venerdì 27 marzo 2015

LA FILOSOFIA DI KARL RAIMUND POPPER


Il Pensiero di Popper nasce all’interno dell’orizzonte teorico del circolo di Vienna, col quale egli fu in contatto diretto sia pure già da subito con un orientamento critico. L’obiettivo centrale della sua polemica è il «principio di verificazione». Innanzitutto la linea di demarcazione tra scienza e non-scienza, per esempio tra scienza e metafisica, non coincide con quella tra espressioni sensate ed insensate, in quanto distingue semplicemente le conoscenze controllabili mediante l’esperienza da quelle che non hanno questo carattere. In secondo luogo, se quella linea viene tracciata mediante un criterio per il quale sono significanti solo le affermazioni passibili di una verifica empirica conclusiva, restano escluse dalla scienza anche le leggi di natura che, essendo asserzioni strettamente universali (cioè riferite a un numero infinito di casi), per principio non possono mai essere verificate. 

Popper condivide l’esigenza neopositivista di fare dell’esperienza un momento decisivo per la scelta delle teorie, tuttavia ciò non va fatto per mezzo della «logica induttiva». Questa infatti non può sfuggire all’irrazionalismo perché pretende di legittimare il passaggio da una proposizione vera relativamente a un numero finito di casi sperimentati nel passato («alcuni corvi sono neri») a una legge universale valida anche per tutti gli infiniti casi futuri («tutti i corvi sono neri»), e ciò è assurdo perché non è mai possibile che un passaggio di questo genere risulti legittimo dal punto di vista logico. Dunque, se si vuole salvare la razionalità scientifica fondata sull’esperienza, è necessario per Popper abbandonare il mito secondo cui la scienza procede in base a un metodo induttivo: dal singolare all’universale, dall’esperienza alle teorie. 

Essa non procede per verificazione ma, al contrario, per «falsificazione»: se un’ipotesi non può mai essere verificata dall’esperienza essa può però da questa essere falsificata. Basta infatti la verità di una sola asserzione singolare («nel posto x c’è un corvo bianco») per confutare quell’asserzione universale, e questo è precisamente il modo in cui l’esperienza svolge un ruolo decisivo nella scelta delle teorie: le ipotesi falsificate vengono scartate a favore di quelle non falsificate. 

L’induzione dunque non esiste; gli scienziati non ricavano le teorie dall’esperienza ma «azzardano delle ipotesi» dalle quali vengono dedotte delle «previsioni controllabili»: se queste non vengono confermate la teoria risulta falsificata, in caso contrario essa è «non» verificata (questo resta sempre impossibile), ma «corroborata, fortificata», e può essere assunta come valida fino a prova contraria. Il metodo della scienza è insomma quello che, sfruttando l’«asimmetria» tra verificazione e falsificazione, procede per «prova ed errore» (trial and error), per «congetture e confutazioni». 

In tal modo secondo Popper è anche possibile «distinguere correttamente tra scienza e metafisica», perché una teoria è scientifica solo se comprende esplicitamente dei «falsificatori potenziali», ovvero degli asserti che, qualora risultassero veri, renderebbero falsa la teoria in questione, cosa che non accade con i discorsi metafisici. In breve: sono scientifiche quelle teorie che possono essere confutate dall’esperienza, e metafisiche quelle che non prevedono tale possibilità. 

Quello che Popper propone è un rovesciamento che intende essere rivoluzionario: si tratta di sovvertire delle convinzioni profondamente radicate nella nostra cultura. In particolare «va rifiutata l’idea che l’esperienza precede la teoria», la quale sarebbe in qualche modo derivata e «giustificata» da quella; al contrario è l’elemento teorico che precede sempre quello empirico: questo infatti non sarebbe possibile senza di quello. 

Per esempio la convinzione che la teoria scaturisce da osservazioni ripetute di eventi simili secondo Popper è errata perché non si rende conto che l’accertamento di una similitudine «è possibile solo sulla base di un criterio di somiglianza», quindi sulla base di un elemento teorico. In questo «senso» la sua filosofia si presenta come un «razionalismo critico» che rigetta il mito empiristico della «tabula rasa» (secondo Popper la mente non è un recipiente vuoto che vada riempito con l’esperienza) e che presenta delle analogie con la posizione kantiana, ferma restando la differenza fondamentale che per Popper la Teoria è una sorta di rete gettata nel mare dell’esperienza e può, «In ogni momento e in ogni sua parte» essere respinta sulla base di questa. 

Del resto «tutte» le asserzioni, anche quelle singolari e non solo quelle universali, risultano inverificabili, perché «ogni» concetto ha una componente «disposizionale» che trascende sempre la verifica empirica puntuale (per esempio «solubile» esprime non un fatto compiuto ma appunto una disposizione). Così in generale per Popper la «crescita della conoscenza» non nasce da un accumulo di osservazioni, ma si presenta come uno sviluppo che scaturisce da un «problema» (P1). Ad esso si tenta di dare una soluzione mediante dei «tentativi teorici» (TT) i quali vengono corretti – soprattutto mediante la «discussione critica» – cercando di «eliminare gli errori» (EE), il che conduce non alla teoria vera ma alla posizione di «nuovi problemi» (P2); sicché la formula popperiana che esprime lo sviluppo della conoscenza è P1→TT→EE→P2 (problema→tentativi teorici→eliminare errori→nuovo problema)

Secondo il filosofo austriaco, che sostiene la cosiddetta «teoria dei tre mondi» (quelli degli oggetti fisici, degli stati mentali e dei contenuti oggettivi di pensiero), la scienza ha di mira la «verità», nel senso tradizionale di «corrispondenza» alla realtà, ed è conoscenza «oggettiva». 

Tuttavia il “fallibilismo” popperiano ci costringe ad ammettere che la «verità» non potrà mai essere raggiunta; essa deve valere piuttosto come un «ideale regolativo» che come un traguardo da conseguire effettivamente, un ideale verso il quale tende il progresso della scienza. Questa cresce dunque attingendo «teorie sempre più verosimili», capaci cioè di spiegare un sempre maggior numero di fatti oltre a quelli spiegati dalle teorie che vengono via via abbandonate. Una teoria «T2» viene preferita a una teoria rivale «T1» non perché si sia dimostrata vera ma in base ad altri criteri; per esempio se è più ricca di contenuto empirico, se implica previsioni più rischiose e se ha superato un maggior numero di prove, di controlli, di seri ed onesti tentativi di confutarla. 

L’epistemologia falsificazionista di Popper si è andata via via trasformando in una concezione generale della realtà di tipo dichiaratamente razionalistico, nel senso per esempio che deve essere la «pratica della discussione e della critica razionale», quella che secondo Popper è nata con la filosofia greca, ad essere assunta come metodo in ogni questione teorica ed intellettuale e non solo in quelle scientifiche decidibili dal punto di vista empirico. E’ poi sempre la «fede nella ragione» che guida pure la riflessione popperiana sulla società: la strada da percorrere è infatti quella dell’applicazione del metodo scientifico e del razionalismo critico. Qui esso conduce, per mezzo di «predizioni controllabili», a una tecnologia sociale razionale, graduale, parziale e riformista che si contrappone alle pretenziose profezie dello storicismo il quale si illude di cogliere (per esempio per mezzo della dialettica, che invece è inaccettabile in quanto ammette la contraddizione) le leggi necessarie che regolano lo sviluppo della società nel suo insieme. 

La concezione reazionaria dello storicismo, che rappresenta una prospettiva «totalitaria» (tale carattere hanno per esempio le filosofie di Platone, di Hegel e di Marx), conduce a una «società chiusa», fondata sull’imposizione di norme immodificabili. Popper propugna invece una «società aperta», fondata sull’esercizio critico della «ragione umana» e sulle istituzioni democratiche, caratteristiche della società occidentale, che sole consentono di realizzare il massimo grado possibile di giustizia all’interno della libertà.     









domenica 22 marzo 2015

ANTONIO GRAMSCI


Un contributo originale all’elaborazione del marxismo venne fornito da Antonio Gramsci, che fu tra i fondatori del Partito Comunista Italiano. Le sue analisi sulla complessità del rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura politica e ideale, l’insistenza sulla necessità di conquistare un’«egemonia» (primato, supremazia) etico-culturale prima ancora che politica, il rifiuto di ogni interpretazione meccanicistica (Vedi Post marzo 2013 Gli artefici della concezione meccanicistica del mondo)  e sociologistica dello sviluppo storico in generale e dello stesso marxismo rappresentano altrettante indicazioni importanti non solo sul piano teorico, ma anche dal punto di vista della strategia rivoluzionaria più idonea alle condizioni di una società capitalistica avanzata.

L'«egemonia culturale» è un concetto che indica le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. L'analisi dell'«egemonia culturale», anche in quanto distinta dal mero dominio, è stata formulata per la prima volta da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni comuniste predette da Carlo Marx nei paesi industrializzati non si fossero verificate. 

Marx e i suoi discepoli avevano in effetti affermato che il capitalismo industriale avrebbe generato una gigantesca classe operaia e cicliche recessioni economiche che aggiunte alle altre contraddizioni del sistema capitalistico avrebbero portato la stragrande maggioranza della popolazione, i lavoratori, a sviluppare delle organizzazioni per difendere i loro interessi e cioè «sindacati» e «partiti politici riformisti». L'inevitabile successione delle crisi economiche avrebbe quindi trascinato la classe operaia organizzata ad abbattere il capitalismo con una rivoluzione, a rifondare le istituzioni economiche, politiche e sociali sulla base del socialismo scientifico e a cominciare la transizione verso una società comunista. In termini marxisti il cambiamento radicale delle strutture economiche implicava una trasformazione delle sovrastrutture culturali e politiche. 

Se finora non era avvenuto quanto teorizzato scientificamente dalla dialettica marxista, secondo Gramsci questo era dovuto all'incontrastata preponderanza della cultura borghese su quella proletaria. In altri termini le rappresentazioni culturali della classe dirigente, cioè l'ideologia dominante, avevano influito più di quanto Marx avrebbe potuto pensare sulle masse lavoratrici. Nelle società industriali avanzate gli strumenti culturali egemonici come la scuola obbligatoria, i mezzi di comunicazione di massa avevano inculcato una «falsa coscienza» ai lavoratori. 

Invece di fare una rivoluzione che servisse a soddisfare i loro bisogni collettivi i lavoratori delle società industriali facevano propria l'ideologia borghese dominante cedendo alle sirene del nazionalismo, del consumismo e della competizione sociale abbracciando un'etica individualista egoistica oppure schierandosi tra le file dei capi religiosi borghesi. Era arrivato il tempo di abbattere l'«egemonia culturale» borghese e questo era il compito degli intellettuali.  

E’ un «leninista» dichiarato come Gramsci a costruire una risposta teorica diversa al problema della coscienza rivoluzionaria. Gramsci pensava che fosse essenziale, in campo marxista, liberarsi da ogni traccia di interpretazione determinista e di materialismo volgare: in queste concezioni vedeva le radici filosofiche dell’inerzia e del comportamento subalterno alla borghesia che caratterizzavano la «II Internazionale». Senza il superamento di queste scorie il diffondersi di una consapevolezza rivoluzionaria sarebbe stato impensabile. Proprio perché questa è la linea discriminante tracciata, Gramsci si sente dalla stessa parte di Lenin. Le sue tesi tuttavia vanno oltre l’orientamento di Lenin, e spesso in altra direzione. Per certi versi rappresentano una riformulazione diversa e creativa dello stesso pensiero di Marx (Vedi Post Novembre 2013 Karl Marx )

Riflettendo sulle difficoltà e sulle specificità della rivoluzione in Occidente rispetto alla rivoluzione in Russia, Gramsci pone al centro di una nuova strategia la conquista dell’«egemonia» come «riforma intellettuale e morale», come direzione culturale e costruzione di un «senso comune» impregnato della «concezione del mondo» del proletariato rivoluzionario. 

Per Gramsci la conquista dell’«egemonia» è il momento centrale; la conquista del potere politico, la forza e il comando, è un momento subordinato. Per Lenin, invece, il comando è decisivo, l’«egemonia» segue. 

Gramsci, quindi, vede la necessità di far precedere, per rendere possibile la rivoluzione in Occidente, la conquista dell’«egemonia» a quella del dominio. In Russia era avvenuto il contrario. Il progetto comunista in condizioni di avanzato sviluppo capitalistico viene così a distinguersi dal «modello leninista», valido in paesi relativamente arretrati. L’azione volta a produrre una trasformazione culturale acquista perciò in Gramsci un peso decisivo: il «blocco storico» delle forze anticapitalistiche si costruisce attorno alla fusione degli aspetti economico-sociali con gli aspetti etico-politici. 

Il ruolo guida che l’egemonia assume sull’esercizio della forza sta anche alla radice del pensiero gramsciano sulla transizione dalla dittatura del proletariato al comunismo attraverso l’estinzione dello Stato. Sarà proprio l’estendersi e l’approfondirsi dell’egemonia, del consenso, a ridurre e, progressivamente, a riassorbire e rendere inutile la «società politica», lo strumento della forza. 

Compare qui il termine di «società regolata» per designare il comunismo, la società senza Stato: una espressione felice che stringe immediatamente, in un solo nesso, per un verso la società capitalistica e la forma valore come assenza di coscienza e di controllo sociale, e per l’altro la funzione egemonica del proletariato come sviluppo di una cultura e di un’etica capaci di autoregolare le relazioni sociali: l’esistenza di un apparato che garantisca, attraverso il monopolio della violenza, le norme regolatrici della vita comune diventa a questo punto inutile; lo Stato scompare nella società civile capace finalmente di autogestirsi secondo le regole la cui validità si fonda sul loro semplice riconoscimento. 

L’articolazione determinata dal nesso che lega essere sociale e coscienza, fino a mostrare che la determinazione economico-sociale si può far valere solo una volta che venga sintetizzata culturalmente e diventi, in questo modo, realmente attiva e in grado di trasformarsi, è il centro della riflessione di Gramsci e il suo contributo creativo al marxismo. Anzi, l’elaborazione di questo rapporto in Gramsci supera alcune difficoltà e contraddizioni che rimangono irrisolte nello stesso Marx: infatti, ogni tesi circa il «primato» dell’essere sociale rimane pur sempre un’affermazione che attiene alla coscienza un’assunzione culturale in «senso» stretto, un assunto teorico. 

Gramsci è in ogni caso di fronte a interpretazioni «marxiste» di Marx che irrigidiscono la distinzione fra essere sociale e coscienza e, così facendo, dissolvono sul piano filosofico il nucleo più fecondo dell’impostazione marxiana, l’unità storica e dialettica, e quindi pratica, fra «essere e coscienza»: «Dall’unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l’alta cultura moderna idealista ha cercato di incorporare ciò che della filosofia della prassi le era indispensabile». 

Gramsci aveva scritto i suoi «Quaderni» dal ’29 al ’35, in carcere, lontano dall’immediatezza dello scontro politico e, forse anche per questo, intellettualmente più libero. D’altra parte i suoi dissensi con la linea dominante nella «III Internazionale» lo rendevano «scomodo» per tutti e lo relegavano nell’isolamento. 

     

mercoledì 18 marzo 2015

EMMANUEL LÉVINAS


La Filosofia di Emmanuel Lévinas , corretto interprete della tradizione ebraica, è incentrata sul problema dell' «Etica» della quale ha elaborato i «princìpi primi» per aprirla alla Metafisica. L'«Etica» equivale alla Metafisica, perché l'unica Filosofia possibile, l'unica possibile conoscenza, è quella dei «princìpi primi» dell'agire morale. La Bibbia e la Filosofia sono in accordo, anche se la vera Filosofia è quella che distrugge tutti i miti costruiti dall'uomo. Il compito della Filosofia è pensare (secondo un'espressione desunta da Barth) al «Totalmente Altro» dall'Essere e dal Logos che sono le categorie di una comprensione riduttiva e fallace del reale. Lévinas ha una diversa prospettiva dell'alterità radicale. 
La sua Filosofia nasce dallo «stupore del silenzio di Dio» verso le tragedie. Pensare è ascoltare la Parola dell'«infinito» che è udibile dal volto dell'altro nella cui nudità e povertà risplende la traccia di Dio. Ciò è possibile solo nel rispetto della sua alterità, della sua solitudine, del suo mistero e della sua persona: è questo il principio primo dell'«Etica» che, in questo ambito, diventa Metafisica: se non violo con le mie categorie onnicomprensive il mistero dell'altro, cioè se non lo riduco ad un'essenza pre-determinata e pre-giudicata, arrivo ad un tipo di conoscenza che è reale perché è traccia dell'«infinito». L'alterità è totalmente estranea all'ego (frattura tra sé e l'altro) e, pertanto, la mia esperienza non sarà mai paragonabile a quella di un altro, io non posso vivere il dolore, la gioia e altre esperienze limite di un altro. 
Per il filosofo lituano l'«Etica» costituisce la possibilità di uscita dalla conoscenza come comprensione dell'altro che viene generalmente assimilato a sé ed espropriato della sua alterità e diversità. L'altro, per essere tale, non può essere ricondotto né alla conoscenza che io ne ho (che è sempre un'interpretazione parziale), né all'amore che parte da me e intende abbracciarlo. Lévinas vede nell'«eros» "uno dei simboli massimi dell'alterità", «eros» non è possesso, ma mistero che implica la presenza dell'infinito.
Per Lévinas la «Fede» in Dio e' propriamente il «Desiderio» dell' «Assolutamente Altro», cioè dell' «Infinito». Tale «Desiderio» sta al fondo di tutto ciò che l'uomo può essere e pensare. Il presupposto, da cui si sviluppa tutto il ricco e suggestivo discorso di Lévinas, e' che il «Desiderio» dell' «Assolutamente Altro» sia «Suscitato dal Desiderabile» e dunque non sia una velleità vana e senza senso. Si tratta del presupposto che l' «Idea dell' Infinito» sia prodotta non dal «Nulla», ma dall' «Infinito» stesso e dunque non sia un' illusione. Cartesio aveva pensato a fondo questo teorema. Lévinas ha creduto di poterlo ereditare e riattivare. Dio, come «Infinito» e «Trascendenza Assoluta», sta «Al di là» di tutto ciò che appartiene all' «Essere». Trascende quella totalità dell' «Essere» in cui sin dall'inizio il pensiero filosofico ha imprigionato e soffocato ogni libertà, innovazione e individualità dell'esistenza (Distinzione tra «infinito e totalità»). L' «Essere» e', per Lévinas, la dimensione della «Presenza senza Divenire». 
Da Plotino incomincia quel modo di intendere l' «Al di là» dell' «Essere», di cui parla Platone, ma che in Platone ha un significato diverso da quello che Neoplatonismo e Teologia negativa gli hanno attribuito. Per Lévinas la Filosofia della «Totalità dell' Essere» ha la sua massima espressione nell'Idealismo. Ma l'Idealismo e' una delle maggiori affermazioni ed esaltazioni del divenire dell' «Essere». Si può comprendere allora che «Senso» abbia, per Lévinas, identificare l' «Essere» e la «Presenza senza Divenire». Egli pensa quello che viene pensato da tutta la Filosofia contemporanea. Per quest' ultima, la Filosofia tradizionale sa molto bene che l' «Essere» del mondo e' «Divenire»; ma essa avvolge il «Divenire» del mondo all'interno di un «Senso», di un «Ordinamento Immutabile e Divino» che finisce con l' ostacolare e soffocare il «Divenire» , ossia ciò che si vorrebbe rendere comprensibile e vivibile. (Vedi Post Marzo 2014 Il Divenire evidenza suprema e Maggio 2014 la Fede nel Divenire
L' Eterno della tradizione, che dovrebbe salvare il «Divenire» (e dal Divenire) del mondo, imprigiona il «Divenire» in una Totalità che lo uccide. Ogni violenza e' figlia di questa originaria violenza della tradizione filosofica. Ogni «Totalitarismo» e' figlio legittimo di questa «Totalità». Per il pensiero contemporaneo, questo soffocamento del «Divenire», perpetrato nelle regioni astratte del pensiero filosofico, e' l' anima stessa, la stessa prefigurazione di ogni successiva violenza e intolleranza totalitaria. Lévinas appartiene a questo atteggiamento tipico del pensiero contemporaneo. Che però e' pensiero essenzialmente «Ateo». Lévinas crede invece che l'ateismo sia soltanto un punto di passaggio che deve essere oltrepassato dal «Desiderio» dell' «Assolutamente Altro». 
La forza del Desiderio rompe il cerchio della «Totalità» dell' «Essere», dove ogni viaggio e' sempre, come quello di Ulisse, un ritorno a Itaca, un ritorno al medesimo, cioè alla soffocante eliminazione della diversità e dell' Altro. «Nessun viaggio, nessun cambiamento di clima o di sfondo , così egli scrive nella sua opera maggiore, Totalità e Infinito , sarebbero in grado di soddisfare il desiderio». Dio e' «Assolutamente scomparso, Assolutamente passato». E un misterioso viandante che ha voluto cancellare le proprie «tracce». 
Ma questo Dio che si sottrae completamente all' «Essere» finisce con l' assomigliare troppo al «Nulla»: non al «Nulla» ricco e promettente del neoplatonismo, del misticismo e della teologia negativa, ma al «Nulla» che e' proprio «Nulla», al «Nulla» «Nullo e Assoluto», che ormai, per il pensiero filosofico del nostro tempo, e' l' approdo più qualificato del «Divenire», ossia del portarsi «Al di là dell' Essere». Contrariamente alle proprie intenzioni, il Desiderio di Dio finisce con l' essere desiderio del «Nulla».

venerdì 13 marzo 2015

HEIDEGGER


Il compito che Heidegger si propone, muovendo da una ridefinizione e da un approfondimento della prospettiva «fenomenologica», è quello di riportare al centro dell’analisi filosofica il problema dell’«Essere», di delineare, cioè, un’«Ontologia». Ma poiché l’«Essere» si fa avvertire tramite quell’interrogazione sul suo «Senso» che gli uomini da sempre sollevano, la comprensione di esso deve essere ricercata attraverso la comprensione di quel particolare «esserci» che è l’uomo, la cui prima struttura costitutiva è l’«Esistenza». Così l’originario progetto «ontologico» di Heidegger si precisa in un più concreto e stimolante progetto di analisi dell’«Esistenza», che larga influenza avrà sullo sviluppo della cultura contemporanea. 
La chiarificazione di quelli che sono i caratteri e i modi dell’«Esistenza» mette in luce la dimensione della temporalità come costitutiva del «Dasein» (l’Esserci). Al di fuori di questa, non ha senso parlare di un tempo assoluto nel quale l’uomo – come tutti gli altri «fenomeni» – sarebbe calato. In questa temporalità esistenziale ciò che Heidegger privilegia è il «futuro», in cui si proiettano le possibilità ontologiche del «Dasein» e si colloca l’orizzonte della stessa comprensione dell’«Essere». 
Heidegger ha sempre sostenuto che l'Occidente è, nel «Senso» più essenziale, la Terra del tramonto e dell'errare. Vi tramonta il fondamento di ogni opera umana e divina, della terra e del cielo, e dunque della stessa totalità degli enti. Tale fondamento e' il «Senso» autentico dell' «Essere», intravisto dai primissimi pensatori greci e subito dimenticato. Non e' mai stato facile stabilire in che «Senso» per Heidegger l'Occidente sia un «Errore», anzi l' «Errore»; in che «Senso», ad esempio, sia «Errore» il Cristianesimo, la Scienza moderna, il Nazionalsocialismo. 
L' «Essere», per Heidegger, non e' nessuno degli enti; non e' nemmeno quel «Super ente» che e' il Dio della tradizione occidentale. Nell'antica lingua greca e' presente la parola «aletheia», che viene solitamente tradotta con la parola «Verità», ma la cui traduzione più appropriata, e anche più letterale, e' dis-velamento (dove il prefisso dis corrisponde all'alfa privativo di a - letheia). 
Heidegger lo interpreta come una luce che sorge dall'oscurità e che illumina le cose; e aggiunge, spintovi dal «Senso» greco di quella parola, che tale luce, ancor prima di illuminare le cose, quindi indipendentemente da esse, apre una radura luminosa che non e' costituita da alcun ente e non rappresenta alcun ente, ma e', appunto, l' «Essere» di ogni ente. Per i primi pensatori greci la «Verità» non padroneggia dunque e non domina gli enti, ma, disvelandoli, li lascia essere nella luce. La «Volontà di Potenza» appartiene al tramonto del «Senso» greco originario dell' «Essere». Qui non si tratta di mettere in rilievo la profonda arbitrarietà di questa interpretazione, ma di richiamare l' attenzione sulla chiarezza con cui in queste pagine Heidegger mostra il legame che unisce il velamento dell' «Essere», alla «Volontà di Potenza», al nuovo «Senso» della «Verità», affermato dal mondo Romano-Cristiano, e all' «Errore», il legame che porta al tramonto la grecità originaria e da cui sarà guidata l'intera storia dell'Occidente. 
Ecco lo stravolgimento essenziale: il verum romano e' proprio ciò che i Greci chiamano il velamento, il latente, ossia, il non vero! La barriera, poi, e' affidabile solo se resta al proprio posto, cioè resta in piedi, stabile, eretta, senza cadere (tutti significati, anche questi, contenuti nella radice ver), sì che il verum Romano-Cristiano e' ciò che sta saldamente diritto, domina l'uomo e le cose. Esso e' «Volontà di Potenza», Comando (Il comandare in quanto fondamento essenziale del potere implica l'essere al di sopra). Heidegger trascura anche questa volta che lo stare saldamente diritto e' il significato più proprio di ciò che i Greci chiamano sin dall' inizio «Episteme» e che noi traduciamo impropriamente con la parola «Scienza»; ma intanto egli può affermare che nel mondo Romano, Imperiale, Curiale, Cristiano il «Senso» autentico della «Verità» come Dis-velamento e' andato perduto. 
Quando Cristo dice: «Io sono la Via, la Verità , la Vita», in queste parole, di greco e' rimasta ormai soltanto la lettera. La romanità stabilisce il volto del Cristianesimo e l'imperium statale diventa l'imperium ecclesiastico, cioè il sacerdotium (L' imperiale viene ad assumere la forma del curiale della curia del Papa romano, il cui potere si fonda anch'esso sul comando). Mentre gli Dei greci sono il risplendere di enti, anzi sono l' «Essere» stesso che guarda entro l'ente, e non sono persone (come la psyche greca non e' l'anima cristiana), invece il Dio Creatore e Redentore padroneggia e calcola ogni ente. 
Anche la Scienza moderna e' per Heidegger un padroneggiamento conoscitivo dell' Ente, che non ha più nulla a che vedere con il Dis-velamento dell' «Essere». Nella storia dell'Occidente anche la Politica, che nella polis greca e' il luogo stesso del Dis-velamento, viene ad essere concepita in modo Romano. Sebbene Heidegger non lo dica esplicitamente, anche il Nazionalsocialismo e' dunque (come Simone Weil aveva sostenuto) nella sfera della romanità. 
La Veritas e' il velamento dell' «Essere», la dimenticanza e il tramonto del «Senso» autentico della «Verità» . Questo velamento e' la radice dell' «Errore»: La dimenticanza dell' «Essere» induce in «Errore» la storia dell' umanità. Un discorso chiaro, dunque, che giudica negativamente quella storia , e quindi anche il Cristianesimo. Ma perché, allora, proprio in quegli anni Heidegger scriveva che il suo pensiero lasciava impregiudicati i problemi dell'esistenza di Dio e dell' immortalità dell'anima, che il Cristianesimo risolve positivamente? 
Non vi sono Tesi somme, ossia Principi, Verità eterne che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo «rifiuto», ormai, non sono soltanto le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la Scienza: non soltanto la Filosofia , che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell'uomo, dunque anche a se stessa, ma anche, e da tempo, la Scienza, nella misura in cui essa si libera dall'illusione di essere, oltre che «Potente», assolutamente «Vera». 
la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel «rifiuto» di ogni Tesi somma e di ogni Verità eterna e soprastorica. In «Essere e Tempo» si dice: Che ci siano delle Verità eterne potrà essere concesso come dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l' Esserci era è e sarà per tutta l'eternità. Fin che questa prova non sarà stata fornita, continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie. Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l' uomo (cioè l' Esserci) è «Eterno», «Eterno», non semplicemente immortale, sarà solo una fantasticheria parlare di Verità eterne. Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l'uomo (come ogni cosa del mondo) non è «Eterno» e che quindi quella prova non potrà mai esser data, per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato ed agito da quando, all'inizio della storia dell' Occidente, è apparso il «Senso» del Tempo e dell' «Eterno». Che nessuna cosa con cui l' uomo abbia a che fare sia «Eterna» è diventata ormai la convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo. 
Emanuele Severino, nei suoi scritti, ha sempre indicato la «Necessità» che non solo l' uomo, ma tutte le cose siano «Eterne» (Vedi Post marzo 2013 E. Severino Il Filosofo della Verità). Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, e il comparire e lo scomparire degli eterni. 
Occorre ritornare a Parmenide, e, oltre Parmenide: «L’essere è e non può non essere». Le determinazioni dell’essere sono Immutabilità, Eternità, Incorruttibilità, Ingenerabilità, Unicità e Necessità. E la «Necessità» che ogni cosa sia «Eterna» è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella prova dell'«Eternità» dell'uomo che per Heidegger non potrà mai esser data (Vedi Post Genn. 2015 Il Firmamento , oltre Parmenide)
Dall'inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato la domanda dell' «Essere». La domanda, che continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L' «Essere» non è l'Ente, non è alcuno degli enti (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che è e che è questo e quest' altro. Qual è il «Senso» di questo è, ecco la domanda dell' «Essere», da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la Filosofia è stata riflessione sul «Senso» dell' Ente, ossia è stata Pensiero Metafisico, e ha quindi velato la domanda dell' «Essere», pur dando vita alla storia dell'Occidente. Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo è una Tesi somma, una Verità assoluta. Essa è storica. Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il «Super Uomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la capacità di costituirsi come l' autentica domanda dell' «Essere», ma solo il carattere di un Pensiero Transitorio, che ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il tracciato del pensiero metafisico, e i cui sforzi saranno un giorno superflui e ricadranno nell' accidentale. 
In una conferenza pubblicata nel 1964 e intitolata La fine della Filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà che al proprio pensiero non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica dell'epoca industriale, improntata dalla Scienza-Tecnica, e che il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient'affatto fondante, giacché gli basta risvegliare una disponibilità dell'uomo per una possibilità, i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto. Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una falsa modestia, giacché quell'oscurità e incertezza, quella incapacità di influire sul mondo della Tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non sono, per lui, semplici caratteri della scrittura dell'individuo Heidegger, ma sono insieme, e addirittura primariamente, il modo in cui l' «Essere» stesso si vela e si ritrae dall'epoca presente. E lo stesso si può dire di quella superfluità e accidentalità che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una Filosofia che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute alle carenze di un certo individuo umano, ma sono le difficoltà in cui le cose stesse si trovano e secondo le quali si costituiscono. 
Heidegger intende rovesciare la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia risulta fortemente neoplatonico), senza cioè abolire la Fede che guida l'Occidente e ormai il Pianeta: la Fede che l'uomo e le cose non sono «eterne». Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del creare, che è concetto essenzialmente metafisico. (Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e creatori, perché di costoro ha bisogno la sua essenza?). Ma, dico, nessuna cosa creata è «Eterna». È creata proprio perché non è «Eterna». Nessun creatore crea l' «Eterno». E dell' «Essere» stesso Heidegger esclude che sia «Eterno». L' «Essere» stesso è storico. 
Ma questa fede nella «non Eternità» di ciò che è non esprime forse la «follia» estrema? non pensa forse che ciò che è non è (giacché non è eterno)? che il non niente è niente? che cioè gli essenti sono il nulla? certo questa non è come la domanda di Heidegger. Qui è la Risposta, positiva e già da sempre data e non da uno di noi, ma dalla «Necessità», a sorreggere la domanda. 
Nota Finale:
La verità assolutamente innegabile esiste e tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è «Eterno», ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato «nulla» e che sia travolto nel «nulla». Certo, la più sconcertante delle affermazioni.



sabato 7 marzo 2015

EINSTEIN E LA TEORIA DELLA RELATIVITA’


Un apporto decisivo all’evoluzione della Fisica è venuto dalle ricerche e dall’elaborazione compiute nei primi anni del novecento da Albert Einstein che, approdando alla formulazione della «Teoria della Relatività speciale», portano ad una revisione globale dei concetti tradizionali di «spazio» e di «tempo» nonché alla rielaborazione di quelli di «massa» ed «energia». L’ulteriore approfondimento compiuto negli anni successivi (a partire dal 1913) ha condotto poi alla definizione di una «Teoria della Relatività generale» che, formulando nuove leggi sulla struttura del campo gravitazionale, risulta di grande rilevanza per gli sviluppi dell’indagine cosmologica. 

Nella sua teoria, cade la nozione di tempo assoluto, e il duplice continuo – quello unidimensionale del «tempo» e quello tridimensionale dello «spazio» – viene sostituito dal continuo «spazio-temporale» a quattro dimensioni. 

Così lo stesso Einstein espone il contenuto essenziale della «Teoria della Relatività»: «La "Teoria della Relatività" prende corpo in due tempi. Il primo di questi conduce alla cosiddetta “Teoria della Relatività speciale” che si applica soltanto a sistemi di coordinate inerziali, a sistemi cioè pei quali le leggi d’inerzia, formulate da Newton, sono valide. “La Teoria della Relatività speciale” si basa sopra due presupposti fondamentali e cioè: le leggi fisiche sono le stesse per tutti i sistemi di coordinate i cui moti relativi sono uniformi; la velocità della luce conserva sempre lo stesso valore. 

Partendo da queste supposizioni, confermate sperimentalmente oltre ogni dubbio, deduconsi le proprietà dei regoli di misura e degli orologi in movimento, nonché le modificazioni in lunghezza e rispettivamente in ritmo che essi subiscono con il variare della velocità. La “Teoria della Relatività” modifica le leggi della meccanica. Le antiche leggi non sono più valevoli allorquando la velocità di una particella in moto si avvicina a quella della luce. Le nuove leggi per un corpo in movimento formulate dalla “Teoria della Relatività”, sono pienamente confermate dall’esperimento. 

Una conseguenza ulteriore della “Teoria della Relatività speciale” è la rivelazione dell’intimo legame fra «massa» ed «energia». La massa è energia, e l’energia possiede massa. Le due leggi della conservazione della massa e dell’energia vengono fuse dalla “Teoria della Relatività” in una sola: la legge di conservazione della «massa-energia». “La Teoria della Relatività generale” fornisce un’analisi ancor più profonda del continuo «spazio-temporale». 

La validità della teoria non si limita più ai soli sistemi di coordinate inerziali. La teoria abborda il problema della gravitazione e formula nuove leggi strutturali del campo gravitazionale. Essa conduce ad analizzare la parte spettante alla geometria nella descrizione del mondo fisico. Essa considera l’eguaglianza della massa inerte e della massa pesante quale fatto essenziale e non meramente accidentale, come fa la meccanica classica» (Einstein: L’evoluzione della Fisica, 255-56). 

L’assioma dello svolgimento oggettivo degli eventi nello spazio e nel tempo, indipendentemente da ogni osservatore, fu rigettato, sulla base di scoperte sperimentali, dalla «Teoria dei Quanti»; in essa, infatti, vengono introdotte le «Relazioni d’Indeterminazione», le quali rappresentano la base di una nuova descrizione della natura che non è più fondata sul principio della rigorosa causalità degli eventi fisici. «Nella “Teoria della Relatività”, scrive W. Heisenberg, il punto di partenza per la critica dei concetti fu il postulato (supposizione) che non potesse esistere alcuna velocità di segnale maggiore di quella della luce. In modo analogo, si può postulare (supporre) come una legge di natura tale limite di esattezza per la conoscenza contemporanea di variabili diverse, in quelle che si soglion (usa) chiamare «Relazioni d’Indeterminazione», e prendere questo limite come punto di partenza per la critica dei concetti della “Teoria Quantistica”. Queste «Relazioni d’Indeterminazione» danno proprio quel grado di autonomia nei confronti del mondo concettuale classico, che è necessario per poter descrivere in modo esente da contraddizioni i processi atomici» (i principi fisici della “Teoria dei Quanti”, 13-14).  

Le tesi fondamentali della «Teoria della Relatività ristretta» (1905), prima grande tappa fissata da Einstein, sono:
  1. Che non esiste azione istantanea a distanza, ma che ogni azione si propaga per successione con una velocità finita;
  2. Che, dati diversi osservatori collegati a sistemi galileiani, in cui si verifica il principio dell’inerzia, animati da movimenti di traslazione uniforme uno in rapporto all’altro, tutte le leggi fisiche, ivi comprese alcune costanti come la velocità della luce, si esprimono per essi in una identica forma;
  3. Che, di conseguenza, l’ordine di successione fra due avvenimenti ben definiti, ma che non sono immediatamente vicini, può dipendere dalla scelta del sistema di referenze al quale essi corrispondono, e così per un osservatore può trovarsi ad essere inverso rispetto a ciò che è per un altro.

L’idea filosofica centrale della «Relatività generale» consiste nella possibilità di rappresentare tutti i fenomeni «materiali ed energetici» con semplici variazioni nelle caratteristiche geometriche locali di uno «spazio-tempo» che non si considererà più come omogeneo, ma come comportante, determinante nei suoi diversi punti curvature variabili (o, secondo una recente concezione, «torsioni» che avrebbero la stessa funzione). Il primo fenomeno interpretato secondo questi punti di vista è stato la «gravitazione», descritta non più come una forza di attrazione, ma come un effetto d’inerzia in uno «spazio-tempo» così caratterizzato in modo diverso a seconda delle regioni.

Albert Einstein una volta si domandò quale tra le leggi della Scienza potesse essere classificata come «Legge Suprema». Concluse facendo la seguente osservazione: «Una teoria è tanto più imponente quanto maggiore è la semplicità delle sue premesse, tanto più diversi sono i tipi di cose che correla e quanto più esteso è il campo della sua applicabilità. Di qui, la profonda impressione che ho ricevuto dalla "Termodinamica Classica" (Vedi tutti i post Marzo e Aprile 2013 La Nuova concezione del mondo l’Entropia, La legge dell’Entropia, Analisi e Sintesi e la Tecnologia). E' la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che nell'ambito di applicabilità dei sui concetti di base non verrà mai superata».

Nota finale

Ad oggi ,7 Marzo 2015, «non è stata ancora superata». Questo perché l’«Entropia» è «irreversibile»: può aumentare ma mai diminuire. Il motivo è che questa legge fondamentale della «Natura», definisce i limiti fisici estremi entro cui siamo costretti ad operare; essa «annulla» il concetto di storia intesa come «progresso» e «infrange» il concetto che la «Scienza e la Tecnologia» creino un mondo più ordinato. Ogni «sistema» in natura evolve spontaneamente da uno stato «ordinato» a uno più «disordinato».