giovedì 24 dicembre 2015

LA “MAGNA CHARTA” CRISTIANA


Papa Francesco ha voluto che le Beatitudini del Vangelo di Matteo (5,1-12) fossero la guida ideale per le Giornate mondiali della gioventù di questo e del prossimo anno. Esse fanno parte anche del Lezionario biblico del matrimonio e possono diventare un programma di vita per gli sposi cristiani. 

Lo scrittore francese Charles Péguy ammoniva: «No, figlio mio, Gesù non ci ha dato delle parole morte da rinchiudere in scatolette piccole o grandi e che dobbiamo conservare in olio rancido come le mummie d’Egitto. Gesù Cristo non ci ha dato affatto delle conserve di parole da custodire ma ci ha dato parole vive per nutrirci e nutrire». Le Beatitudini sono proprio queste parole vive che nutrono. 

Esse sono indirizzate alla coscienza dell’uomo: esemplari sono le due beatitudini dei «poveri in spirito» e dei «puri di cuore». Nel linguaggio biblico lo “spirito” e il “cuore” non indicano qualcosa di intimistico o di vagamente spirituale, ma sono espressione dell’essere profondo dell’uomo da cui promanano le decisioni fondamentali di pensiero, di volontà e di azione. Le Beatitudini, allora, sono molto di più di una serie di norme o leggi che regolano alcuni tempi della vita e alcuni atti. Sono in realtà un appello che deve reggere ogni tempo, ogni atto, ogni scelta della vicenda umana. 

L’impegno richiesto da Gesù è continuo e sistematico, avvolge l’intero essere dell’uomo, è come il sentimento materno o paterno che non appartiene solo ad alcuni momenti e ad alcune azioni della giornata ma tocca la persona nella sua totalità. E questo impegno ci induce ad abbandonare gli idoli del denaro, dell’orgoglio, del piacere, della violenza, dell’ingiustizia, delle prepotenze, della guerra, dell’oppressione per scegliere la via del Cristo le cui pietre miliari sono la povertà, la sofferenza, la mitezza, la giustizia, la misericordia, la purezza, la fedeltà anche nella persecuzione. Di fronte alla “Magna Charta” cristiana delle Beatitudini si sono opposte due interpretazioni. 

La prima ha visto in esse la proposta destinata a una minoranza selezionata di “perfetti”, di uomini “spirituali”. L’altra linea interpretativa, già inaugurata da sant’Agostino e dominante oggi, considera più correttamente le Beatitudini e tutto il Discorso della Montagna come un progetto di vita cristiana e un decalogo evangelico proposto a tutti i credenti in Cristo per l’oggi. Il testo, allora, deve essere alla base di ogni esperienza umana cristiana, come suggerisce la liturgia applicandolo alla vita e alla morte, al tempo festivo e a quello feriale, al matrimonio e alla vita religiosa. 

Le Beatitudini dovrebbero essere la pagina da incorniciare all’interno della casa, la preghiera da ripetere ogni mattina, come sembra facesse sant’Ambrogio, la guida per i giorni oscuri e quelli luminosi, la traccia dell’esame di coscienza serale della famiglia, l’eredità più preziosa da lasciare ai figli, quando, al termine dell’esistenza terrena, si proclamerà nella liturgia funebre della speranza pasquale questa pagina della fede pura e dell’amore totale.  

venerdì 18 dicembre 2015

GESÙ E IL DIVORZIO


"Io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di “pornéia”, e ne sposa un’altra, commette adulterio" (Matteo 19,9). 

Eccoci di fronte a un passo che ha suscitato una valanga di interpretazioni e commenti e che ha creato una divaricazione persino all’interno delle stesse Chiese cristiane. Facciamo subito due premesse. 

La prima è estrinseca. Il testo ricorre anche in una delle sei “antitesi” che Matteo colloca nel “Discorso della Montagna”. In esse si illustra non tanto il superamento, ma la pienezza che Cristo vuole far emergere dal dettato biblico. Sul ripudio matrimoniale egli affermava, citando il versetto del Deuteronomio (24,1) sul divorzio: «Fu detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”. Ma io vi dico: «chiunque ripudia la propria moglie – eccetto il caso di “pornéia” – la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (5,32). 

La seconda premessa riguarda il contesto del nostro passo (19,1-9). In esso Gesù, provocato dai suoi interlocutori che lo volevano mettere in contraddizione con la norma sulla liceità del divorzio «per una qualsiasi mancanza», come si affermava nel Deuteronomio, risale alla Genesi che dichiara l’uomo e la donna destinati a diventare «una sola carne» (2,24). Questo è il progetto divino sulla coppia al quale Cristo si allinea, per cui «l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha congiunto» (Matteo19,6). Quella del Deuteronomio è, dunque, un’eccezione concessa «per la durezza del vostro cuore» (19,8). Gesù, quindi, propone nella sua visione del matrimonio il modello dell’indissolubilità. 

Ma a questo punto come spiegare l’inciso – da noi lasciato con il termine greco “pornéia – che presenta un’eccezione? È probabile che qui si sia di fronte a un elemento redazionale introdotto da Matteo per giustificare una prassi in vigore nella comunità giudeo-cristiana delle origini. Sarebbe, quindi, una sorta di norma ecclesiale locale che veniva incontro alla domanda rabbinica sull’interpretazione della clausola del Deuteronomio concernente il caso del divorzio «per una qualsiasi mancanza». Nell’ebraismo si confrontavano due scuole teologiche, l’una più “liberale”, incline a concedere un largo raggio di casi di divorzio (rabbí Hillel), un’altra più restrittiva e orientata ad ammettere solo l’adulterio come giustificazione per il divorzio. 

Quale sarebbe, allora, l’eccezione riconosciuta dalla Chiesa giudeo-cristiana ed espressa con il vocabolo greco “pornéia”? Non può essere, come si traduceva in passato, il “concubinato” non essendo esso un matrimonio in senso autentico, né una generica “fornicazione”, cioè l’adulterio, perché in questo caso si sarebbe usato il termine proprio moichéia. Tra l’altro, è interessante notare che alcune opere dei primi tempi cristiani – come Il pastore di Erma (IV,1,4-8) – e autori come Clemente di Alessandria (Stromata 2,23) dichiarano che il marito che lascia la sposa adultera non può risposarsi perché permane il precedente legame matrimoniale. 

Nel giudaismo del tempo esisteva un termine, zenût, equivalente alla “pornéia matteana (“prostituzione”) che indicava tecnicamente le unioni illegittime come quella tra un uomo e la sua matrigna, condannata già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e dallo stesso san Paolo (1Corinzi 5,1). In pratica, anche se non era in uso allora questa fattispecie giuridica, si tratterebbe di una dichiarazione di nullità del matrimonio contratto, linea seguita dalla Chiesa cattolica sui casi di nullità del vincolo matrimoniale precedente. Sappiamo, però, che le Chiese ortodosse e protestanti hanno interpretato l’eccezione della “pornéia come adulterio e, perciò, hanno ammesso il divorzio, sia pure limitandolo a questo caso. In realtà, la visione di Cristo sul matrimonio era netta e radicale, nello spirito di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca. Se leggiamo il paragrafo integrale (19,1-9) che narra una discussione di Gesù con i farisei, si nota subito l’affermazione del principio dell’indissolubilità matrimoniale, basata sull’asserzione biblica dei «due che sono una carne sola» (Genesi 2,24).

Gesù, però, è anche consapevole che il libro del Deuteronomio avallava il divorzio in caso di «qualcosa di vergognoso» (24,1-4). L’indeterminatezza di questo comma aveva generato due scuole di interpretazione. La prima di "rabbí Hillel" era permissiva: qualsiasi ragione, anche un cibo scotto o l’aver trovato una donna più bella, ammetteva il divorzio. Rabbí Shammai, invece, vedeva in quel «qualcosa di vergognoso» solo cause gravi come l’incesto, lo stupro, l’adulterio. In una società maschilista era solo il marito l’attore giuridico, anche se poi nel giudaismo si cominciò a esigere per il divorzio pure il consenso della moglie. 

Gesù ritiene questa norma mosaica solo una concessione causata dalla «durezza di cuore», cioè dalla coscienza umana malata che si doveva curare pazientemente, ma non era una regola strutturale del matrimonio. Anche alcune correnti giudaiche minoritarie si muovevano in questa linea. Ma, allora, cosa significa l’eccezione che abbiamo lasciato con la parola greca, “pornéia”? Tutto dipende dal significato assegnato a questo vocabolo. Per alcuni qui indica l’adulterio, anche se proprio nella stessa frase per designarlo si usa un verbo specifico, moicheyô, e quindi l’interpretazione – adottata nella prassi delle Chiese ortodosse e protestanti – non sembra pertinente. 

Altri ricorrono all’equivalente ebraico zenût che, in alcuni testi giudaici, rimanda alle unioni illegittime tra consanguinei, condannate dal capitolo 18 del Levitico. Queste unioni erano legali nel mondo pagano: la Chiesa di Matteo riteneva perciò che i pagani convertiti al cristianesimo potessero rompere questi matrimoni. Di per sé, però, non si dovrebbe parlare di divorzio in senso stretto trattandosi di «unioni illegittime» (questa è l’interpretazione e la traduzione della Bibbia della Cei). 

Altri, poi, pensano che Matteo proponga solo la separazione nei casi gravi di “pornéia” del coniuge, cioè della sua “immoralità sessuale” (e quindi anche l’adulterio). In sintesi: Gesù afferma nettamente il principio dell’indissolubilità matrimoniale; la Chiesa di Matteo applica questo principio incarnandolo nelle coordinate concrete della vita pastorale.

Non sappiamo, però, con certezza le caratteristiche di questa attuazione espressa nell’“eccezione” di Matteo: matrimoni illegittimi per l’ebraismo ma legali per i pagani da sciogliere, oppure matrimoni resi insopportabili per grave immoralità del coniuge, o semplice separazione? Quale dev’essere l’equilibrio tra il rigore dei principi e la misericordia pastorale? È ciò a cui si deve impegnare a rispondere la Chiesa nel contesto della sua esperienza nella storia. 

venerdì 11 dicembre 2015

IL MISTERO DEL MATRIMONIO CRISTIANO


Nella tradizione popolare, aprile e maggio sono spesso riservati alle celebrazioni nuziali. Entrando in una chiesa dove i due sposi stanno compiendo il loro atto sacramentale è facile che la "seconda lettura" sia il capitolo 5, nei versetti 21-33, della Lettera di Paolo agli Efesini, presente nel Lezionario liturgico del matrimonio. 

Sullo sfondo domina l’amore del Cristo per la sua Chiesa, punto di riferimento capitale per la visione cristiana del matrimonio. L’insistenza è evidente: «...nel modo che anche Cristo vi ha amato... nel timore di Cristo... come al Signore... Cristo è capo della Chiesa... come la Chiesa è sottomessa a Cristo... come Cristo ha amato la Chiesa... come fa Cristo con la Chiesa... lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa...». Riprendendo la tradizione profetica dell’Antico Testamento, Paolo vede nell’amore matrimoniale il segno dell’amore divino per l’uomo e, nell’infinito e perfetto amore di Dio e del Cristo, il modello verso cui deve tendere la coppia cristiana. 

Su questo testo la tradizione cattolica ha fondato la sua fede nella grandezza sacramentale del matrimonio. Certo, Paolo è legato al suo tempo e alla cultura sia semitica sia greco-romana che concepiva la famiglia in chiave patriarcale. Il tema della «sottomissione» della moglie al marito riflette il diritto antico che considerava la donna un essere subordinato rispetto al primato del coniuge. Tuttavia l’Apostolo apre nuovi orizzonti, sorprendenti per il suo mondo e radice della trasformazione cristiana. Inoltre Paolo sviluppa con un’ampiezza maggiore i doveri dei mariti verso le mogli, rifiutando la concezione secondo cui l’uomo è solo depositario di diritti nei confronti della donna. 

E l’impegno dello sposo è alto: «Amate le vostre mogli... i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo». Un amore totale, spontaneo, simile a quello che si riversa sulla propria personalità (il corpo nella Bibbia è simbolo dell’«io»), anche perché «i due formano una carne sola» (Genesi 2,24). C’è, infine, un’ultima ragione che trasforma la tradizionale visione matrimoniale ed è quella, già indicata, del continuo riferimento a Cristo. La donna si consacra al suo uomo nello spirito della donazione di Cristo verso la Chiesa e l’uomo ama sua moglie come il Cristo «che ha dato sé stesso» per la sua Chiesa. Ecco allora la celebre conclusione: «Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa». 

La parola «mistero», tradotta dall’antica versione latina con "sacramentum", aveva fatto concludere alla sacramentalità del matrimonio cristiano. In realtà il termine «mistero» indica solo il grande piano salvifico di Dio nella storia: il matrimonio ne è il grande simbolo, è la parabola luminosa dell’amore divino. Tuttavia Paolo ci indica così il fondamento per scoprire il valore di salvezza racchiuso nel matrimonio cristiano, essendo il riflesso più alto dell’amore e della salvezza offerta da Dio all’umanità. In tal modo prelude alla qualità “sacramentale” del matrimonio, affermata dalla tradizione dottrinale della Chiesa. 

La nostra riflessione giunge ora a una pagina decisiva del vangelo di Matteo (Mt. 19,3-6). Un gruppo di farisei attira Cristo nel tranello di una disputa giuridica che vedeva pareri contrastanti. Il punto di partenza era l’interpretazione di un passo del Deuteronomio che sanciva le clausole per il divorzio: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa» (24,1). La discussione verteva sull’applicazione e la portata delle due clausole: «Essa non trova grazia agli occhi del marito» ed «egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso». 

Si erano, così, formate due scuole, quella di rabbi Shammai, che intendeva in senso rigoroso il testo e concedeva il divorzio solo in caso di adulterio, e quella di rabbi Hillel, che concedeva per qualsiasi causa il divorzio, anche per la noia di vedere sempre la stessa faccia o per una minestra scotta. Ed è forse a questa seconda ipotesi che gli avversari di Gesù alludono parlando di ripudio «per qualsiasi motivo». 

Gesù rifiuta l’impostazione generale del discorso, evitando di farsi coinvolgere nella rete delle diatribe giuridiche. Egli risale alla radice dell’autentico matrimonio, iscritta nella stessa Creazione, e cita il celebre passo della Genesi sull’unità profonda dell’uomo e della donna in «una carne sola» (2,24). Il progetto verso cui il matrimonio deve tendere non è quello minimalista di un contratto, non è quello che si misura prima di tutto sui limiti e sulle debolezze dell’uomo e della donna. Il modello è, invece, quello totale disegnato da Dio nella stessa Creazione in cui la donazione dei due è piena e reciproca. 

La visione cristiana del matrimonio è, quindi, radicale come lo è tutta la proposta etica e religiosa del Cristo. La donazione dev’essere senza riserve; le incrinature devono essere costantemente ricucite, fondandosi sulla forza del sacramento che fa sì che, «ove due sono riuniti nel nome» di Cristo, egli è là «in mezzo a loro» (Matteo 18,20). La dualità sessuale, che è anche espressione della diversità delle personalità, delle esperienze, dei valori e delle culture, si deve fondere nell’unità dell’amore che nasce da Dio stesso. Accostarsi al matrimonio cristiano è quindi una scelta non di cerimonia, di stile, di sentimento. È una decisione impegnativa, da assumere dopo una rigorosa e intensa preparazione, attraverso una verifica seria e con una promessa di fedeltà esigente. 

Tuttavia, c’è anche la fragilità della creatura umana che non di rado non riesce a mantenersi fedele a quell’impegno nuziale. È su questo aspetto, tra i tanti, che si confronterà il Sinodo dei vescovi prossimamente, cercando di tenere in equilibrio la verità e la misericordia, la meta e il percorso spesso accidentato che a essa conduce.


lunedì 7 dicembre 2015

I SETTE VIZI CAPITALI




I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati «peccati capitali». Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto. 

Nella dottrina morale cattolica, i vizi capitali sono le principali abitudini non ordinate verso il Bene Sommo, cioè Dio, dai quali tutti i peccati traggono origine.
  1. Superbia 
  2. Avarizia 
  3. Lussuria 
  4. Invidia 
  5. Gola 
  6. Ira 
  7. Accidia 

La Superbia è una radicata convinzione della propria “superiorità”, reale o presunta, che si traduce in atteggiamento di altezzoso distacco o anche di ostentato disprezzo verso gli altri, e di disprezzo di norme, leggi, rispetto altrui. Secondo la chiesa il peggiore dei sette vizi è la «Superbia», poiché con questo sentimento si tenderebbe a mettersi sullo stesso livello di Dio, considerarlo quindi “inferiore” a come dovrebbe essere considerato. Infatti, nella dottrina cristiana, è proprio la «Superbia» il peccato di cui si sono macchiati Lucifero, Adamo ed Eva. Questi “sette” vizi, sono raffigurati anche nella "Divina Commedia" di Dante Alighieri sotto forma di bestie selvatiche (lupa; leone; lonza) incontrati da Dante nella selva oscura, all'inizio della sua avventura. La «Superbia», concludendo, è “Amor di sé” spinto fino all’eccesso di considerarsi principio e fine del proprio essere, e per ciò stesso al colpevole disconoscimento della propria condizione di Creatura. La «Superbia» è la sopravvalutazione della propria persona e delle proprie capacità, correlata ad un atteggiamento di “superiorità” verso gli altri considerati “inferiori”. Nella religione cattolica è considerato il peggiore tra i “sette” vizi capitali, contrapposti alle “tre” virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) e alle “quattro” virtù cardinali (Giustizia, Fortezza, Temperanza, Prudenza). Il superbo tende a comportarsi in maniera scorretta perché ritiene di essere migliore degli altri. 

L’Avarizia è una scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede, taccagneria, avidità; per «Avarizia» si intende la riluttanza ad offrire se stesso ma sopratutto le proprie cose, ciò che si possiede. Talvolta si confonde con l’Avidità che invece indica il desiderio di accrescere i propri beni. L’ avaro è concentrato nella conservazione meticolosa di ciò che già ha. L’«Avarizia» è elencata tra i “sette” vizi capitali secondo la Chiesa cattolica. I Buddhisti credono che l’«Avarizia» sia basata su una scorretta associazione tra benessere materiale e felicità. Essa è provocata da una visione illusoria che esagera gli aspetti positivi di un oggetto. 

La Lussuria è una incontrollata sensualità, irrefrenabile desiderio del piacere sessuale fine a sé stesso, concupiscenza, carnalità; La «Lussuria» è l’abbandono al piacere sessuale. Oggigiorno il termine «Lussuria» è in disuso in ragione del fatto che si ritengono normalmente accettabili i comportamenti sessuali che coinvolgono adulti consenzienti. Per i cattolici é uno dei “sette” vizi o peccati capitali, il “vizio impuro”, al di fuori della norma morale. Secondo le elaborazioni dottrinali della teologia morale del Cattolicesimo , la «Lussuria» è causa di svariati effetti negativi, alcuni dei quali aventi una preminenza in ambito religioso, ed altri intervenendo più specificatamente sul libero arbitrio in quanto provoca grave turbamento della ragione e della volontà, accecamento della mente, incostanza ed incoerenza, egoismo ed incapacità di controllare le proprie passioni. Nella dottrina cattolica classica, la «Lussuria» è frutto della concupiscenza della carne ed infrange sia il “Sesto Comandamento” che vieta di commettere atti impuri sia il “Nono” che riguarda il desiderare la donna d’altri. Fra questi atti impuri la Chiesa indica tanto le azioni concrete materialmente compiute in materia di sessualità non finalizzata alla procreazione e all’unione in seno al matrimonio, quanto il solo desiderio e l’immaginazione (“chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.”, Vangelo di Matteo 5,28). Tuttavia è interessante notare come nel Deuteronomio e nel libro dell’Esodo della Bibbia il “sesto comandamento” sia in realtà “Non commettere adulterio”; questo rivela un’intenzione originale di focalizzarsi più sulla fedeltà coniugale, che su un più generale controllo delle proprie passioni sessuali. 

L’Invidia è Tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio. Stato d'animo o sentimento spiacevole che nasce dal volere per sé un bene o una qualità altrui. L'«invidia» è spesso accompagnata da avversione e rancore verso chi possiede tale bene o qualità, che porta l'invidioso ad augurare il male all'altro, di modo che il dolore e la tristezza possano così oscurarne le qualità o diminuire la felicità che ne consegue. L'invidioso prova risentimento e astio per la felicità, la prosperità e il benessere altrui, sia che egli si consideri escluso ingiustamente da questi beni, sia che già possedendoli, ne pretenda l'esclusivo godimento. Per questo, l'«invidia» è la pretesa di esclusività delle doti o qualità, pretesa di esclusività che nasce dall'incapacità di rinunciare al proprio orgoglio, il quale è continuamente scelto sopra ogni cosa, portando all'«invidia» di tutti, che è vera e propria infelicità. Nel Cristianesimo, l'«invidia» è un vizio capitale perché, come la superbia, porta all'eccessivo amore di sé a scapito dell'amore fraterno e dell'amore per Dio, creando così una grande possibilità per l'azione del male. 

La Gola è meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo; Il vizio della «Gola», che in questi anni viene poco valutato, anche questo ha la sua gravità, perché lo scopo dell'esercizio di questo vizio è quello di rendere le persone incapaci a seguire e a raggiungere uno scopo. Il vizio della «Gola» introduce la persona a essere schiava; schiava di sé stessa, e in particolare non schiava dell'intelligenza, non schiava della volontà, non schiava delle emozioni, ma schiava delle sensazioni. Quindi il vizio della «Gola» ha lo scopo di introdurre la persona a diventare schiava delle sensazioni: sensazioni piacevoli da seguire sempre, sensazioni spiacevoli da sfuggire sempre. Allora il cibo è da sempre una sensazione piacevole. Il vizio della «Gola» non vuol dire che tu ti devi cibare di tutte le cose più orrende e più disgustose. Il vizio della «Gola» ti dice che tu devi appagare tutto quello che desideri. 

L’Ira è il desiderio di vendicare violentemente un torto subito; con il termine «Ira» (o impropriamente rabbia) si indica uno stato psicologico alterato, in genere suscitato da un elemento di provocazione, capace di rimuovere alcuni dei freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto.  L’iracondo è caratterizzato da una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno. L’«Ira», specialmente intesa come sentimento di vendetta, è uno dei sette vizi capitali, da cui bisogna astenersi sempre e in ogni caso. Ciò malgrado, la Bibbia contiene numerosi riferimenti all’Ira di Dio. 

L’Accidia è torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene, pigrizia, indolenza, infingardaggine, svogliatezza, abulia. L’«Accidia» è Indolenza, Riluttanza verso ogni tipo d’operosità mista a noia e indifferenza. Nell’antica Grecia il termine indicava la mancanza di dolore, l’indifferenza e quindi la tristezza e la malinconia. Il termine fu ripreso in età medievale, quale concetto teologico indicante il torpore malinconico che prendeva coloro che erano dediti a vita contemplativa. Il significato del termine è oggi vago, ma resta fortemente connotato, nelle culture cristiane, di implicazioni moralistiche e negative. Nel cattolicesimo l’«Accidia» è uno dei sette peccati capitali ed è costituito dall’indolenza nell’operare il bene. 





venerdì 4 dicembre 2015

LE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALI E SPIRITUALI


Le opere di misericordia sono quelle richieste da Gesù nel Vangelo (Matteo 25) per trovare misericordia (ossia perdono per i nostri peccati) ed entrare quindi nel suo Regno. La tradizione cattolica ne elenca due gruppi di sette.
Le opere di Misericordia Corporale
  1. Dar da mangiare agli affamati.
  2. Dar da bere agli assetati.
  3. Vestire gli ignudi.
  4. Alloggiare i pellegrini.
  5. Visitare gli infermi.
  6. Visitare i carcerati.
  7. Seppellire i morti.
 Le opere di Misericordia Spirituale

  1. Consigliare i dubbiosi.
  2. Insegnare agli ignoranti.
  3. Ammonire i peccatori.
  4. Consolare gli afflitti.
  5. Perdonare le offese.
  6. Sopportare pazientemente le persone moleste.
  7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Si possono fare tre indicazioni che possono valere per tutti, non solo per i cristiani, ma anche per le donne e gli uomini di buona volontà. 

La prima: Le opere di misericordia corporale ci consolano perché non chiedono azioni difficili che solo pochi sarebbero in grado di realizzare, ma «sette» forme di «carità» possibili a tutti. Ognuno può privarsi di un po’ di cibo o di un vestito, essere vicino a persone ammalate, partecipare alla S. Messa di esequie per un defunto. Con queste opere semplici possiamo arricchire la nostra vita di frutti di «carità» i quali saranno graditi al Signore quando lo incontreremo nel momento della morte. Accanto a lui ci aspetteranno i poveri che abbiamo aiutato e che intercederanno a nostro favore: «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza perché, quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9). 

La seconda indicazione è di pregare “lo «Spirito Santo» perché ci liberi dalla tentazione dell’indifferenza e renda il nostro cuore più generoso verso chi invoca aiuto”. E di aprirsi “ad un orizzonte di bisogni che superano ogni nostra possibilità di rispondere adeguatamente". Essi ci mettono davanti milioni e milioni di persone, spesso bambini, che muoiono di fame, che non hanno vestiti per difendersi, che non hanno nessuno che li soccorre quando sono malati. Cosa fare di fronte a simili bisogni, spesso frutto di gravi ingiustizie create dalle nostre società del benessere? Cosa ci chiede Gesù? Come potremo rispondere di fronte a lui? 

Una reazione non infrequente è quella di tapparci occhi e orecchi per non sentire i gemiti e non vedere certi volti consumati dal bisogno. Di conseguenza, la coscienza, un po’ alla volta, rischia di fasciarsi di quella indifferenza, denunciata con forza da Papa Francesco nel suo messaggio per la quaresima. 

La reazione del cristiano, invece, è quella di tenere lo sguardo spalancato sui troppi poveri e sofferenti. Di fronte a loro riconosciamo, con sincera umiltà, di fare poco sia perché non abbiamo molti mezzi, sia perché abbiamo poco coraggio e generosità. Sempre con umiltà, però facciamo quel poco che possiamo anche se sembra una “goccia nell’oceano”. 

Da ultimo l’arcivescovo sottolinea che non è solo il vangelo ad invitare “ad aiutare i poveri e i sofferenti. Un atteggiamento di filantropia e di compassione è raccomandato da tutte le religioni e filosofie. Solo Gesù, però, dice: «Quando hai dato da mangiare ad un povero, hai dato da mangiare a me». Il cristiano aiuta chi soffre perché in quel fratello debole vede il suo Signore che lo aspetta e misura la generosità del suo cuore. E conclude “alla fine della vita ci aspetteranno i poveri che abbiamo aiutato e tutti avranno il volto di Gesù”. Proviamo ora a fare una breve «sintesi» delle “opere di Misericordia”.

CORPORALI

Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi; Queste prime tre opere, come quelle che seguono, si riferiscono alle preoccupazioni primarie della vita: «mangiare, bere, vestire, ospitare, curare, visitare, seppellire». Si deve riflettere però sul fatto che quanto più evoluta si fa la vita, tanto più le situazioni materiali in cui bisogna praticare la carità assumono aspetti ed esigenze nuove. Essere attenti perché ai fratelli non manchi il lavoro è indubbiamente come dar loro da mangiare, da bere, da vestire; è come aiutarli ad essere inseriti in modo degno nel contesto della società in cui si muovono. Si deve quindi trovare l'impegno per far sì che ogni persona abbia il proprio lavoro, eliminando l'egoismo di chi ha troppo. Ognuno pensa a sé senza riflettere, senza considerare che il suo star meglio può essere pagato da qualcuno col suo star peggio. 

Ospitare i pellegrini; La mentalità attuale, consumistica ed egoista, è in netto contrasto con la carità cristiana e solo le opere di misericordia possono aiutare a trovare una coscienza e una coerenza evangelica. Nella realtà odierna ospitare i pellegrini non è offrire un semplice aiuto, ma aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Accogliere il pellegrino, lo straniero, è fare loro spazio nella propria città, nelle proprie leggi, nella propria casa, nelle proprie amicizie, mentre spesso oggi l'aridità d'animo non è sensibile alle necessità del fratello che si trova in stato di bisogno. 

Curare gli infermi; Questa opera di misericordia deve essere ripensata, rivissuta ed anche rivalutata come cultura, come costume, come segno di civiltà e di rispetto della vita. Bisogna porre fine alla consuetudine di scaricare all'ospedale l'ammalato abbandonandolo con i suoi problemi, con i suoi dubbi e le sue incertezze; l'ammalato, ovunque si trovi, bisogna visitarlo, bisogna stargli vicino, bisogna dargli conforto e riconoscergli una priorità di affetti. 

Visitare i carcerati; Anche per questa opera si pone il problema della sua rivalutazione per il suo significato e il suo grande valore sociale. Visitare i carcerati oggi non vuole significare soltanto andare dentro un carcere, ma anche aiutare, comprendere, accogliere, sostenere con partecipazione e condivisione i congiunti che sono fuori, in un carcere invisibile costituito dall'emarginazione e dall'indifferenza in cui sono costretti a vivere. L'impegno quindi è importante e anche oneroso: sarà tanto più significativo per quanto, attuato con spirito di comprensione e di partecipazione, potrà rappresentare prevenzione verso il crimine ed educazione alla libertà, bene comune e irrinunciabile. 

Seppellire i morti; Da sempre le confraternite di Misericordia svolgono questo compito per il suo vero significato: il rispetto dell'uomo anche nel suo ultimo viaggio. L'hanno praticata fin da quando i fratelli della Misericordie, con atto di umana pietà, si chinavano per strada o nei lazzaretti per raccogliere gli infelici deceduti. È un'opera che autentica e testimonia lo spirito del nostro essere cristiani.

SPIRITUALI

Consigliare i dubbiosi; È difficile trovare qualcuno che s'impegni a rasserenare chi è nel dubbio, ad offrirgli la comprensione fraterna e il suo aiuto. La cultura del dubbio va sempre più diffondendosi: tutto è opinabile, tutto è precario, niente è certo. Ecco allora che questa mentalità, così distruttiva e logorante del cuore e dello spirito umano, trova soccorso nell'opera del fratello della Misericordia che, superando anche lo stato d'isolamento in cui si vive, interviene a sostegno di chi non sa cosa pensare, cosa dire o cosa fare. 

Insegnare agli ignoranti; Il servizio della verità, con il suo coraggio, la sua generosità, deve essere offerto agli sprovveduti davanti alle necessità della vita, oppure inermi e indifesi nel travaglio dei rapporti sociali.
Si deve avere più misericordia verso chi fatica, verso chi non sa farsi le proprie ragioni o non sa vedere gli obiettivi della vita, senza però disprezzare chi in qualche modo invece vorrebbe imparare a valutare le ragioni dell'esistenza, le prove della vita, la promozione umana. 

Ammonire i peccatori; Questa dovrebbe essere un'opera di ammonimento, di richiamo, di correzione. Purtroppo è poco praticata anche se la sua necessità è più che mai presente. Non la si deve considerare come un «giudicare gli altri», ma da fratelli porgere la mano, aiutare, prevenire l'incauto, soccorrere il distratto, impedire al fratello di mettersi su di una strada sbagliata. 

Consolare gli afflitti; Invece di ritenere le quotidiane tribolazioni della vita una provocazione per aiutare chi si trova nella difficoltà, spesso ci si chiude nel nostro guscio, nel più completo egoismo, fingendo di non sapere, di non vedere, pensando così di essere dispensati dal condividere, dal partecipare, dal solidarizzare con colui che ci sta accanto. Il fratello della Misericordia, sensibile a queste difficoltà e ai travagli della vita, apre invece il suo cuore all'afflizione e al dolore dando certezze, fiducia, speranza, non limitandosi però a consolare l'afflizione, ma impegnandosi a concorrere all'eliminazione delle cause che la provocano. 

Perdonare le offese; La carità del perdono deve essere stile di vita del confratello. Il saper perdonare è indice della libertà, della generosità, del cuore, della capacità di amore incondizionato; è espressione di un cuore misericordioso; è trasformazione del perdono in fraternità vissuta, in cordialità manifestata, in profonda reciprocità di sentimenti. 

Perdonare pazientemente le persone moleste; È un'opera di Misericordia così concreta che si può considerare corporale e non solo spirituale poiché molte volte è un'ingombrante pesantezza di presenza, di pretese, di egoismi, di stranezze mentali. 

Pregare Dio per i vivi e per i morti; È degna opera di misericordia legata a tutta quella teologia e morale cristiana che avvolge il mistero della vita che non ha soltanto un suo inizio, ma anche la sua conclusione nella morte. Spesso di fronte ai problemi delle cose ultime si trovano soluzioni di comodo per distogliere l'attenzione del cuore e dello spirito di fronte a questa realtà, come ad esempio delegare le istituzioni. Un uomo che muore non necessita di una istituzione, ha bisogno di un fratello che gli faccia sentire che non è solo, un fratello che tenendolo per mano gli faccia comprendere che il morire non rompe la solidarietà, non compromette la vita, ma ha invece il significato di trasfigurazione delle cose che passano in quelle che non passeranno più. Le Misericordie sono molto attente a questa opera, convinte che il loro volontariato non è qualcosa in più del dovere, ma in realtà cerca di compensare un preciso dovere di tutti.