poi sulla terra gli uomini continuino ad uccidersi. 
Da questo nichilismo si esce solo pensando a qualche cosa di infinitamente più alto di Dio e cioè pensando che ogni cosa, anche la più umile, è ed è impossibile che non sia, cioè è «Eterna». E questo è quello che nei scritti di E. Severino (vedi post Marzo 2013 Il Filosofo della verità) è chiamato «Contenuto del de-stino della necessità».

giovedì 23 aprile 2015

IL DESTINO DELL’EUROPA: ABBANDONARE LA TRADIZIONE (Cap.1)


La Filosofia greca scorge nella vita stessa il pericolo estremo: l'annientamento delle cose che peraltro provengono dal «Nulla». Sperimenta l'angoscia estrema. Con la Filosofia l'uomo vuole quindi veramente salvarsi, avere cioè quella vera «Potenza» che manca al mito e che vive solo in quanto unita alla «Ragione». La «Ragione» svela l' «Ordinamento Immutabile e Divino», adeguandosi al quale l'uomo e lo Stato sono veramente potenti. Già in Eschilo questo discorso è esplicito. E si estende man mano, producendo la «Tradizione europea» che culmina nel pensiero di Hegel. Cultura, Cristianesimo, Impero romano, Chiesa, Sviluppo economico e giuridico, Rinascimento, Stato Nazionale moderno, Riforma, Scienza moderna, Illuminismo, Democrazia, Capitalismo, Comunismo, rispecchiano in sé, in modi diversi e spesso opposti, quel discorso originario. Ma dopo Hegel l'unità di «Potenza» e «Ragione» tramonta: in quanto conoscenza della «Verità incontrovertibile», la «Ragione» è respinta e l' «Europa» concepisce e realizza se stessa come pura «Potenza». 
Se l'Europa è dapprima unità di «Potenza» e «Ragione», e poi rimane pura «Potenza», l'Europa è allora una frattura, non un' «identità». Due, non un'unico spazio in cui crescano le differenze e le opposizioni. E invece non è così: lo spazio è unico. La «Potenza» si unisce alla «Ragione» per salvare l'uomo dal «Nulla» da cui le cose sporgono provvisoriamente. È questo modo di intendere l' «Essere cosa» delle cose e innanzitutto dell'uomo, a costituire lo spazio-unico in cui crescono sia la «Tradizione europea», sia la sua distruzione. 
Prima, a proteggere le cose minacciate dal «Nulla» c' è Dio (o quella sua versione laica che è lo Stato moderno di diritto); poi si crede che a proteggere uomo e cose non vi sia altro che l'agire dell'uomo. Ma resta identico il modo in cui l' «Esser cosa» è concepito e vissuto. Ed esso finisce per esser presente e attivo non solo nei filosofi, nei giuristi, negli uomini di Stato, negli storici, eccetera, ma nell'uomo comune, nel taglialegna, nel pescatore, nell'artigiano, nel padrone e nel servo, nel capitalista e nell'operaio. 
Oggi qualsiasi persona condivide, a grandi linee, la concezione del presente come qualcosa che ieri «non era», come qualcosa che ieri «era niente». Nel momento in cui si riflette sul significato radicale del «niente» portato alla luce dal pensiero filosofico, si capisce come non possa esserci unificazione tra ciò che esiste adesso e ciò che ieri era «nulla», come non possa esistere un legame che unisca l’«essere nulla» delle cose ieri e il loro esistere in questo momento. Loscillazione delle cose tra il «nulla» e l’«essere» è un concetto essenzialmente separante, e proprio questa separazione sta alla matrice del costituirsi di ciò che chiamiamo «Europa» e del modo in cui oggi è considerata (Vedi post Febbr.2014 Tecnica e Senso Greco della Cosa). 
In realtà non esiste una risposta unica alla domanda «che cos’è oggi l’Europa?», ma ne esistono molte: una risposta religiosa, una politica, una economica, una geologica, una geografica, una psicologica, una etnologica, una antropologica, insomma una per ogni ambito del sapere umano. E sono tutte giustapposte, rigorosamente separate. Una separazione è di tipo concettuale, e deriva dalla visione della realtà come oscillante tra l’«essere» e il «niente»; un’altra separazione è invece dovuta alla specializzazione scientifica, per la quale l’Europa, come ogni cosa, non si presenta come qualcosa di unitario: ci sono molte Europe. 
L’elemento aggregante in tutti questi casi è il concetto, portato alla luce dal pensiero greco, «dell’uscire dal nulla per tornare nel nulla». Alle spalle delle forze che, nel nostro tempo, determinano le scissioni che rendono difficoltosa l’unificazione europea, agisce quel concetto originario di isolamento/separazione che era sconosciuto alle culture pre-greche, pre-occidentali. Si tratta di un duplice concetto di separazione/unificazione, che sta alla radice delle difficoltà che l’Europa incontra nel processo di unificazione e che ai tempi della Guerra fredda aveva a che fare con gli interessi delle due Superpotenze (vedi post Dic.2013 USA-URSS). Questa difficoltà si può spiegare così: se le parti del mondo sono isolate le une dalle altre e il matrimonio tra due di esse avviene tra coniugi che rimangono ognuno presso di sé, separato dall’altro, allora ogni unificazione è un fenomeno provvisorio e accidentale, quindi fallimentare. 
L’Europa è altresì destinata ad abbandonare le proprie radici cristiane, in quanto destinata ad abbandonare la «Tradizione». Per capire questo punto è necessario chiarire in cosa consista la «Tradizione» e in che senso il Cristianesimo le appartenga essenzialmente. Per spiegarlo, bisogna ripartire dal concetto di «niente» evocato dai Greci. Evocando il «niente», cioè la variazione del mondo come un uscire e un ritornare nel «niente», i Greci evocano l’«angoscia estrema». Sarebbe un errore attribuire all’esistenzialismo, a Kierkegaard o Heidegger, il concetto di «angoscia» per il «nulla»: sono i Greci ad evocare per primi il mostro, la nullità delle cose, per poi, come l’apprendista stregone, restare terrorizzati di fronte a ciò che essi stessi hanno evocato: la variazione del mondo come intrisa di «nulla» è uno spettacolo che scatena l’«angoscia». 
La parola aristotelica «thauma» non va tradotta come «meraviglia» e «stupore», ma come «angoscia», «meraviglia angosciata», «terrore». Un terrore che deriva dalla nuova consapevolezza che la variazione delle cose è il loro morire e che l’istante appena trascorso è ormai «nulla». L’uomo comincia a pensare la morte come annientamento, come un andare nel «nulla», non più come a un viaggio da cui si può ritornare. Si tratta di una concezione essenzialmente diversa da quella precedente. 
La tradizione che inizia con i Greci e arriva fino a Hegel, di fronte al pericolo estremo costituito dall’annientamento della vita, evoca un rimedio che nella sua configurazione più visibile e più nota viene chiamato «Dio», il «Sacro», l’«Eterno», l’«Immutabile», che protegge e contiene il divenire delle cose. Ma «Dio» per i Greci, che non erano teologi, altro non era che il luogo in cui tutti i tratti di loro interesse venivano conservati: in fondo che cos’è «Dio» se non il custode di tutto ciò che all’uomo interessa, colui che impedisce che un annientamento totale e irreversibile lo strappi a tutto ciò che ama e desidera? Questo è il quadro della tradizione: un senso eterno, divino del mondo che agisce da «rimedio», termine quest’ultimo usato da Eraclito ed Eschilo («saldi rimedi») di contro al pericolo estremo della morte. Questo processo, pur attraverso fasi varianti, ha questo tratto permanente, ossia la ricerca di un rimedio immutabile, di un senso immutabile del mondo, che in qualche modo anticipi il futuro eliminando l’«angoscia» legata all’imprevedibilità del futuro. Il terrore del «niente» che ci attende viene così lenito dall’esistenza di quel luogo divino che, contenendo tutto ciò che all’uomo interessa, anticipa il futuro. 
A mostrare la fallibilità di questo rimedio all’«angoscia» legata alla scoperta del «nulla», e di conseguenza a mostrare la necessità per l’Europa di abbandonare la tradizione e quindi il Cristianesimo, ci pensa il sottosuolo essenziale della filosofia contemporanea. Questo sottosuolo, creatosi negli ultimi duecento anni, ha pochi protagonisti ma molto significativi. Il primo, più noto, è Nietzsche (Vedi post Maggio 2014 La Dottrina della morte di Dio); un altro, poco conosciuto fuori dall’Italia, è Giovanni Gentile. A mostrare insieme a loro l’impossibilità del divino e di tutto ciò che al divino è connesso, vi è anche Giacomo Leopardi, nostro maggiore filosofo e massimo poeta (Vedi i post Febbr./Mar. 2015). 
Il grande nemico del Cristianesimo, che senza dubbio rappresenta la connessione più vistosa della nostra cultura, non è quel «relativismo» che è riconducibile, da ultimo, allo scetticismo ingenuo che si autoelimina, ma è proprio quel sottosuolo in grado di distruggere la tradizione filosofico-culturale-operativa dell’Occidente (se si crede in un Dio, si agisce conformemente). Ora, se esiste questo sottosuolo che riesce a mostrare l’impossibilità dell’«Eterno», e poiché esiste, allora anche il Cristianesimo risulta impossibile. Quindi il punto non sta nel fatto che l’Europa dovrebbe abbandonare la tradizione, ma nel fatto che è inevitabile che ciò accada, proprio perché tale sottosuolo mostra l’impossibilità della base concettuale su cui si fonda il Cristianesimo. 
È pensabile il Cristianesimo senza il concetto di creazione? No. La definizione del concetto di creazione è illuminante: la creazione è dal «nulla», creatio ex nihilo, ovvero il mondo prima di essere creato era «nulla» e tornerà ad essere «nulla» dopo essere stato creato. Dio, secondo la teologia cristiana, è colui che (concetto molto chiaro nell’Apocalisse) distruggerà la vecchia terra e il vecchio cielo in vista dell’avvento della terra nuova, nella quale il lupo amerà l’agnello, e del cielo nuovo, dove gli astri saranno a loro volta sintesi erotica amorosa. 
Il motivo per cui il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo è in grado di eliminare la tradizione, quindi la tradizione cristiana, è che se l’«Eterno» esiste non può esistere il «Divenire», poiché l’uscire e il ritornare nel «nulla» è una situazione in cui il futuro è «nulla». Il futuro è «il non ancora» («noch nicht»), come diceva Bloch, e prima di lui Aristotele, Platone, Einstein, la scienza e la religione stessa. Se l’«Eterno» esiste, esso è una legge che si impone non soltanto sulle cose presenti ma anche su quelle passate e future. In altre parole le cose future non vengono trattate dal Dio come un «nulla», un «ancora nulla», ma come sottoposte alla sua legislazione, come ascoltatrici della legge del Dio, e quindi non come un «nulla» ma come un che di positivo. In altre parole, vengono «Entificate»
Allora il motivo di fondo di questa inevitabile distruzione del passato – che si può trovare in Nietzsche, in Leopardi, in Gentile, ma anche in Peirce, in qualche modo in Bresson e in pochi altri (non in Heidegger e in Wittgenstein) – è appunto che è il rimedio stesso (Dio) all’«angoscia» del «Divenire» a rendere impossibile quel «Divenire» che per primi riconoscono proprio coloro che, angosciati, evocano l’esistenza di un Dio (vedi post Mar. e Magg.2014 Il Divenire Evidenza suprema e la Fede nel Divenire). 
Che cosa accade, dunque, quando il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità di ogni Dio e di ogni «Eterno»? Accade che, di conseguenza, trovi dimostrazione anche l’impossibilità di una verità assoluta, definitiva (vedi post Mar.2014 Il Tramonto della verità assoluta). Si provi a riflettere sulla funzione del Dio rispetto all’agire umano: l’uomo agisce con l’intento di dominare sempre di più il mondo, ma l’esistenza del Dio costituisce un limite (si pensi al Dio cristiano) a questo suo agire: «agisci pure – dice Dio all’uomo – ma fino a un certo punto, oltre il quale devi arrestarti altrimenti violi la mia legge». 
Il divino è il limite all’agire dell’uomo, ma il sottosuolo filosofico del nostro tempo è la distruzione del divino e perciò di ogni limite assoluto. In un frangente in cui l’agire dell’uomo non ha più davanti a sé nessun limite, è come se il pensiero filosofico dicesse all’uomo «vai e corri per questa tua pianura senza remore, perché non hai più davanti a te alcun limite assoluto che ti impedisca di procedere oltre». Si pensi alle questioni della bioetica, dell’ingegneria genetica, della procreazione assistita, del fine vita, dell’eutanasia: sono tutti problemi che nascono dal fatto che c’è un limite oltre il quale, secondo la «Tradizione» e la tradizione cristiana, non si può andare. 
Ma se il sottosuolo, invece, dice che non c’è limite, allora l’uomo può agire senza remore. E questo agire in cosa si concretizza maggiormente? Ovvero qual è la «forza» che oggi costituisce la forma più potente dell’agire dell’uomo, quella che gli consente di trasformare più radicalmente il mondo?  


sabato 18 aprile 2015

M. LUTHER KING: «IL SOGNO DELLA NON VIOLENZA»


M. L. King Vedeva l'egoismo come un qualcosa di distruttivo per l'essere umano, affermava che chiunque potesse essere grande anche senza istruzione o competenze bastava un animo gentile; vedeva nel continuo progresso l'assenza dell'animo umano che diventava piccolo di fronte alle sue opere gigantesche, la ricchezza la si poteva ottenere soltanto se la povertà cessasse di esistere. Affermava che chi non fosse pronto a morire per un qualcosa in cui crede non possa essere «pronto a vivere» e che le qualità di un uomo si mostrano solo quando deve affrontare una situazione difficile, solo il coraggio poteva vincere la paura.

Il pensiero di M. L.King si espresse criticamente, sia verso il Capitalismo selvaggio sia verso il Socialismo reale, realizzato in URSS ed in altri paesi. King sostiene nei suoi sermoni, in particolare un sermone dedicato alla giustizia e riportato integralmente nel libro “La forza di amare (casa editrice SEI), la necessità di riconoscere «il bene e il male» in entrambi i sistemi economici che si fronteggiavano durante la guerra fredda. 

Partendo dalla convinzione che Dio desidera liberare dal peccato la stessa struttura sociale ed economica, descrisse come il Capitalismo è fonte di libertà e ricchezza per l'uomo ma al tempo stesso fonte d'impoverimento spirituale perché produce «materialismo e consumismo» sfrenato, così come il Comunismo sovietico è nato da giuste esigenze di eguaglianza ma distrugge la libertà individuale e annienta l'uomo con i suoi mezzi crudeli e aberranti. 

M. L. King credeva nel sogno della fratellanza umana tra i popoli della Terra, nella cosiddetta "beloved community" (comunità d'amore) che era ai suoi occhi la "sintesi creativa" della tesi (Capitalismo) e dell'antitesi (Comunismo), motivata da una profonda fede in Gesù CristoKing ribadì sempre la sua scelta di rifiuto totale di ogni forma di strumento violento. «L’amore è l’unica forza capace di trasformare un nemico in un amico»

Martin Luther King aveva trentanove anni quando un cecchino gli sparò mentre parlava dal balcone di un motel a Memphis. Aveva iniziato il suo percorso sperando di diventare un predicatore battista, ma quando morì, nel 1968, aveva condotto milioni di persone ad abbattere il sistema della segregazione razziale del “Sud”, lasciandoci in eredità la speranza che «l’amore, la verità e il coraggio di fare ciò che è giusto», potessero essere il faro del nostro cammino. 

Con queste parole Coretta Scott King, introduce il libro che racchiude i discorsi dell’uomo simbolo della lotta Afro-Americana per i diritti civili. Una raccolta, “Il Sogno della non violenza (edito Feltrinelli, 2013), in cui si racchiudono alcuni dei discorsi più incisivi del leader del movimento che ha scosso le fondamenta dell’America razzista. Dagli appelli alla comunità degli uomini, al più celebre “I Have a Dream”, tenuto al Lincoln Memorial nel 1963. 

I discorsi di King riassumono la dedizione di una vita consacrata alla rivoluzione. Una rivoluzione certamente difficile, che ha fatto pressione sulla necessità di un’educazione adeguata, attraverso la quale la popolazione nera potesse trovare le parole adatte per rivendicare una dignità calpestata, in un’America in cui le radici della segregazione razziale sono state, negli anni, nutrite dall’ignoranza del Sud, estendendosi in forma meno palese, ma altrettanto agghiacciante, fino al Nord America. Fu dopo il discorso tenuto nell’agosto del 1963 al Lincoln Memorial che King incontrò John F. Kennedy alla Casa Bianca, perché il dialogo, continuo e incessante, doveva essere il mezzo principale attraverso cui ottenere ascolto. La violenza non paga, la violenza perpetua la disuguaglianza e rende inutile la lotta. 

Sono queste le basi del pensiero di Martin Luther King che, dopo aver studiato il pensiero di Gandhi, viene folgorato da un’illuminazione. Finalmente ha davanti la risposta alla domanda di riforma sociale che stava cercando. Il leader nero si preoccupa di conciliare il pacifismo cristiano con le rudezze dell'azione. Rimane affascinato dai discorsi di Gandhi e dal suo metodo di protesta attuato in India, maturando l'idea di applicare la teoria gandhiana della «non-violenza» alla rivoluzione nera. Incita così a non rispondere alle offensive dei bianchi o della polizia, protestando entro i limiti della legalità. Apre trattative con le autorità, tiene discorsi e comizi, viaggia in tutto il Sud degli States per diffondere le sue idee. In particolare, King adotta nel suo movimento il metodo delle «marce di protesta», che hanno grande impatto sulla popolazione, sia nera che bianca. I neri utilizzano anche il «sit-in», cioé l'occupazione di uno spazio stando seduti, opponendo solo una resistenza passiva alle forze di polizia, rifiutandosi di sgomberare e lasciandosi portare via di peso. 

Durante gli anni della lotta, King viene più volte arrestato e molte manifestazioni da lui organizzate finiscono con violenze e arresti di massa; egli continua a predicare la «non-violenza» pur subendo minacce e attentati.
«Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora. Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nell'ora di mezzanotte, batteteci e lasciateci mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello alla vostra coscienza e al vostro cuore che alla fine conquisteremo anche voi, e la nostra vittoria sarà piena.»
 

Una riforma necessaria, perché fino a quel momento l’America ha tradito il suo sogno. La promessa della ricerca della felicità si è distorta, ritorcendosi contro parte di quella stessa popolazione che aveva aiutato la minoranza bianca a costruire una terra di promessa e speranza. Sposando la politica del “manifest destiny”, l’uomo bianco si è costruito un mostro su cui rigettare le proprie paure, il suo opposto, l’altro come incarnazione della parte oscura della propria anima. Lo ha costretto alla povertà, umiliato, privato dei suoi diritti, e segregato in un angolo lontano dallo sguardo. Una ronda di uomini nascosti da un lenzuolo bianco, come fantasmi invasati da una deviata volontà divina, il Klu Klux Klan, li ha torturati, appendendoli agli alberi, castrandoli, violentando le donne, dando fuoco alle loro case spesso ancora abitate. 

Ma Martin Luther King  aveva ben presente quale fosse il rischio di una reazione violenta a questa provocazione. Non solo reagendo con la stessa moneta la popolazione nera avrebbe perso il senso di umanità, ma più di tutto, King coglie un elemento fondamentale, che spesso ricorre tra le parole dei suoi discorsi: gli uomini, a qualunque razza appartengano, sono legati tra loro indissolubilmente, se uno resta indietro, è una colpa che trascina dietro tutti. «La comprensione tra le razze, così come la vita, non è qualcosa che troviamo già pronto, bensì qualcosa che dobbiamo forgiare». Ripetendo queste parole Martin Luther King va incontro al suo destino. Una raccolta intensa, per certi versi profondamente attuale, che ricorda la misura della forza delle parole. Rivoluzionarie quanto una battaglia.



mercoledì 15 aprile 2015

HITLER E IL SUO LIBRO «MEIN KAMPF»


Gli Ebrei hanno qualità positive di coesione e di solidarietà che mancano ai Tedeschi. Affetti da «eccessivo individualismo», i Tedeschi sono «Ariani degenerati». Si trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo pericolo. Giudizi questi, espressi da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf («La mia battaglia»). 
Mein Kampf è stato studiato come un'opera di filosofia politica. Per esempio, Hitler rivela il suo «odio» per ciò che riteneva fossero i due mali gemelli del mondo: «comunismo ed ebraismo». Il nuovo territorio di cui la Germania aveva bisogno avrebbe realizzato nella giusta maniera il «destino storico» del popolo tedesco; tale obiettivo, a cui Hitler si riferiva parlando del Lebensraum (spazio vitale), spiega perché Hitler, con modi aggressivi, volle estendere la Germania ad est e, in particolar modo, invadere la Cecoslovacchia e la Polonia, prima ancora di lanciare il suo attacco contro la Russia. Nel libro Hitler sostiene apertamente che in futuro la Germania «dovrà dipendere dalla conquista dei territori ad est a spese della Russia». 
Nel corso dell'opera, Hitler evidenzia le sofferenze politiche del cancelliere tedesco nel parlamento della Repubblica di Weimar e inveisce contro gli ebrei e i socialdemocratici, così come i marxisti. Annuncia di voler distruggere completamente il sistema parlamentare ritenendolo per lo più corrotto, sulla base del principio secondo cui i detentori del potere sono opportunisti per natura. Altri punti salienti del libro sono:
  • la creazione di un socialismo nazionale;
  • la lotta al bolscevismo;
  • l'antisemitismocon questa parola si indicano i pregiudizi e gli atteggiamenti persecutori nei confronti degli ebrei «paura, odio irrazionale per i giudei»;
  • la caratterizzazione della razza ariana pura e superiore;
  • l'alleanza con il Regno Unito al fine d'evitare un'eventuale guerra su due fronti.

Hitler si rappresenta come «Übermensch», con riferimento all'opera «Così parlò Zarathustra» di Friedrich Nietzsche (Vedi post Maggio 2014 La Dottrina della Morte di Dio), intendendo con «Superuomo» un uomo capace di essere superiore a se stesso e ai propri impulsi e che, quindi, in questa accezione, andrebbe tradotto con un più esplicativo «Oltreuomo». Tuttavia lo stesso Nietzsche era stato uno dei più grandi critici tedeschi contro l'antisemitismo sviluppatosi nel XIX secolo. 

Nel Mein Kampf è presente una diffusa enfasi sul Cristianesimo quale base ideologica della dottrina di Hitler che paragona l'ascesa del Nazismo a quella del Cristianesimo originale ed equipara se stesso a Gesù nella sua opposizione alle istituzioni ebraiche. Mein kampf fu profondamente influenzato dalle teorie sull'evoluzione di Ernst Haeckel

In Mein Kampf, Hitler, basandosi su documenti falsi noti come i protocolli dei Savi di Sion, formula principalmente la tesi del «pericolo ebraico», secondo la quale esiste una cospirazione ebraica con l'obiettivo di ottenere la supremazia nel mondo. Il testo descrive il processo con cui egli diventa gradualmente antisemita e militarista, soprattutto durante i suoi anni vissuti a Vienna; tuttavia le ragioni più profonde del suo antisemitismo rimangono ancora un mistero. Racconta di non aver incontrato alcun ebreo fino al suo arrivo a Vienna e che la sua mentalità era inizialmente liberale e tollerante. Quando s'imbattè per la prima volta nella stampa antisemita, dice lui, la respinse non reputandola meritevole di seria considerazione. Successivamente gli stessi punti di vista antisemiti vennero accettati e divennero cruciali nel suo programma di ricostruzione nazionale della Germania. 

il Mein kampf già esprime quelle idee che accresceranno il risentimento storico di Hitler e le ambizioni per la creazione di un Nuovo Ordine. Le leggi razziali promulgate da Hitler rispecchiano fedelmente le idee espresse nel Mein Kampf. Nella prima edizione Hitler ha affermato che la distruzione del debole e del malato è molto più umana della loro protezione. A parte ciò, Hitler vede uno scopo nel distruggere «il debole» perché tale azione fornisce, più di ogni altra cosa, lo spazio e la purezza necessaria al forte. 

Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e il 1925; il libro più diffuso in Germania sino alla fine della seconda guerra mondiale. Per Hitler i tedeschi di quel tempo erano un «Armento». Che non solo si era allontanato dalla creatività, volontà di dominio e genialità del vero ariano (un giudizio, questo, ripetuto da Hitler poco prima di uccidersi), ma che aveva anche il torto di essere «Oggettivo», insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al di sopra dell' «Oggettività») e dunque inferiore allo spirito «Dialettico» degli Ebrei. 

In primo piano sta l' analisi delle «Corrispondenze» tra le espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui giudizi riportati all'inizio non risultano irresponsabili, ma appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno dei Paesi più civili del mondo. 

E’ già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia «Come ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella Ebraica», considerata come il prototipo della razza «Aliena» che ha di mira, alleandosi con i «Bolscevichi», la distruzione della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai suoi occhi alcune qualità positive, che costituiscono per i tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai tedeschi il pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi per colpa degli ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito Nazionalsocialista che sarebbe stata l'unica forza capace di salvarli e farli diventare quel che essi sono dalla loro essenza ariana. Il suo partito è unito, ha Fede e, pur lottando contro il marxismo, capisce i problemi della classe operaia. Così «Hitler suscitava antisemitismo non solo tramite la spiegazione dei fallimenti» dei tedeschi, «Ma anche presentando gli ebrei superiori ai tedeschi in una importante dimensione di confronto: coesione, solidarietà, omogeneità»: «Una dimensione in cui non si vuole essere inferiori». 

Dunque, in conclusione, Hitler, capace di raffinate intuizioni sull'uomo sociale, per diffondere il suo programma ha operato sulle motivazioni e i processi previsti dalle teorie psicosociali. Il testo «è basato su tre idee»: «Darwinismo sociale» (lotta eterna tra forti e deboli, «Selezione naturale», «Spazio vitale», ecc. ecc.), «Principio etnocentrico» (al centro dell' esistenza c' è una certa razza, un certo popolo) e «Principio della personalità» (l' individuo superiore guida «la massa stupida e incapace»). 

Questi tre princìpi appartengono (in modo filosoficamente ingenuo) a una grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due ultimi secoli della storia dell' Occidente. Quelli della «Morte di Dio» che è la figlia legittima, inevitabile, della «Vita di Dio» e «Invincibile» sino a che non ci si sappia rivolgere al «Senso» essenziale e non si sappia mettere in questione la «Creatività» e la «Volontà di Potenza» dell' uomo, ariano o non ariano che sia.


giovedì 9 aprile 2015

GANDHI E IL SUO PENSIERO



Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma è stato un politico e filosofo indiano. Importante guida spirituale per il suo paese, lo si conosce soprattutto col nome di Mahatma (in sanscrito – una lingua ufficiale dell’ India – «grande anima»), appellativo che gli fu conferito per la prima volta dal poeta Rabindranath Tagore. Un altro suo soprannome è Bapu, che in hindi significa «padre». 


Il messaggio che il Mahatma ci lascia è molto attuale e la storia contemporanea, purtroppo, continua ad essere macchiata dalla guerra e dalla violenza. Gandhi riesce, con le sue sole forze, a sconfiggere il potente Impero britannico e a realizzare il suo grande sogno dell’indipendenza per il suo paese. Come? Con la forza sbalorditiva della «non-violenza», del «boicottaggio pacifico», della «resistenza passiva e della ricerca della Verità (Dio)». Come possiamo rendere attuale Gandhi? Come possiamo essere anche noi portatori di pace?

Gandhi dimostra che la forza di un singolo uomo può diventare la forza di un popolo intero. Con le sue parole, ci incoraggia a «cercare la propria strada e seguirla senza esitazioni» e a «non avere paura». Rivolgendosi a ciascuno di noi aggiunge: «affidati alla piccola voce interiore che abita il tuo cuore e che ti esorta ad abbandonare, tutto, per dare la tua testimonianza di ciò per cui hai vissuto e di ciò per cui sei pronto a morire» (The Bombay Chronicle, 9 agosto 1942).

Il pensiero di Gandhi relativo al «satya» e all’«ahimsa» fu influenzato dalla religione, in parte anche dalla lettura del Vangelo. La «Verità e la non-violenza» costituiscono le colonne portanti dell'intero pensiero gandhiano: intrecciate indissolubilmente, esse sono state le due vie lungo le quali Gandhi ha cercato di condurre la propria vita e diffondere la sua visione della vita. 

Per Gandhi l'uomo nella sua vita terrena deve cercare di avvicinarsi il più possibile alla Verità, che è Dio: «La mia fervente ricerca mi portò alla massima rivelatrice "La Verità è Dio", invece della solita "Dio è la Verità"». La fede nella Verità è il fondamento più solido della ricerca di una vita sociale improntata alla non-violenza, all'amore e alla giustizia. 

Il compito del satyagrahi, cioè del rivoluzionario non-violento, è proprio quello di combattere la «himsa» – il male – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità. Il sentiero che conduce a Dio è dentro ogni uomo, e consiste nel cercare di improntare quanto più la propria vita verso la giustizia e l'amore: «Quanto più l'uomo si conosce, tanto più progredisce.» Il cammino verso la Verità è irto di ostacoli, e colui che lo intraprende deve essere dotato di una grande volontà, oltre ad essere disposto a compiere grandi sacrifici.

L’ahimsa«La non violenza è il primo articolo della mia fede. È anche l'ultimo articolo del mio credo.» Ahimsa è una parola sanscrita (è una lingua ufficiale dell’India) tradotta nelle lingue europee moderne con il termine "non violenza" (a= non, a primitiva; "himsa"= violenza, ingiuria, male, danno). Ahimsa significa non usare violenza, non far del male, amare e anche essere giusti nei confronti degli altri. Per Gandhi l'ahimsa è un atteggiamento etico derivante dalla fede nella Verità "Satya", il fondamento più solido della ricerca dell'ahimsa, cioè di una vita sociale improntata alla non-violenza, all'amore, alla giustizia.  

L'amore per il prossimo: «Se l'amore e la non-violenza non sono la legge del nostro essere, tutta la mia argomentazione cade a pezzi.» L’ahimsa è amore verso il prossimo, sentimento disinteressato di fare il bene degli altri, anche a costo di sacrifici personalisecondo Gandhi tutti gli esseri viventi, in quanto creature di Dio, sono legati tra loro e devono essere uniti da amore fraterno. Seguendo l'insegnamento cristiano dell' "Ama il prossimo tuo come te stesso" Gandhi predica l'amicizia fraterna tra tutti gli esseri umani, musulmani e indù, uomini e donne, paria e brahmini (oppressi e custodi della scienza e sacerdoti) in nome dell'amore e dell'uguaglianza: «Io e te siamo una sola cosa: non posso farti male senza ferirmi.» Ognuno deve essere disposto anche a morire per l'altro, a lottare per le ingiustizie fino in fondo, purché la verità e la giustizia trionfino.

Il rifiuto di ogni violenza: il Pacifismo. «Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere.» Se da una parte l’ahimsa è amore disinteressato d'altra parte essa è anche rifiuto totale di ogni tipo di odio verso gli altri: Gandhi afferma come anche se sottoposti ai più terribili soprusi, alle più gravi ingiustizie, ai più strazianti dolori, mai e poi mai si deve ricorrere alla violenza verso il prossimo. Si tratta di una negazione assoluta e senza appello di ogni forma di violenza, prima fra tutte la guerra: non è con la forza che si risolvono le controversie, ma con la volontà e il coraggio di sopportare il male pur di vincere l'ingiustizia. La «non-violenza» si contrappone alle pratiche di giustizia che avevano regolato per secoli la storia, a partire dalla Legge del taglione ("occhio per occhio, dente per dente"): «Occhio per occhio... e il mondo diventa cieco.» In questo senso Gandhi riveste un ruolo fondamentale nell'evolversi del pensiero pacifista, per il totale rifiuto della violenza e della guerra come strumenti per la soluzione di conflitti: «Non c'è strada che porti alla pace che non sia la pace, l'intelligenza e la verità.»

Come pacifista Gandhi si oppose strenuamente a qualsiasi ipotesi di risoluzione bellica dei conflitti tra stati o interni ad essi: nonostante l'appoggio alla Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale Gandhi cercò sempre di mediare e predicare la fine delle ostilità tra le parti, pur sempre riconoscendo come il nazismo costituisse un pericolo per il mondo intero. A questo proposito Gandhi fu, fin dall'inizio della sua attività politica, un forte sostenitore del «disarmo», che considerava l'unico modo per evitare la catastrofe della guerra; a tal proposito suonano terribilmente profetiche le parole che pronunciò nel 1925 nel corso di una discussione sulle reazioni politiche alla Prima guerra mondiale: «L'ultima guerra è stata una guerra espansionistica, per entrambe le parti. È stata una guerra per spartirsi il bottino dello sfruttamento delle razze più deboli – chiamato eufemisticamente mercato mondiale... Prima che cominci in Europa un disarmo generale –  che prima o poi dovrà essere realizzato, se l'Europa non vuole andare incontro al suicidio – qualche nazione deve avere il coraggio di procedere autonomamente al proprio disarmo, accettando i gravi rischi che ciò comporta.»

Gandhi ha posto la «non-violenza» al centro della sua concezione del progresso umano: l'essere umano è sia animale sia spiritoCome animale l'essere umano basa il suo rapporto col mondo sulla trasformazione materiale dei corpi e dunque sull'uso della forza, sulla himsa (il male )come spirito l'essere umano fonda le sue relazioni col mondo sulla comunicazione verbale e sulla persuasione razionale, dunque sulla ahimsa (amore verso il prossimo ). Il progresso è l'umanizzazione dell'uomo, la graduale affermazione della sua identità specifica, del suo essere spirito. Il progresso è di conseguenza la graduale riduzione del tasso di violenza «himsa» presente nei rapporti umani e la graduale affermazione della Verità e della «ahimsa», cioè della «non-violenza», del bene, della giustizia, nella vita sociale e politica: «Bisogna combattere la violenza. Il bene che pare derivarne è solo apparente; il male che ne deriva rimane per sempre.» Da questi concetti deriva naturalmente come per seguire la via della ahimsa sia preferibile per l'uomo distaccarsi dai bisogni materiali, da cui derivano i concetti sopraesposti di castità, povertà e digiuno.

Secondo Gandhi
 la giustizia risiede nella riduzione del tasso di violenza presente nella società. Se si utilizza la violenza, anche se per un breve periodo, per ottenere giustizia questa porta inevitabilmente a un aumento del tasso di violenza. Il mezzo deve essere coerente con il fine; non si può adottare un mezzo che porta alla negazione del fine. Se il fine della lotta per la giustizia è la «ahimsa», cioè la negazione della violenza nei rapporti umani, non lo si può realizzare facendo ricorso alla violenza.

Secondo Gandhi
 l'unico mezzo con il quale l'uomo giusto può proporsi di affermare la Verità e dunque l’ «ahimsa» nei rapporti umani è la persuasione razionale di coloro che con i loro comportamenti violenti causano ingiustizia: «Bisogna convertire l'avversario ad aprire le sue orecchie alla voce della ragione». I mezzi della persuasione (conversione, non costrizione), per Gandhi, sono essenzialmente due: la discussione e la lotta non violenta. 
  1. La discussione consiste nel battersi contro un'ingiustizia sociale e politica appellandosi alle autorità ingiuste e all'opinione pubblica. 
  2. La lotta non-violenta (satyagraha) è la dimostrazione pratica della Verità; essa dimostra la superiorità morale del ribelle, il suo essere dalla parte della Verità. 
Ed è a questo punto che il pensiero filosofico e morale di Gandhi si unisce con quello politico: la «non-violenza» per Gandhi è un mezzo per trovare la Verità, che è il suo fine, e il satyagraha è l'arma con la quale l'uomo non-violento lotta. La differenza tra questi due metodi di affermazione della Verità sta nel fatto che, mentre la discussione fa appello esclusivamente alla ragione dell'avversario attraverso la dimostrazione teorica della sua ingiustizia, la lotta non-violenta fa appello anche al cuore dell'ingiusto, perché contiene una portentosa dimostrazione pratica della sua ingiustizia.

Gandhi identificò sempre Dio con la Verità, ma la sua idea di Dio non si limitava ad un concetto filosofico, trascendendo essa ogni definizione: «Per me Dio è Verità e Amore; Dio è etica e moralità; Dio è assenza di paura. Dio è la fonte della Luce e della Vita e tuttavia Egli è al di sopra e al di là di queste. Dio è coscienza. È lo stesso ateismo degli atei. Perché, nel Suo infinito amore, Dio permette all'ateo di esistere. Egli è il cercatore di cuori. È un Dio personale per quelli che hanno bisogno della Sua personale presenza. È un Dio in carne ed ossa per quelli che hanno bisogno della Sua carezza. È la più pura essenza. È tutte le cose per tutti gli uomini. È in noi e tuttavia al di sopra e al di là di noi». 

La fede in Dio aveva per lui un'importanza fondamentale: «Sono più sicuro della Sua esistenza che del fatto che voi e io stiamo seduti in questa stanza. E posso anche affermare che potrei vivere senz'aria e senz'acqua, ma non senza di Lui. Potete strapparmi gli occhi, eppure non mi ucciderete. Ma distruggete la mia fede in Dio, e io sono morto.» Gandhi considerava la preghiera un'azione più «reale» di ogni altra: «Quando non c'è più speranza, "quando cessano gli aiuti e manca la consolazione", scopro che l'aiuto mi arriva, non so da dove. Le suppliche, l'adorazione, la preghiera non sono superstizioni; sono azioni più reali che il mangiare, il bere, il sedersi o il camminare. Non è esagerazione affermare che solo esse sono vere e tutto il resto è illusione».

Il programma politico di Gandhi fu rivolto essenzialmente all'indipendenza nazionale dell'India con un'ispirazione democratica e socialista. La sua innovazione riguardò la teoria della rivoluzione, che nell'Europa moderna si era formata con il contributo di quasi tutte le correnti del pensiero politico: quella liberale (Locke, Jefferson e i padri della Rivoluzione americana, Sieyes e i teorici liberali della Rivoluzione francese), quella democratica (Rousseau, Robespierre, Saint-Just e altri teorici giacobini; Mazzini) e quella socialista, anarchica e comunista (Babeuf, Bakunin, Marx, Lenin, ecc.). Nel 1916 Gandhi disse in un discorso: «Io stesso sono un anarchico, ma di un tipo diverso.» Per quanto divergenti nei loro obiettivi politici, le teorie classiche della rivoluzione hanno in comune due componenti fondamentali:
  1. La teoria del "diritto alla resistenza" (Locke), secondo cui è legittimo – se non doveroso – che le masse popolari si ribellino alle autorità sociali e politiche, quando subiscono un'evidente e intollerabile situazione di ingiustizia. 
  2. La teoria della "guerra giusta", secondo cui il popolo ha diritto di ricorrere alla violenza rivoluzionaria, quando questa serve a correggere torti e ingiustizie molto gravi (questa teoria, con origini medievali, giustificava la violenza e le guerre).
Gandhi condivise il primo di questi due principi ma rifiutò il secondo. Anche per lui ribellarsi all'ingiustizia era un diritto ed un dovere dei popoli, ma era sua convinzione che l'unica forma di lotta rivoluzionaria giusta e legittima fosse la rivoluzione non-violenta, da lui battezzata, con un termine derivante dal sanscrito, "satyagraha". 

La parola satyagraha significa "forza della Verità" e deriva dai termini in sanscrito satya (Verità), la cui radice sat significa "Essere", e Agraha (fermezza, forza). Il compito del satyagrahi, cioè del rivoluzionario non-violento, è proprio quello di combattere la «himsa» – la violenza, il male, l'ingiustizia – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità. Egli dà prova di essere dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome della Verità: «La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata da una persona ai danni di un'altra. Soffrire l'offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell'essenza della «non-violenza» e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo». 


L'ingiusto infatti afferma i suoi interessi egoistici con la violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e, nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata sulla «non-violenza» «ahimsa» che la Verità è qualcosa che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte l'istintiva paura della sofferenza e della morte. Rifacendosi alle parole dei Vangeli si potrebbe dire che, di fronte all'ingiustizia perpetrata, il combattente non-violento "porge l'altra guancia", affermando in questo modo la bontà della sua causa, cosa che l'ingiusto non potrebbe mai fare. Come la guerra è l'azione suprema dell'uomo che segue la via della «himsa», della violenza, così il satyagraha è "l'equivalente morale della guerra".

Il combattente non-violento sfida l'ingiusto a mani nude, senza armi, e si espone alle sue rappresaglie opponendo solo la forza della Verità (da cui l'espressione "forza della verità"). È la capacità di soffrire senza offendere, senza imporre con la forza la propria volontà, senza infliggere sofferenza, senza distruggere o uccidere e senza nemmeno difendersi che rappresenta, secondo Gandhi, la più potente dimostrazione pratica della validità della causa del ribelle non-violento, il suo essere dalla parte della Verità. 

La disobbedienza civile è una forma di lotta politica, attuata da un singolo individuo o più spesso da un gruppo di persone, che comporta la consapevole violazione di una precisa norma di legge, considerata particolarmente ingiusta, violazione che però si svolge pubblicamente, in modo da rendere evidenti a tutti e immediatamente operative le sanzioni previste dalla legge stessa. 

L'obiettivo di chi attua questa strategia di lotta è quello di evidenziare, mediante la propria disobbedienza, l'ingiustizia, a suo avviso palese, della norma di legge e le conseguenze che essa comporta. In seguito a un atto di disobbedienza civile, come per ogni violazione di legge, segue il relativo accertamento in sede penale; nell'ambito del processo, gli esponenti di questo tipo di lotta possono perciò proseguire la propria azione politica, denunciando pubblicamente i motivi per cui ritengono errata la legge che contestano. In ogni caso la disobbedienza civile non può considerarsi una motivazione attenuante o esimente rispetto alla sanzione penale, che deve necessariamente seguire l'avvenuta violazione di legge, fino all'eventuale cambiamento della legge stessa; ma ciò solo se si considera la "ragion di stato" come istanza superiore a quella della coscienza dell'individuo. Se invece si parte dal presupposto che lo Stato è una costruzione umana, che non è infallibile, e che è diritto dovere dei cittadini di vigilare affinché esso non abusi del suo potere, allora, in questa prospettiva la disobbedienza civile appare salvifica e meritoria. 

Alcuni esempi sono:
  • non pagare le tasse;
  • praticare l'obiezione di coscienza al servizio militare;
  • violare le norme legislative o gli atti amministrativi che limitano illegittimamente la libertà fondamentali (stampa, manifestazione, sciopero, riunione, ecc. ). 


Per Gandhi la disobbedienza civile rappresentava, insieme al digiuno, la forma culminante di resistenza non-violenta; egli la definì «un diritto inviolabile di ogni cittadino», e affermò che «rinunciare a questo diritto significa cessare di essere uomini».


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